giovedì 2 marzo 2017

"CANTICI" LA NUOVA SILLOGE DI N. PARDINI

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DAL TESTO



Prefazione


Raffronto fra un passato divenuto favoloso e un presente assorto e vespertino

La raccolta è divisa in due parti di cui la prima, "La barca", composta da tredici "Cantici" (Dell'aia, Del sole, Della campagna, Dei pini, Del mare, Del fiume, Dell'autunno, Della sera, Dell'alba, Della vita, Dell'amore, Della barca, Della Bellezza) è un'evocazione mitizzante degli anni di giovinezza mentre la seconda (Anatomia della sera), riferita al presente, in forma di ripiegamento patetico, è una rivisitazione di quei luoghi e una meditazione sul tempo che trascorre e tutto travolge e muta. Al clima arcadico dei Cantici seguono i toni sommessi  e le tinte crepuscolari di Anatomia della sera. Ripercorrono l'orma dei Canti dell'assenza questi Cantici di Nazario Pardini nel ritracciamento di quel patrimonio affettivo di ricordi, lontani nel tempo ma radicati e vividi nella mente. Il mondo rievocato è il mondo agreste della provincia toscana negli anni del dopoguerra, cantato pascolianamente cinquant'anni dopo le Myricae e i Canti di Castelvecchio del genio romagnolo. L'adesione al modello pascoliano è evidente nella fervida cordialità dell'esposizione,  nella nitidezza descrittiva, accresciuta dalla molteplicità dei dettagli ambientali e dall'appropriatezza della terminologia zoologica o botanica e, caratteristicamente, nella disposizione d'animo ad affiancare la pittura idilliaca al ripiegamento intimistico, patetico o filosofeggiante.
   Lungo questo sentiero Pardini calibra e affina ulteriormente i già cospicui mezzi letterari esibiti nell'opera precedente giungendo a configurare un prosimetro simultaneo perfetto, una sorta di versificazione della prosa, dove un eloquio strutturato, per lessico, ritmo e sintassi, sul modulo della prosa viene scomposto in versi. Si tratterebbe, di fatto, di  una forma che realizza una conciliazione fra prosa e poesia metrica, di una sorta di "narrazione metrica", in cui la versificazione appare come un sistema metrico aperto, variabile, imperniato e ritmato su una misura dominante  che può essere costante ed esclusiva  (v. ad es. Ottobre, formata da soli endecasillabi) oppure presente in sequenze di varia durata intervallate da misure accessorie. Così ne Il cantico dei pini la cadenza dominante  di endecasillabo è sincopata da un quinario all'undicesimo verso e da un distico di settenari ai vv. 16 e 17 mentre i due alessandrini ai vv. 10 e 22 sono altrettanti momenti di espansione oratoria; ne Il cantico del fiume il verso dominante è il settenario mentre accessori figurano il ternario, il quinario, con effetto contrattivo e novenario ed endecasillabo, con effetto estensivo; ne Il canto dell'autunno prevalente è il novenario, demoltiplicato in senari e ternari e accresciuto di tre sillabe nel dodecasillabo all'ottavo verso; sono presenti inoltre due versi impari (settenario ed endecasillabo) nella quartina conclusiva.  È singolare e ammirevole altresì come tanto la prosa quanto la versificazione abbiano una loro identità formale, una loro indipendenza,  una loro precisa e ben distinta autonomia pur nella sostanziale omogeneità del dettato poetico.  A formare una specie di tessuto connettivo fra le due componenti il poeta ricorre, con varietà e perizia, a un sapiente gioco di inarcature, dove il ricorso all'"enjambement" non è obbligato e neppure insistito, ma, seppur frequente, mai gratuito, spesso utilizzato per chiudere un concetto all'emistichio del verso seguente,  dosato così abilmente da non compromettere mai la scorrevolezza narrativa e i ritmi dettanti di questo testo bifronte, a duplice valenza. In realtà compare un altro elemento transitivo a funzione connettiva  fra prosa e poesia e questo è rappresentato da una certa (invero limitata) quantità di versi spurî, deroganti, per vari aspetti, dall'esatta ortodossia metrica. Se l'endecasillabo sciolto è, come in altre sue opere, anche qui il verso largamente prediletto dal poeta toscano (ma anche settenario e novenario sono gestiti con sicurezza) ci si può imbattere, in misura variabile da titolo a titolo, in versi eterodossi, "inciampanti" (in genere endecasillabi "lunghi" (dodecasillabi) o "brevi"(decasillabi)), in improvvisi alessandrini asimmetrici, oppure  più semplicemente in versi extraritmici per dislocazioni di tonica o in sillabe dissonanti per conflitti fonetici (v. la sinalèfe disfonica di "si fa alcova" al 26° verso de Il cantico dell'amore. Queste episodiche e comunque contenute infrazioni metriche, rappresentano, a mio avviso, solo in apparenza il frutto di un allentamento della vigilanza compositiva ma potrebbero configurare invece una ben precisa scelta formale, sia per la già citata necessità di "suturare" il periodare  prosastico alla versificazione poetica, sia per ottenere delle pause, delle tregue che alleggeriscano e distendano da un lato la tensione ritmica creata dai versi ortodossi e che, dall'altro, per contrasto, ne  facciano risaltare le cadenze. Un certo numero di questi versi "imperfetti"si ritrova nel concettoso e laborioso già citato Cantico dell'amore. Sia come sia, che sia voluta o meno, questa sporadica "nonchalance" compositiva non altera più di tanto l'ampio respiro musicale e la vigorosa eloquenza che, grazie al sapiente ordito metrico, domina  questi Cantici: serve, se mai,  a ridimensionarne l'enfasi, a mitigare l'inevitabile aura di ampollosità connaturata a ogni dettato metrico.
Colpiscono e si fanno ammirare poi certe aperture liriche aeree e luminose, cariche di vita e di freschezza, a cominciare dalla splendida quartina iniziale del Cantico dell'aia o anche la vivida terzina d'esordio del Cantico del sole o infine il leggiadro incipit in endecasillabo e triplice settenario del Cantico del mare:

"È già festa sull'aia. Stamattina
ecco i canti di giovani fanciulle
ai raggi luminosi sulle stoppie
dalle finestre aperte alle speranze."
(Il cantico dell'aia)

"Eccolo il sole. Sbuca dal Pisano
con in mano una fresca serenata
per l'anima dei campi. È già mattina."
(Il cantico del sole)

"L'elicriso è fiorito al dir di maggio,
ed è un tappeto giallo.
Le dune incoronate
mi parlano d'estate. ......"
(Il cantico del mare)

Così anche è memorabile  il franco e innocente alessandrino che apre il Cantico dell'amore e che in qualche modo riassume in un solo verso tutta la raccolta e ne rappresenta il nucleo poetico:

"Non ho altro che il sole di maggio nel cuore"

Sono non rare d'altra parte le pregevoli invenzioni linguistiche, le squisitezze verbali disseminate in questa raccolta così come certi fugaci lampi di ricercatezza lessicale ( "equore", "lucore").
Esemplare a proposito il distico di apertura del Cantico dell'alba:

"Scialo di luce in albe traforate
da rondini irrequiete. Ed è già giorno. 
(Il cantico dell'alba)

E ancora il bellissimo endecasillabo esclamativo,  espansivo, di ascendenza pascoliana, incantevole nella sua modernità di linguaggio, al penultimo verso di  Tornavo ch'era sera:

"Com'era larga l'aria che azzurrava!"
(Tornavo ch'era sera)

In questo poetare, precipuamente affidato al ritmo, trovano posto, sebbene con parsimonia e in modo del tutto libero e frammentario, un certo numero di corrispondenze fonetiche. Si tratta di assonanze oppure di rime sparse a coppie di distici ("nascosto dalle fronde/ prima che le sue onde",  ".............. I remi stenti / hanno solcato mari indifferenti", ".................... Tanta morte/devi vederti attorno, tanta sorte/................", "E tutto nel mistero inultimato./Eterno desiderio inattuato") o talora anticipate all'emistichio del verso seguente:

"....................................
Le dune incoronate
mi parlano di estate. Sulla rena
porta carezze l'alito del mare
e i primi butti vibrano festosi
inconsci dei marosi che improvvisi
............................................................."
(Il cantico del mare)


"La ricordi la neve; il suo brillare
di cui non c'è confine. Quello è amore.
È quello il suo candore; il suo apparire.
......................................................................."
(Il cantico dell'amore)

