sabato 1 luglio 2017

MARIA GRAZIA FERRARIS SU "RIFLESSIONI SULLA POESIA..." DI MARCO DEI FERRARI


MARIA GRAZIA FERRARIS SU
Marco dei Ferrari: RIFLESSIONI SULLA POESIA  NEL XXI SECOLO, pubblicato il 1° luglio 2017

Maria Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade

Una riflessione articolata e sofferta sul senso, l’evolversi e il futuro della poesia contemporanea, sui dubbi, l’invadenza e la potenza del linguaggio tecnico telematico.  
M. dei Ferrari  riflette sui grandi Autori del XX secolo e sulle conseguenti visioni critiche (la poesia- Ungaretti, Neruda, Pasolini- espressione della coscienza civile di un popolo, Zanzotto e la destrutturazione grammaticale-sintattico, Sanguineti, Pagliarini e la neo-avanguardia, Bataille e lo strutturalismo, la frammentazione dell’io, il riflusso intimistico-lirico- emozionale, fino al minimalismo…) per soffermarsi sugli inquietanti interrogativi della poesia contemporanea. La poesia muore…?
“I grandi poeti civili del Novecento come Neruda – Tagore – Ritsos -Ginsberg tacciono ormai da tempo; ancora più lontani (nell'Ottocento) sono le estasi, le memorie, le ribellioni, i rimpianti da Foscolo a Shelley, da Leopardi a Baudelaire a Rimbaud e Mallarmé… L'intimismo auto-riflessivo approda poi al rifiuto nichilistico dell'essere poetico e si affida al nuovo “potere” del Web...”. Vede nella tecnologia e nel linguaggio telematico –il nuovo Titano- “sempre più aggressivo, invadente e liquidatorio, che assembla tutte le altre diversità linguistiche in un modello di “totalitarismo comunicante” assoluto e anonimo, diffuso e facilitato tra smarrimenti esistenziali e vuoti collettivo-individuali” la  dilapidazione della comunicazione poetica  in linguaggi “neologistici, televisivi, pubblicitari, lapidari e crudi, unisemici ma collettivamente rivolti al degrado urbano dell’emarginazione”: un rischio mortale per l’autonomia poetica, “relegata sempre più in una regressione di disimpegno interiore avulsa dalla nuova “realtà” e privata d’ogni ricupero alternativo”. La proposta poetica contemporanea sembra essere quella di “sistemi omnicomprensivi, elaborati in formati segnici, disumanizzati e privi di ogni centralità dell’io poetico…che concorrono a una interpretazione della nuova realtà numerica e costituiscono un percorso obbligato ed inevitabile  per il nostro futuro delle Arti.” La via per un futuro- che appare completamente subordinato al dominio della razionalità-tecno sulla “creatività”, senza contenuti finalizzati (fluttuanti in un caotico percorso di “mode” effimere e confuse)- sembra tracciata irreversibilmente.
Convengo: l’invasione dei linguaggi mediatici ha contribuito, malgrado l’apparente democratizzazione (e la proliferazione di improvvisati poeti) alla crisi dei linguaggi poetici. Il mondo di Internet, del web,  ha reso l’esperienza del mondo sempre più fluida ed inafferrabile, apparentemente facile: manca la metafisica.  
La poesia viene di fatto esautorata: non è più oggetto di fiducia come sede di un sapere interpretativo fondante/ sapienziale/profetico. Il postmoderno ha prodotto un fenomeno di democrazia delle lettere, ma non la consapevolezza che la parola poetica s’iscrive in un sistema diverso da quello corrente.

 Il dire del poeta, nondimeno, non muore:  continua a rimanere ambiguo, irrazionale, evocativo. E non basta  né il linguaggio comune di stampo referenziale, né quello tecnico asettico del web per iscriversi nell’ambito poetico. Ha bisogno di inventarsi un’altra lingua, che costruisce da sé altri e nuovi referenti. La poesia si produce come “eversione” –rispetto al linguaggio di uso pratico e tecnico. È  un terreno di confine, di rischiosa interminabile ricerca, dove la lingua si rinnova da se stessa, carica delle proprie estreme potenzialità, nella densità originaria della propria essenza, alla ricerca di configurazioni nuove del senso, del tempo, del rapporto dell’uomo con il mondo. Non per snobismo, ma per necessità intrinseche-umane-. 

