giovedì 12 gennaio 2017

MARIA RIZZI SU "IL MIO EXODUS" DI U. CERIO


Umberto Cerio,
collaboratore di Lèucade

IL MIO EXODUS
 
Maria Rizzi,
collaboratrice di Lèucade
Umberto Cerio nello splendido, originalissimo Poemetto “Il mio Exodus” porta avanti una disamina in versi sui tanti popoli costretti a scappare dalle proprie terre: cita le fughe degli Ebrei, destinati, come disse Primo Levi, a “essere depositari di legami interni molto forti, di natura religiosa e tradizionale e, di conseguenza, a dispetto dell’ inferiorità numerica e militare, a opporsi con disperato valore alle conquiste da parte dei romani e a essere sconfitti, deportati, dispersi, senza perdere quel legame”; descrive l’esodo del popolo afgano che sin dal III millennio a. C. si scontrò con etnie diverse, fino a entrare nella sfera della civiltà ellenistica. Gli afgani , in seguito, furono soggetti ad altri esodi, fino a quando l’invasione araba , con la progressiva islamizzazione del territorio, li inserì nella più ampia storia persiana e, quindi, in quella dell’impero arabo e poi musulmano. E termineranno mai le fughe di questi e di troppi altri popoli dalle terre che amano? Le guerre, la povertà, la fame rendono inevitabili gli esodi, che rappresentano una della miserie più grandi del secolo che viviamo. Nel Poemetto l’Autore, con ispirazione autentica e afflato lirico sorprendente, realizza l’allegoria tra questi esodi e la propria condizione di esule. Di uomo che è in continua fuga dalle barriere di un tempo insostenibile. Di uomo che continua a infrangersi contro ‘mura di dolore’ e, da ‘un oscuro ignoto’ mira alla luce, Cerio non si chiede se per l’esule, per l’individuo della storia che viviamo, che è appartenuta da sempre all’uomo, esiste la possibilità di una meta. Il suo cantico mette in risalto quanto il viaggio annulli l’origine, il senso e la fine dell’avventura terrena. 

Egli si sente in perenne fuga ‘nel male più duraturo del bene’, destinato all’ebbrezza di avventure mai vissute’, alla valigia pesante dei ricordi sulle spalle, stanche del presente e con i piedi già piantati nell’idea di un  futuro.

Futuro di domande, di misteri… L’uomo ha perso nel viaggio la ‘ragione di questo suo lunghissimo andare’. La chiusa del Poemetto è folgorante e buia, mi si perdoni l’ossimoro, echeggia Cardarelli e i suoi gabbiani, destinati a vivere ‘balenando in burrasca’.


Maria Rizzi



IL MIO EXODUS

Exodus di antichi Greci cacciati
da gente violenta del Nord
nella terra di Pandione e di Egeo;
exodus dei Troiani superstiti
dalla distruzione spietata di Ilio
( compiuta damolte stirpi dei Greci)
che il pianto di Omero immortala;
exodus circolo eterno di fughe,
seminatore di morte, invocata
giustizia di uomini e donne,
conforto di vittime-padri
sicari per vendette implacabili,
per furore di sventure perenni
sei ancor oggi nel cuore del tempo.

Exodus della presaga Cassandra
che scova come un segugio
di Agamennone nell’infida reggia
tragiche tracce di antichi delitti
e trepida Scamandro invoca
-acqua lustrale della sua terra-
mentre in Argo sulla polvere muore
nella casa ove s’è insediato un coro
intonato e straziante, che canta la morte,*
e dove di sangue s’è ubriacato il coro
delle Erinni,* nate dal sangue di Urano
da Cronos castrato, offesi spiriti
di Giustizia per l’ara rovesciata
e di Vendetta che chiama altro sangue,
sei ancor oggi un canto straziante.

Exodus  di Ebrei schiavi d’Egitto
che liberi si fanno nella terra
promessa attraversando il deserto
di sabbia e di sole brucianti
e il deserto della loro ragione:
eressero allora l’idolo d’oro
che li inchioda alla terra violata
persecutori ora di popoli
che giurano Giustizia e Vendetta;
exodus di Maometto a Medina,
che con la sua higra un popolo sperso
tra le onde delle dune di sabbia
plasmò nel palmo del deserto
al respiro di pazienti cammelli,
siete il coro di lunghe torture
che risuona nelle valli di morte
al lamento perpetuo delle madri.