Pardini ancora, amabilmente, gioca con le rime anche all'interno di un solo verso, ponendole ai suoi estremi, come in Sera d'autunno, oppure al suo centro, come nella rima interna epiforica dell'endecasillabo iniziale del Cantico della barca:

"I tremiti d'autunno si dilatano
 rochi nel piano come i colpi fiochi
che inchiodano la bara al cimitero."
(Sera d'autunno)

"Sono una barca che s'inarca al mare"
(Il cantico della barca)

Un andamento ritmico pressoché completo si ha una sola volta, nei quattordici endecasillabi di Presto ritornerò, un sonetto a strofe ripetute a schema ABCD ABCD EFG EfG, dove la penultima rima è sostituita dall' assonanza anagrammatica "rondine-ordine". Infine, una rimatura al primo e terzo verso si ha nelle due quartine in corsivo dell'ultima composizione della raccolta, la  struggente elegia di  Ormai è di sera dove peraltro è mirabile l'impiego dell'enjambement:

"..................................................................
Vedo ai suoi dolci occhi della sera
l'azzurro glauco effuso. E ancora vedo
il suo carnato perleo come cera
tramutarsi in camelia.
......................................................................
Erano i suoi capelli un po' negletti
e arruffati dal refolo di sera
sulla sua chioma. E gli squittî sui tetti
serenate ai suoi voli.
....................................................................."
(Ormai è di sera)

Per la struttura compositiva sovraesposta che, con grande abilità e gusto infallibile, accomuna e fonde prosa e versificazione e che, in quest'ultima, si riserva un'ampia libertà nella scelta e nella disposizione delle misure, delle cadenze e delle concordanze fonetiche, la poesia di Pardini in questi Cantici appare come un congegno letterario alquanto versatile, a un tempo eclettico e coeso, libero e rigoroso, oltre che particolarmente fornito di valenze espressive.
Molti strumenti dunque in quest'opera, ampia scelta di modi e opzioni formali e infine  svariate identità: raffronto fra un passato divenuto favoloso e un presente assorto e vespertino, "rechèrche" e ricostruzione, decantazione e mitizzazione della giovinezza, culto della natura e della famiglia, epica agreste e cronaca di un dopoguerra, diario intimo e storia, autocelebrazione e confessione, orgoglio e rimpianto, ma soprattutto salvataggio e custodia di memorie affettive. Come testimonianza e come testamento. Come sfida all'oblio. Come un'urna d'amore.
                                                                                                                                                            Luciano Domenighini



DAL TESTO




                                                                                                                                                                            La barca






 Il cantico dell’aia


È già festa sull’aia. Stamattina
ecco i canti di giovani fanciulle
ai raggi luminosi sulle stoppie
dalle finestre aperte alle speranze.
I carri, pieni zeppi, porteranno
i covoni stridenti di calura.
Braccia nude (coperte gaie teste
di pezzuole ricamate arcobaleno)
batteranno le spighe per stornare
i grani dalla paglia. Ton, ton…
Si avvicendano i tonfi sul selciato,
e l’uno dopo l’altro danno il ritmo
ai canti tramandati dagli atavici
riti rurali. Girano le fiasche
di acqua cristallina a liberare
le gole dalla pula: voci allegre,
grida di piacere, scherzi loquaci,
lieve rugiada dal cielo del cuore
che dalla fronte cala a gocciolare
sopra la paglia rovente dell’aia.
Venite dee dell’abbondanza, dèi
delle cantine, dei granai, dei
forni! Venite ad immolare le fascine
al pane sacro delle antiche mense
sane e frugali dei lieti commensali.
Di già fa capriole sopra i tetti
il fumo del camino. Già si annoda
ai rami verdeggianti di stagione;
già riposa sui rossi cocci, grigio,
prima di mescolarsi fra le nubi
infilzato dai voli
svelti al sole di luglio. Il grano è pronto.
Ritorna dal mulino in bianca veste
per darsi alla massaia. Ella lo spegne,
lo forma, lo riscalda una nottata,
e con la pala lo infila nella bocca
dell’uso rituale del cantico del pane.
Si diffonde il profumo per la corte;
chiama padri, fanciulli, che dai campi
a gustare corrono vogliosi
schiacciate calde di ciccioli e d’uva
che la pergola ha data in abbondanza.
Si torna dalla terra;
riposano le bestie sopra i prati
per uscire di nuovo alla campagna.
Si pranza. Il primo pane una manna
col pollo del cortile ed i fagioli
con le cotiche tenute in salamoia.
Giorni di pace, di festa, d’amore;
il connubio fra l’uomo e la natura
si attua ogni mattino ed ogni sera.
Peccato che gli dèi, stanchi oramai,
di uomini lontani dall’Olimpo,
abbiano evaso gli usi; che gli umani 
abbiano smesso antichi sacrifici
ai filari di vigne, alle raccolte;
abbiano smesso di cantare ai forni,
alle feste di sfoglie, o a pigiature
nei tini gorgoglianti di romanze,
dove gli occhi di giovani incantati
cercavano l’amore fra le chiome,
o fra i seni ammorbiditi dai sospiri.