Maria Grazia Ferraris

9 commenti:

  1. La poesia è linguaggio (comune) innestato nella lingua (letteraria) o viceversa. Oggi siamo in un momento di valico offertoci dalla rete. Su questa rete si tesse. Si fa e si disfa à la Penelope in un diuturno tentativo di ricerca linguistica. E la rete rappresenta un laboratorio ad alta densità. Forse più quantitativa che qualitativa. Ma questo lo dirà il futuro. Al presente un dato di fatto. C'è chi sceglie il post virtuale rispetto al foglio di carta su libro. A quale scopo? In primis quello di raggiungere immediatamente più lettori.
    La poesia è già nata agli albori della storia. Adesso continua a vivere crescendo. Non può certo morire. Cambiare certo che sì

    Maurizio Soldini

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  2. La voce del poeta non tacerà mai: egli non crede sia possibile una resa alla sfida del mondo, alla sfida del tempo. Anche “nella dissolvenza di questo mondo/alla deriva di ombre” si può trovare un passaggio, un invito, una speranza che dia più senso alla vita. Oggi il poeta può sentire la necessità di staccarsi da antichi canoni cercando un linguaggio alternativo, dove l’espressione si asciuga e l’ispirazione si addensa. Alfred De Musset diceva: ”La poesia è la sola lingua che insegna a dialogare con la lontananza e la solitudine. La poesia è ferita e farmaco insieme”. Posso notare con onestà che il Vero poeta resta distante dalla parola e dal mondo virtuale perchè essi non hanno potere sul sentimento, sulle vibrazioni e sulle sensazioni profonde dell’“io”. Nel leggere molti autori moderni ho voluto esprimere un mio pensiero, cercando di dargli una forma poetica:

    Intrecci in apparenza illogici,
    arbusti che gemono nel vento
    o folgori vaghi che si colgono a fatica
    a volte con felicità e a volte con pena
    nel brulichio della memoria.

    Non rimane una storia, una sembianza,
    un oggetto, ma solo lo sgorgare di una vena,
    la magia di una voce.

    Vorrei finire con un plauso alla grandissima Maria Grazia Ferraris per aver messo a fuoco i punti cruciali della disamina e con maestria e leggerezza spiegato l’evoluzione delle varie correnti privilegiando quelli che sono i bisogni dell’essere umano e come riuscire a colmarne i vuoti.

    Emma Mazzuca


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    1. Un sentito grazie alla Prof.ssa Emma Mazzuca.
      La sua fede nell'immortalità della poesia e il suo ottimismo "contagioso" nel premiare i valori del sentimento non possono che tradursi in un forte impegno da parte di tutti coloro che si manifestano e si realizzano nell'esercizio dell'arte poetica.

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  3. Ringrazio la Prof.ssa Maria Grazia Ferraris per il suo profondo onnicomprensivo commento interpretativo da cui si ricavano ulteriori elementi di approfondimento del dibattito.
    Marco dei Ferrari

