Quel peculiare
risvolto della poesia che attua una riflessione in fieri sulla poesia
stessa, la metapoesia, affiora sia pur di nicchia (ma più spesso di quanto si
possa immaginare) in un percorso trasversale a ogni cultura e procede da molto
lontano, laddove la proprietà di “riflessione” si dilata nella duplice
accezione del termine, sia inteso come consapevolezza cognitiva che come
sdoppiamento, riproduzione verbale autoreferenziale di un aspetto del poiein.
A volte il poeta si pone domande sulla propria identità di “poeta”, come nel
conosciutissimo scanzonato verso di Aldo Palazzeschi che nella poesia Chi
sono? (in Poemi, 1909) risponde a sé stesso “Il saltimbanco
dell’anima mia”, prendendosi indirettamente gioco della Desolazione del
povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini che affermava, negando
apofaticamente, “Io non sono un poeta”. In entrambi i casi, il poeta “specula”,
riflette cioè su sé stesso e sul proprio ruolo. Come la lingua attraverso la
grammatica indaga su sé stessa, dando origine al “metalinguaggio”, così ai
poeti di ogni epoca e latitudine piace ogni tanto guardarsi allo specchio per
riflettere sullo stesso genere letterario di cui sono agenti attivi. E
la nota di rilievo è che tale auto-osservazione non si esplicita in prosa
critica (come parrebbe più logico), ma in poesia stessa. Nel caso del succitato
Palazzeschi l’intento è di dichiarata giocosità, quasi un’eco del giullare medioevale,
sia pur specificando di voler “mettere una lente davanti al cuore per farlo
vedere alla gente”. Torniamo all’immagine dello specchio, lo speculum,
strumento per esplorare, anche in ambito medico, cavità altrimenti
inaccessibili. A proposito del simbolo dello specchio, un paragone forse
ardito, ma plausibile, si potrebbe instaurare mutatis mutandis con il
famoso quadro Las meninas di Velázquez la cui figura campeggia mentre dipinge nel suo
laboratorio personale alla Corte di Re Filippo IV, riflesso invece in uno
specchio in secondo piano insieme alla Regina Marianna d’Austria. La critica
ipotizza che a sua volta lo stesso pittore di corte sia riflesso in uno
specchio immaginario situato al posto dell’osservatore per realizzare un
autoritratto in modo da esaltare non solo la personalità di colui che ritrae la
coppia reale, cioè il pittore stesso, ma persino quel processo pittorico del
caos compositivo in cui è immersa la scena, una delle inquadrature più
innovative e anomale della storia della pittura, soprattutto se pensiamo
all’anno di composizione, 1656. Ma è proprio questo caos che innesca uno
stupefacente gioco prospettico tra il pittore, l’osservatore e i personaggi del
dipinto. Il concetto di caos, cardine
del barocco, concorre a riformulare in altri termini il processo artistico
interiore che conduce al Cosmos, all’ordine del risultato finale nel quale
anche ogni poeta di ogni epoca spesso si dà uno scopo quando non una specie di
programma. Ricordiamo il celebre verso Hominem pagina nostra sapit, (“la
nostra pagina sa di uomo”) con cui Marziale (40 d.C.) rivendica l’impegno etico
e sociale dei suoi Epigrammi poetici dopo i vagheggiamenti e
vaneggiamenti mitologici della fase dei “mostri”. Nella storia della nostra
letteratura, il primo conosciutissimo esempio di rudimentale metapoesia
in lingua volgare è l’Indovinello veronese (XI sec.) che, in una catena
di metafore a visualizzare dita, penna, pagina bianca e inchiostro, (il “seme
nero”), allude comunque solo all’aspetto materico della scrittura, tipica
dell’amanuense. (Se pareba boves, /alba pratalia arabat/et albo
versorio teneba/et negro semen seminaba”, cioè “anteponeva a sé i buoi, /bianchi
prati arava, /un bianco aratro teneva/ e un nero seme seminava). Ma, a parte questo caso storicamente noto per