Il cantico del sole


Eccolo il sole. Sbuca dal Pisano
con in mano una fresca serenata
per l’anima dei campi. È già mattina.
Ci si desta con in mente la luce,
le sementi, gli attrezzi ed il lavoro
per la cura delle viti e dei frutti
che già danno germogli. Rigogliosi
azzardano alla vita bocci e fiori,
gioiosi per l’incontro con i raggi
che abbracciano la terra. Il muggito
richiama il paesano. Le mammelle
sono cariche di latte ed i buoi
affacciano lo sguardo allo spiraglio
che illumina la stalla. Si preparano
il carro e le cavezze. Lo stradone
accoglie il passo lento delle bestie
accarezzate dall’astro. Si fecondano
i solchi; si dà il rame; si pota;
si diserba. La cincia prende il volo
destata dallo schiocco delle forbici
da pota. Il pranzo attende sotto il quercio;
è lì che brucano le mucche; e l’erba
è ancora rugiadosa. Si ritorna
la sera quando il sole rapina l’occidente,
gli orizzonti di sapide marine.





 Il cantico della campagna


L’onda bianca del sole dilaga sulla piana,
sulla battigia verde delle vigne.
Frantumano le cime dei cipressi
le loro ombre mentre fanno i fiori
il pèsco, l’albicocco ed il ciliegio;
gioiscono del chiaro e fra le fronde
il merlo sfrega il becco sullo stecco
in attesa dei frutti. Tutti quanti
bevono primavera e la lucertola
verdeggia sopra il muro soleggiato.
Dentro di me riprendo il legno curvo
dell’aratro di mio padre e rompo il fianco
del campo. A giugno sarà biondo
il ruscello del grano, si darà
al forno ardente per donare pane
che straripò felice al pugno chiuso
che nella madia modellò mia madre.
Ho ritrovato i semi ed i sapori,
ho ritrovato i voli, e i solchi aperti,
ho ritrovato spazi ed orizzonti,
le barbe fonde delle mie radici.
E voi
fate che il canto mio sia sempre fertile
di una storia lontana. E che si abbeveri
alla fontana fresca dei miei avi
che zampilla vicino. È là che splende
con frustate di sole la mia casa;
è là che il sole troneggia regale
sull’aspro canto delle mie memorie.




.....



Il cantico della barca


Sono una barca che s’inarca al mare,
sono un fuscello in balìa del vento
che cerca un porto dove rifugiare
le mie malinconie. A volte ho visto
una pallida luce di conforto
a indirizzare la prua. I remi stenti
hanno solcato mari indifferenti
verso il chiarore delle mie speranze.
Invano. Tutto spariva all’approccio.
E l’infinito gorgo riappariva
alle mie carni deboli e insicure.
Ho navigato incerto in queste acque
sbattuto spesso da onde pellegrine
in scogli aspri e crudi; in rocce scure.
Sono una barca che s’inarca al mare,
una barca disfatta che non tiene
i suoi legni compatti. La mia anima
azzarda fughe verso mondi nuovi
che non mi sono vicini. E vola,
seguendo gli indirizzi degli aironi
che battono le ali, per pentirsi
e ritornare presto ai cari legni
che hanno tenuto in seno i miei respiri;
gli amari pasti di un’intera vita.
Aspetto un porto. Un faro che m’illumini;
una scia che segni la mia rotta;
una guida che franga questo azzurro
nero.  Mi dia qualche certezza e poi
restare quieto fuori dalle acque
di tale mare che non ha confini.