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  4. Qualche tempo fa, in questo blog letterario, è comparsa una stimolante riflessione di Sonia Giovannetti sul rapporto fra arte e tecnica, dove veniva messa a fuoco la dicotomia fra l'esigenza dell'artista di essere testimone del proprio tempo e l'esigenza opposta di doversi innalzare al di sopra del quotidiano per parlare il linguaggio archetipo dell'universalità. Scriveva la Giovannetti: "La distanza tra sé e il mondo e, al contempo, l’immanenza del suo spirito nelle pieghe del mondo: è propriamente questo peculiare carattere dell’artista che assegna all’arte un ruolo obiettivamente disfunzionale rispetto al sistema della tecnica, di sostanziale affrancamento dalle sue regole, di misconoscimento dell’ordine delle cose da essa imposto. Un ruolo critico, dunque, quando non dichiaratamente eversivo". In calce all'illuminato articolo io commentavo: "Può qui tornare utile un riferimento alla categoria estetica dell'ulteriorità elaborata da Adorno, secondo cui le opere d'arte si servono, nel loro processo di formazione, di quelle stesse tecniche dalle quali sono indipendenti, giacché l'arte mobilita la tecnica dalla linea di tendenza opposta a quella su cui la tecnica viene messa dal dominio. In tal modo, pur risentendo dell'influsso del mondo tecnologico, l'arte si separa da esso e si solleva al di sopra della situazione, prendendo posizione su di essa ed alludendo ad un mondo migliore e diverso. Non è dunque vero che il mondo delle macchine sospinga inesorabilmente l'uomo a uscire di scena. L'uomo può uscire di scena solo se liberamente lui decide di uscire di scena. La responsabilità di tale evenienza ricade su di lui e non sulle macchine". Ho letto attentamente, oltre al post della Ferraris, che condivido ampiamente, anche l'articolo estremamente dotto e argomentato di Marco dei Ferrari e mi sembra di poter ripetere le medesime affermazioni. Come la Giovannetti ricordava, per sua natura la téchne è un mezzo e non un fine. Se avviene il contrario, io aggiungo, la responsabilità non è della tecnica, ma dell'uomo che ne esalta arbitrariamente valore e confini. Di tutte le inquietudini connesse con il progresso, la responsabilità non ricade sul progresso stesso, bensì sull'uomo che non è all'altezza morale del progresso raggiunto. Sta dunque a lui mettere in campo quelle risorse spirituali di cui dispone per far sì che nel cuore della nostra civiltà tecnologica l'umano non sia costretto a uscire di scena. E aggiungo che, a mio parere, l'uomo del XXI secolo, proprio in quanto necessitato a difendersi da un materialismo sempre più aggressivo e invadente, è potenzialmente dotato di una spiritualità immensamente superiore a quella dell'uomo di un tempo.

    Franco Campegiani

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  5. Già in altre occasioni ho parlato del linguaggio, questo anche fuori dal contesto poetico, tentando di rigirare la frittata. Cosa succederebbe se la poesia entrasse nel mondo ed intervenisse, o incidesse, nel parlato, nel linguaggio tecnico o nel “degrado” della lingua, nobilitandone le dinamiche? È successo qualche volta nel passato e potrebbe succedere ancora. Di fatto, la poesia può entrare nel parlato solo quando riassume, simboleggia, esprime qualcosa che va oltre il significato delle parole. E io credo che proprio questo debba fare la poesia: dire quello che non dice, andare oltre il significato dei termini. Octavio Paz diceva che la “parolaccia” è la poesia del popolo, di fatto il contenuto della parolaccia (o dell’insulto) è enorme, e ciò che può scatenare nell’uomo va oltre l’ordinaria follia.
    In un certo senso, anche se non intendo certo fare analogie tra poesia e parolaccia, la poesia ha il compito di far esplodere qualcosa dentro, di scuotere le coscienze, di fomentare dubbi e di accendere la miccia dei sentimenti, e lo fa attraverso un insieme suono-ritmo-silenzio.
    Allora, potremmo dire che la poesia è un codice che trasmette significati che vanno oltre le parole? In alcuni casi è così: il potere della poesia è nell’evocazione, un simbolo, insomma. Ed è come l’irrazionale voglia di vivere che emana da un fiore che sboccia tra le crepe dell’asfalto.
    Claudio Fiorentini