una datazione più o meno attendibile della comparsa del volgare in Italia,
ovviamente l’attenzione di chi scrive si focalizza più spesso sulla funzione
della poesia e del poeta. Esistono varie modalità di approccio metapoetico di
cui sarebbe davvero interessante fare una rassegna ampia, ma ora limitiamoci ad
alcune tra le più originali, anche se non tutte esattamente “poetiche”, come il
tono precettistico di Tristan Tzara in Per fare una poesia dadaista:
“Prendete un giornale. /Prendete un paio di forbici./Scegliete nel giornale un
articolo…./Ritagliate l’articolo/…/Agitate dolcemente ecc. ecc.”. Altre
volte il tono si fa declamatorio, come nella celebre Art poétique nella
quale Verlaine, inaugurando la stagione simbolista all’insegna della
musicalità, si scaglia contro la retorica: “Prendi l’eloquenza e torcigli il
collo!”. In altri autori emerge la modalità esplicativa. Pensiamo a Vladimir
Majakovskij, il poeta della Rivoluzione russa, che in Il poeta è un operaio
paragona anche nel lessico il lavoro del poeta a quello dell’operaio negli
altiforni: “Noi limiamo i cervelli / con la nostra lingua
affilata”. Quasimodo si definiva in tono più intimista “Uno come tanti, operaio
di sogni” (in Epitaffio per Bice Donetti). L’opera di
Quasimodo offre una messe di sottili richiami metapoetici, spesso ad alto
indice di metaforicità, per cui a una prima lettura il significato metapoetico
rimane non immediatamente percepibile. Citiamo il bellissimo verso “Tu ridi che
per sillabe mi scarno”, nel quale il poeta (nella lirica non a caso intitolata Parola,
tratta da Oboe sommerso) afferma proprio quel processo di
scarnificazione che dal caos si placa nel cosmos della creazione poetica. La
stessa immagine dell’oboe rimanda metaforicamente alla poesia il cui suono
“sommerso” va esplicitato e tratto alla luce dall’inconscio. Celeberrima è la
lirica Alle fronde dei salici (dalla raccolta Col piede straniero
sopra il cuore) di ispirazione etico-civile, elemento tematico ravvisabile
anche nel passaggio formale dall’io della fase ermetica al “noi” che evoca
l’Italia dell’occupazione nazista. Tuttavia, solo dopo una lettura attenta
della breve lirica, se ne percepisce la valenza interamente metapoetica, evidenziata
dal celeberrimo incipit “E come potevamo noi cantare…?” , con cui il poeta si
discolpa per il lungo silenzio poetico negli anni drammatici del secondo
conflitto mondiale, utilizzando questa volta lo strumento musicale della cetra,
simbolo della poesia classica, come elemento-lessema di aperta intertestualità
con il famoso lamento biblico 137 degli ebrei in esilio a Babilonia dopo la
caduta di Gerusalemme: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al
ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”. In un
altro testo autoreferenziale, metapoetico, meno conosciuto, Quasimodo torna al
concetto di “scarnificazione”, cioè sostanzialmente di labor limae in
senso sottrattivo, consustanziale all’equilibrio nel genere poetico: “Ma
se scarnire non sapevo un tempo / la voce primitiva ancora rozza, /avidamente
allargo la mia mano: /dammi dolore cibo cotidiano” (da Avidamente allargo la
mia mano, in Ed è subito sera).
Affiora con prepotenza la relazione necessaria e diremmo quasi
religiosa, tra la poesia, quella autentica, e il dolore. “Dammi dolore cibo
cotidiano” suona quasi come una parafrasi del Padre Nostro e in questa
“necessità” del dolore quale seme della creazione poetica, sembra fargli eco la
poetessa Alda Merini nei suoi versi “Le
più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/ e le menti
aguzzate dal mistero”. Il senso
esperenziale del mistero si ravvisa nella parola “abisso” evocata da Ungaretti
con il suo quid di inesplicabile, irraggiungibile aderenza alla realtà.