5 commenti:

  1. Giungano i più vivi rallegramenti al Prof. Nazario Pardini per questi splendidi "Cantici" che pervadono l'anima di emozioni vitali "dalle finestre aperte alle speranze", nel profumo di "pane sacro", nel connubio di pace, festa e amore tra l’uomo e la natura. E "Peccato che gli dèi, stanchi oramai, / di uomini lontani dall’Olimpo, / abbiano evaso gli usi; che gli umani / abbiano smesso antichi sacrifici / ai filari di vigne, alle raccolte; / abbiano smesso di cantare ai forni, / alle feste di sfoglie, o a pigiature /
    nei tini gorgoglianti di romanze... ". Grazie per i sublimi versi e per i rimandi poetici e filosofici che elevano lo spirito... Un affettuoso saluto !

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  2. Prima di esprimere alcune mie sensazioni mi preme trascrivere alcuni versi da (Il cantico della barca)

    La mia anima
    azzarda fughe verso mondi nuovi
    che non mi sono vicini. E vola,
    seguendo gli indirizzi degli aironi
    che battono le ali, per pentirsi
    e ritornare presto ai cari legni
    che hanno tenuto in seno i miei respiri;
    gli amari pasti di un’intera vita.

    Sono versi che mi hanno toccato ed emozionato moltissimo e che condivido in pieno, per quel senso di nostalgia e ricordi di cui sono intrisi come la consapevolezza della perdita irrimediabile di un passato che non può più fare ritorno. Le sensazioni nostalgiche scatenano una tempesta di emozioni che vorremmo quasi catturare per impedirne la fuga o allontanare per il dolore che può procurarci. La tristezza non è prerogativa dei deboli ma delle persone forti perché capaci di rimettere insieme, senza timore alcuno, i pezzi del passato e fare della vita un percorso compatto.
    Niente è per sempre, e quel desiderio di tornare indietro ci rammenta il nostro legame con il passato, con quella parte di noi che sembra essere andata via per sempre, ma che continua a scorrere impetuosamente dentro il nostro essere rendendoci le persone che siamo, in grado di smarrirci nella nostalgia senza paura. Una breve e intensa emozione di felicità può far riaffiorare un attimo del passato lasciando che la mente indugi liberamente su quell’istante.
    Grazie al grande Nazario Pardini per averci donato momenti poetici di così alta levatura non solo contenutistica ma per espressione linguistica perfetta, fine e ricercata da cui ognuno di noi può trarre beneficio. Con sempre rinnovata stima e ammirazione.
    Emma Mazzuca

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  3. A Nazario

    La barca tua ha legni di memorie
    incastonate come nere cozze:
    apri le valve e vi ritrovi perle
    luminescenti, sfaccettati fari
    a schiarire la torba dell'esistere.
    Ci sembra ieri, gli elicrisi d'oro
    che s'aprono a ventaglio sulla battima
    son mosaici di luce dentro il cuore.
    Canti fanciulli, vigne, fieni, stoppie
    ecco schiudi lo scrigno e ci regali
    a piene mani il tuo mondo bambino
    nelle nebbie del tempo ormai perduto.
    Ma le parole tue hanno di nuovo
    il profumo del pane appena cotto,
    mugghian le bestie ancora nelle stalle,
    gorgoglia il vino al ribollio dei tini.
    Non azzardar confini.E' questo mare
    oceano inesplorato che ci dona
    brividi nuovi al muovere dell'onde.

    Ciao, grandissimo. Carla

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  4. E’certo che Nazario nel suo attento viaggiare, sia riuscito a riempire uno zaino, zeppo di essenze profumate.
    Tesori che ci dona a piene mani attraverso i suoi magnifici testi. Che devo dire a questo Toscanaccio che adoro, se non che in ogni sua poesia, sia racchiuso l’universo, con tutti i suoi segreti.
    Grazie caro Nazario.
    Serenella Menichetti

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  5. Ammirevoli e travolgenti i cantici del nostro grande poeta. Versi armoniosi che diffondono la straripante forza emozionale dello spirito creativo intriso di vita. Ne Il cantico della campagna i versi toccano ogni fibra del mio essere e mi riportano lontano nel tempo e nel luogo più profondo della mia memoria.
    "E voi
    fate che il canto mio sia sempre fertile
    di una storia lontana."
    E questo è un testamento poetico prezioso per noi che abbiamo tanto da apprendere.

    Grazie Nazario e complimenti

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