Exodus afgano prima di guerre
di vendette, fuga di asini lenti
e nere masserizie, simboli d’atavica
miseria di oscuri Musulmani
ai margini del mondo
che non hanno sognato paradisi
e delizie promesse,
sei indovino di terrore
nelle ossa tremanti di fatica
e dolore della morte violenta.
Nell’oriente lontano e misterioso
in migliaia di anni
intere stirpi di eroi quotidiani
hanno forgiato arte
e cieli tersi su cime di monti
ove i morti saranno sepolti
tra macerie di frantumi e speranze
e macerie di giorni e di notti.

Non cresceranno mai fiori
sulla terra dove madri bendate
avranno sepolto figli massacrati
e figli sepolto padri traditi,
dove padri e figli attendono insieme
il silenzio perenne delle stelle,
l’eterno freddo della morte.

Non cresceranno mai alberi sacri
su pietre dove imputridito sangue
di ignari eroi senza nome
si disperde nero e aggrumato
ai rari morsi di uccelli rapaci
e corpi insepolti offerti alle fiere
nei templi del silenzio
dove l’amore è forse da tempo
solo infinita immagine vuota
negli occhi perduti tra cielo e rocce.

Exodus, mio exodus terribile,
che mi dai insaziata libertà
e speranza di vivere e amare,
scardini porte di acciaio serrate,
sfondi soffitti e pareti di pietra,
voli negli spazi aperti del mondo
oltre le mura del dolore.

Exodus, oh! mio exodus
atteso una vita,
sei fuga interiore alla luce
da un oscuro ignoto,
crollo aereo che esplode nel buio
e infrange barriere del cuore.
Mio exodus, viaggio infinito
dell’uomo sapiente e blasfemo
che torna alla terra dove nacque
-dopo oscure minacce di morte-
che sa i giorni dell’ansia bruciante
e le notti di angoscia o di attesa,
nei dubbi atroci della memoria
sei cammino ritrovato e perduto.

Exodus, mio exodus senza fine,
errare senza sapere più dove,
viaggio che comincia alla luce
del fuoco greco e di tede augurali,
fino alle torce, alle lanterne a gas,
alle gelide  lampade del neon
e al raggio tagliente del laser,
mio exodus ancora senza fine,
oh! exodus senza mai una fine,
senza vanità di gioie e speranze,
ebbrezza di avventure mai vissute,
sei la storia della vita dell’uomo,
nel male più duraturo del bene,
che ora ha smarrito nella spelonca
dei giorni la ragione segreta
di questo suo lunghissimo andare.

*Eschilo, Agamennone, traduzione di P.P. Pasolini.

Umberto Cerio       2006









9 commenti:

  1. Parte da lontano, Umberto Cerio nell’originale e arrivante Poemetto “Il mio Exodus” con una disanima di alcuni tra i più importanti esodi della storia. Ma non di mera costruzione poetica si tratta ma di vissuta partecipazione, sofferto cammino insieme a "asini lenti / e nere masserizie", nelle "valli di morte" che risuonano "al lamento perpetuo delle madri". E già in questi versi, altamente lirici e struggenti cogliamo tutto il dolore del Poeta che fa sua la sofferenza, l’umiliazione, l’angoscia di queste genti "che non hanno sognato paradisi / e delizie promesse", che li hanno indotti a partire ché, chiarisce l’autore "Non cresceranno mai fiori / sulla terra dove madri bendate / avranno sepolto figli massacrati / e figli sepolto padri traditi." E coglie con la sua vibrante sensibilità l’aspetto di angoscia, orrore e violenza proprio di ogni esodo. E sin dai primi versi evidenzia la ciclicità di questi eventi dolorosi che tanta parte della storia dell’Uomo hanno tristemente caratterizzato: "exodus circolo eterno di fughe /seminatore di morte invocata /giustizia di uomini e donne…"
    E come non pensare agli esodi dei giorni nostri le cui immagini di sofferenza e atrocità inaudita sono quotidianamente sotto i nostri occhi?