Ogni poeta che non si limiti a una modalità puramente ornamentale, araldica e
sensoriale della poesia sperimenta un senso di inadeguatezza della parola. Sono
certa che molti di noi che scrivono avranno in un certo senso “patito” questa
sensazione. Arriva un momento in cui chi scrive si guarda in questo specchio
interiore di cui dicevamo e inizia a interrogarsi sul senso della propria
scrittura. C’è sempre qualcosa che non salda compiutamente il significante al
significato; chi nutre una concezione consapevole e non epidermica della poesia
sa che sovente qualcosa sfugge alla parola. Di qui la famosa invocazione
del poeta spagnolo Juan Ramón
Jiménez che si rivolge implorante alla “intelligenza” (che altro non è che il Logos,
opposto al semplice abbinamento significante-significato) “Intelligenza, dammi
/ il nome esatto delle cose! / Che la mia parola sia / la cosa stessa”. Simile
senso di impotenza, ma amplificato e sperimentato difronte alla visione divina,
era stato motivo di cruccio in Dante che nel canto 33 del Paradiso esclama
“Ormai sarà più corta mia favella” (vv 106-108) rammaricandosi (121-122) “Oh
quanto corto è il dire e come fioco/ al mio concetto”, consapevole del misero
tentativo di dire in modo comprensibile ciò che è ineffabile. È un esempio del
cosiddetto sublime rovesciato mediante il quale ciò che è smisurato si
manifesta nel parlare semplice. In un altro celebre caso, quello di Montale in Ossi
di seppia, affiora la modalità metapoetica in negativo “Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/
lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato/…/
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/…/ Codesto solo oggi possiamo
dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Altrove Montale scrive che
“la poesia non è fatta per nessuno, /non per altri e nemmeno per chi la scrive.
/Perché nasce? Non nasce affatto e dunque/non è mai nata. Sta, come una pietra,
/ o un granello di sabbia. Finirà / con tutto il resto” (da Asor in Diario
del ’71 e del ‘72)
Nella poesia
contemporanea si avverte spesso infatti un senso di spersonalizzazione, già da
Thomas Eliot enunciato come motore della vera poesia. “La poesia non è un modo di liberare l'emozione, ma una fuga dall’emozione; non un’espressione della propria
personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che
hanno personalità ed emozioni sanno cosa significa voler fuggire da queste
cose” (dal saggio Tradizione e talento
individuale). Scrivere poesia, vera poesia, per il grande poeta
statunitense non equivale a esaltare l’io, ma a fuggire da esso, non ad
esprimere la propria interiorità, ma ad anelare all’universalità evitando
quindi le emozioni, non rincorrendole (Eliot ricorre ai termini dry
hardness, asciutta durezza). Borges addirittura, da parte sua, nel suo
amore per il paradosso, arriva a dire che la vera poesia è impersonale. Avvicinandoci
al nostro tempo, il Premio Nobel della letteratura 2012, lo svedese Tomas
Tranströmer annota: “Stupendo sentire come la mia poesia cresce/mentre io mi
ritiro. / Cresce, prende il mio posto./ Si fa largo a spinte. /Mi toglie di
mezzo./ La poesia è pronta.” Si celebra così l’autosufficienza della poesia
rispetto alla stessa volontà del poeta, incapace a contenerne tutta la portata.
Il grande poeta
francese Yves Bonnefoy, profondo conoscitore e traduttore di Shakespeare, ben
conosceva l’inadeguatezza della parola a colmare lo scarto semantico non solo
tra una lingua e l’altra, ma anche in ambito intralinguistico, il divario tra
ciò che si desidera esprimere e ciò che invece rimane imbrigliato dalla e nella
parola. Nei bellissimi versi di Le nostre mani nell’acqua ripropone il
motivo di questa insoddisfazione atavica che il linguaggio consegna all’uomo
nella sua ansia conoscitiva: “Noi immergevamo le mani nel linguaggio, / vi
afferrarono parole delle quali non sapemmo/che fare, non essendo che i nostri
desideri. / Noi invecchiammo. Quest’acqua, nostra trasparenza. /Altri sapranno
cercare più nel profondo / un nuovo cielo, una nuova terra”.
A voler ribadire questo senso di impotenza nel
tematizzare perfettamente il reale, concludiamo il nostro breve percorso
sdrammatizzandolo, così come lo avevamo iniziato, con altri versi scanzonati,
questa volta di Giorgio Caproni: “Buttate pure via/ ogni opera in versi o in
prosa/nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa” (Elogio
della rosa)
Angela
Ambrosini
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