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  6. Certo, non è la regola, ma credo che oggi la poesia debba prendere questa strada aldilà della forma che la contiene. La poesia non è abbellimento, non è carezzevole, non è una coccola, semmai è la sveglia dello spirito guida, e di questo oggi c’è tanto bisogno.
    Veniamo ora al contenitore, che abbiamo già detto essere più grande del contenuto. Prendo come esempio una sinfonia di Beethoven. Provate a tradurla in qualcosa che non sia una sinfonia di Beethoven. Non ci si riesce. La grandezza dell’artista sta nel trasmettere qualcosa che può essere trasmessa solo in quel modo. L’infinito di Leopardi può essere trasmesso solo con l’infinito di Leopardi. Non è possibile che il contenuto prescinda dal contenitore, proprio perché dice cose che in altri modi non si possono dire. Quindi è un codice di trasmissione, un po’ come lo sono le stringhe dei bit che passano da un computer all’altro: sono insignificanti impulsi elettronici che si traducono solo ed esclusivamente nella videata che esplode proprio ora sul vostro “display” (passatemi il termine).
    Ora, per trasmettere l’infinito, o la quinta, o il Guernica non c’è altro modo oltre quello che li trasmette. Ma ditemi un po’, che tumulto, che splendore, che grandezza si accende in voi quando vi lasciate trasportare da queste opere.
    Ma veniamo a quello che ci riguarda da vicino, il nostro amico linguaggio.
    Claudio Fioentini

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  7. Certo, la lingua e il linguaggio sono due cose diverse: la lingua è lo strumento, il linguaggio è la sua più vasta applicazione perché è fatto di ritmo, di silenzi, di respiro, di gesti, di sequenzialità e di interruzioni, di cose raccolte per strada e, perché no, anche di parole d’uso che in poesia, di solito, noi tendiamo a scartare. Ma è inevitabile, il linguaggio evolve e cambia, è un insieme in costante movimento, è un organo evolutivo, così anche la lingua, sebbene rimanga lo strumento usato per costruire un linguaggio, almeno nel nostro caso.
    Ho sentito che nell’aggiornamento di qualche dizionario è stato tolto il termine “sudicio”, mentre di sicuro sono stati inseriti altri termini, magari provenienti dall’inglese, a loro volta provenienti dal latino. Eppure è così che funziona la lingua: evolve seguendo l’uso che se ne fa e si lascia impregnare di contaminazioni a volte sgradevoli. Ma se io dovessi parlare di, ad esempio, “flashmob”, quale termine italiano posso usare? E allora flashmob entrerà nei nostri dizionari e sarà una parola italiana derivante dall’inglese, un migrante o un clandestino che riesce a integrarsi. La lingua rimane il canone di riferimento, ma risente dell’evoluzione del mondo, dell’uso che se ne fa, delle semplificazioni… Diciamo “Week End” invece di fine settimana, o “Location” invece di luogo. Nel mondo informatizzato e connesso, i termini che una volta erano relegati alla riserva indiana dello spazio tecnico, inevitabilmente penetrano nel mondo e vediamo tante (a volte insopportabili) contaminazioni.
    Io lavoro nel freddo mondo della tecnologia, il termine più brutto che mi è capitato di sentire è “wrappatura” (devo dire che per fortuna non è entrato nell’uso comune), ma ne sento di tutti i colori. Ricordo quando negli anni ottanta si cominciava a parlare di “formattazione” e di “rendering”… spesso mi sono battuto con i colleghi (e ancora mi batto) per mantenere, per quanto possibile, un certo decoro linguistico, ma l’uso comune è più veloce di me e anche i professori inevitabilmente si adeguano. Chi sa trovare una formula alternativa a, ad esempio, “formattazione dell’hard disk” è un campione. Oggi “Planning” è più facile di pianificazione e “refurbishing” è più usato di ricondizionare. “Utilizzare le app del cloud” è più comprensibile di “utilizzare le applicazioni della nube” e abbreviare i termini semplifica la vita, e alla fine, nel mondo informatizzato e connesso, col tempo sarà normale dire “xké” invece di perché… Ma aggiungo: ricordate quando negli anni sessanta si cominciò a dire UFO (unidentified flying objects)? In spagnolo si usava (e si usa) OVNI (objeto volador no identificado), non UFO. Perché? Idem per AIDS, che in spagnolo si chiama SIDA. E il computer? In spagnolo si chiama “ordenador” e in francese “ordinateur”… perché in italiano è stata scelta la parola inglese (che poi è latina) computer? Siamo i pigri eredi di Ferdinando Meniconi?
    Ebbene, anche se fosse così, occorre capire che questo è forma, è lingua corrente, e quello che oggi è un abominevole strafalcione non è detto che lo sia domani. E noi dovremmo vederlo non come un imbastardimento, ma come un processo evolutivo che, con tutte le sue spinosità, rimane comunque una risorsa espressiva.
    Insomma: noi dobbiamo essere consapevoli di come evolve il linguaggio riconoscendo le mode transitorie dall’uso comune che prima o poi sarà nei dizionari, e se opporsi alla bestia diventa controproducente, forse dovremmo adoperarci per conoscere la bestia e addomesticarla rendendola migliore.