    E dagli esodi dei popoli, il Poeta passa a quello suo personale: "Exodus, mio exodus terribile… Exodus, oh! mio exodus / atteso una vita", ché il Poeta è sempre alla ricerca di un altro se stesso, di poter quasi fuggire dal suo corpo, gabbia e prigione della sua anima, per placare la sua "insaziata libertà" alla ricerca della "…speranza di vivere e amare" giacché i Poeti sono anime inquiete, che “sentono” più degli altri, “partecipano” più degli altri e più degli altri “soffrono”.
    E ben dice Maria Rizzi quando parla di “ispirazione autentica e afflato lirico sorprendente”.
    E non posso che ringraziare il Poeta per questi suoi sofferti versi che tante riflessioni, considerazioni e, forse, anche qualche senso di colpa suscitano nel lettore.
    Ester Cecere

    RispondiElimina
  2. E' tragedia, è lamento, questo appassionato poemetto che rivisita la storia del male dell'uomo. E' dolore che la parola exodus richiama dal vero ("canto straziante" "coro di lunghe torture"..) , ma soprattutto è grido di partecipata afflizione: "Exodus, mio exodus terribile.." e "Exodus,oh! mio exodusatteso una vita..." e " ...mio exodus senza fine." , fino alla terribile chiusura messa in evidenza da M.Ricci nelle parole finali del suo intervento.
    Nel misterioso viaggio della vita ognuno di noi usa i mezzi che più gli sono congeniali per esprimere gli infiniti dubbi le perplessità le ribellioni di fronte al mistero della vita e della morte. Ognuno soffre o gioisce con i suoi simili, esalta o condanna le azioni del passato e del presente, ma in fondo ha ragione il Poeta -ognuno sta solo sul cuor della Terra -, ognuno è solo con la sua coscienza, con i suoi pensieri, con la sua spiritualità che può fargli vedere un significato nel suo stesso esistere. E' vero, l'uomo oggi ha smarrito il significato della vita, ha smarrito la fede, non solo in Dio, ma soprattutto nell'uomo, suo simile. E' forse questa la causa del credere che il male sia " più duraturo del bene".
    Edda Conte.

    RispondiElimina
  3. "Le guerre, la povertà, la fame rendono inevitabili gli esodi, che rappresentano una delle miserie più grandi del secolo che viviamo". Così scrive Maria Rizzi in questa recensione del poemetto di Umberto Cerio, focalizzando il nucleo principale della poetica del noto cantore molisano, la cui fertilissima penna pone in luce, da sempre, l'eternità dello spirito umano, le cui radici profonde si rigenerano ad ogni stagione, riaffermando se stesse con nuove gemme e nuovi frutti, con inedite variazioni musicali. Il tema di fondo è qui evidenziato dall'esodo, dalla diaspora, dalla tragedia odisseica di Adamo che fugge da se stesso cercando paradossalmente se stesso, e viceversa: un dramma che risuona con echi teatrali, da tragedia classica, e riferimenti coltissimi, come quello della traduzione pasoliniana dell'"Agamennone" eschileo. E trovo molto appropriato il richiamo cardarelliano, cui accenna in chiusa la Rizzi, con quei gabbiani cui il poeta dichiara di somigliare, cercando come loro "la gran quiete marina", ma sapendo che il suo destino è di "vivere balenando in burrasca".
    Franco Campegiani

    RispondiElimina
  4. Umberto Cerio scrivendo il poemetto il mio Exodus
    parte dalle origini per arrivare fino ad oggi, attraverso il suo sensibile sentire, la profonda conoscenza, tocca le vicende di tutti i vari territori che sono stati e sono afflitti da questa grande piaga umana. Piaga che nasce dalla necessità di fuggire dalla miseria, dalle guerre, dai soprusi nella ricerca estrema di una dignità che li possa far risentire "esseri umani". Molti versi di questo canto mi hanno colpita come
    ...Non cresceranno mai fiori
    sulla terra dove madri bendate
    avranno sepolto figli massacrati
    e figli sepolto padri traditi,
    dove padri e figli attendono insieme
    il silenzio perenne delle stelle,
    l’eterno freddo della morte....

    forse perché avevo tempo fa affrontato questa tragedia con una mia lunga lirica che mi ha fatto capire quanta unione di anime si trova nella poesia.

    ...nella nebbia ghiacciata che gli occhi cerchia
    e l’azzurro delle vene intaglia di supplizi, in colpa di sentirsi vive, la voce rappresa, labbra secche e dure compresse dallo sguardo,
    Madri dolenti già col drappo nero ostinate a filare nodi a rendere leggera la paura, la loro carne (cresciuta all’ombra di piombo delle palme)
    guardano avanzare per antichi calvari
    ad essere d’un credo banditori e, quando i corvi arcuati calano dal cielo (sgrondando brividi dai denti) banditori divengono di morte ad una terra uniti che respira sangue sulla quale colano le lacrime e la Luce...
    ho voluto postare questi miei versi per essere vicina al dolore poetico di Umberto Cerio, per condividerlo con lui affinché in tutti possa crescere sempre più una coscienza di solidarietà che dia maggiore pregnanza e valore alla nostra vita.

    Emma Mazzuca

    RispondiElimina
  5. L'exodus terribile di Umberto Cerio si incarna in un circuitare di storie e situazioni nomadiche a richiamo anche mitologico di popoli vari. Questa fuga lirica si eterna altresì in scenari naturali (deserti... vallate... montagne...) in dettagli di animali (uccelli... cammelli...) che si coevolvono in metafore di lamenti collettivi orizzontali e verticali identitari. Libertà, speranza, dolore, gioia, cattività...: non esiste alternativa "al viaggio" ritrovato o perduto da esodo di gruppi, di popoli, di tragedie, di eventi. Tutto è "movimento" e questo poemetto ne sintetizza tempi e modalità operative in un esposizione compositiva che travalica ogni immaginario nella realtà del vissuto. La concretezza del dinamismo diviene la ragione segreta di intere comunità storiche e non solo (Greci, ebrei, afgani...) esprimendosi in progressive sensazioni poetiche estensibili a dimensionalità extra territoriali-temporali oltre un sentire ordinario e quotidiano. Ogni exodus per il poeta è vitalità in divenire tra dubbi e tormenti che si trasmettono fortemente in ogni verso e parola interiorizzando le convergenti divergenze di esseri e cose. Il poeta vive la ricerca del motivo più profondo e del mistero nell'affrontare il viaggio altrui e il proprio sino alla totalizzazione della storia di essere. La grande capacità di trasmettere contenuti evocanti caratterizza altresi la sensibilità delle forme decodificate nelle parole e storicizzate nell'itinerario degli eventi. In sostanza Cerio tende a delineare il suo progetto in un infinitudine sofferente di orizzonti inaccessibili e agognati che solo l'artista può realizzare.
    Marco dei Ferrari

    RispondiElimina
  6. Ringrazio Maria Rizzi per la sua significativa recensione che ha colto alcuni punti salienti del poemetto, arricchendo il testo e proponendo una discussione proficua. Ringrazio anche Ester Cecere, Edda Conte, Franco Campegiani, Emma Mazzuca e Marco dei Ferrari, per le loro note molto significative e piene di osservazioni che hanno arricchito il testo del poemetto.
    Umberto Cerio

    RispondiElimina
  7. Un grazie particolare a Nazario Pardini per la sua sensibile e significativa ospitalità; a Pasquale Balestriere per la sua splendida recensione a IL MIO EXODUS che nulla ha tralasciato nella sua penna per esprimere le sue essenziali e sapide note all'intero poemetto. Grazie anche a Miriam Binda, Emanuele Aloisi, Giannicola Ceccarossi, Adriana Pedicini, Carla Baroni, Franco Campegiani, perché ognuno ha dato un contributo significativo arricchendo il senso del testo proposto alla lettura, che si ritiene attenta, coinvolgente e interessata. Di nuovo un grazie cordiale.

    Umberto Cerio

    RispondiElimina
  8. Ringrazio di cuore il carissimo Nazario che mi ha dato l'opportunità di leggere e provare a commentare l'Opera di Umberto Cerio. Sono consapevole che Pasquale Balestriere ne ha esaminato tutti gli aspetti in modo pregnante, prendendo in considerazione tutti gli aspetti dell'Exodus e mi inchino alla sua capacità critica. Ringrazio altresì tutti coloro che sono intervenuti dando al Poemetto il valore che merita: Ester Cecere, Edda Conte, Franco Campegiani, Emma Mazzuca, Marco dei Ferrari...
    Maria Rizzi

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cara Maria Rizzi,
      solo ora leggo il tuo ringraziamento. Per quanto mi riguarda, devo precisare che non sapevo che su questo blog sarebbero uscite contemporaneamente ben due pagine sull'Exodus di Cerio. "Melius abundare" avrà pensato il buon Nazario. Quanto al resto, sono fermamente convinto che ogni lettura accresce il ventaglio esegetico di un testo, proponendone una visione parzialmente diversa. E questo è segno di ricchezza critica. Il tuo intervento, come pure il mio, vanno in questa direzione. E solo questo conta.
      Un caro saluto
      Pasquale Balestriere

      Elimina