    Claudio Fiorentini

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  8. Sono grata a Franco Campegiani per aver accennato, nel suo ampio e condivisibile commento, a mie precedenti riflessioni sulla poesia del XXI secolo. Vorrei limitarmi qui ad aggiungere che sia nella sua citazione delle parole assai penetranti di Adorno – un pensatore non certo accomodante col moderno - sia nelle parole conclusive del pregevolissimo contributo Anna Maria Ferraris – “il dire del poeta…non muore”- ritrovo con piacere tracce confortanti di quello stesso “incauto” ottimismo che sento di nutrire io stessa, a dispetto del sempre più ingombrante Leviatano tecnologico, sulle sorti della poesia e, in generale, dell’arte nel nostro tempo. E’ ben vero, come dice Anna Maria, che “l’invasione dei linguaggi mediatici ha contribuito…alla crisi dei linguaggi poetici” e che, come osserva Walter Siti, “per la poesia non è un buon momento”, dato che con “tutto il rumore che c’è attorno…lo spazio della poesia (che ha bisogno di silenzio) si è ristretto”. Ma è pur vero che, come ricorda lo stesso Siti, citando l’abate Ceva “la poesia è un sogno che si fa in presenza della ragione”, e che gli uomini, anche se inclini a ridursi a “funzionari della tecnica”, non cessano di sognare. E la lingua dei loro sogni continua ad essere – sì, cara Anna Maria, hai ragione - “ambigua, irrazionale, evocativa”, le parole scaturendo incontrollate dal profondo e guidando esse stesse la penna del poeta. Esse non sono più linguaggio ordinario, che riflette il puro esistere, ma un tramite con l’Assoluto, con quell’ Inafferrabile cui la realtà può solo alludere. Sicchè anche il poeta abita in una sorta di “realtà aumentata”, ma in senso tutt’affatto diverso da quella dell’uomo tecnologico, giacché il suo sognare è un incessante andare oltre ciò che c’è; è la continua ricerca, mai appagata, di un diverso esistere, oltre l’orizzonte del reale che ci avvolge e coinvolge anche nostro malgrado. Perciò egli commette, che ne sia o meno cosciente, “eversione dell’ordine esistente”, istigato dall’urgenza stessa della parola poetica.
    Il grande Ungaretti, da sublime “sovversivo”, ce lo ricorda una volta per tutte: “Quando la parola s’accontenta di nominare un oggetto, essa non ci redime. Il sottile involucro del vocabolo cede alla pressione della cosa che designa; come è solito, svanisce non appena pronunziato, e ci abbandona alla presenza da cui volevamo difenderci”.
    Ecco, cari amici: il mio augurio a tutti noi è che sapremo continuare ad opporci a questa mostruosa “reductio ad unum” della parola, del pensiero e della realtà indotta dalla tecnologia, coltivando con indomabile mitezza e incrollabile (ma non infondato) ottimismo la nostra vocazione “sovversiva”.

    Sonia Giovannetti

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