Recensione
a
Paolo
Bassani: Nel bianco greto della valle
Tornare vivi per sconfiggere il senso del nulla di
Thanatos
La puntualità
della parola, la ricchezza delle immagini, e il caloroso abbraccio della vita
fanno di queste poesie un fluido travaso d’anima e di pensiero. Una nostalgica
rivisitazione di sogni e misteri affidati
a ricami metrici. E la natura, qui, fa da padrona in questa sua funzione di
allusivi richiami, di tocchi simbolici, di oggettivazioni memoriali:
Di te mi parla
ancora
la tua terra.
Rinverdisce la
memoria
immagini lontane
ora che si spegne
ogni sussurro
e nell’ombra
prossima alla notte
s’espande sui
tuoi campi
malinconia di
grilli. (Pp. 19).
E d’altronde la
memoria ha bisogno di corpi, di figure, e di simboli. Ha bisogno di colori e di
profumi per rendere visivo il suo pathos. Per concretizzare momenti e tempi di
altre primavere. E quando l’autore afferma:
La mia patria è
qui
in questa terra
aperta sulla valle
nel verde di pini
d’olivi
e di castagni;
qui dove a giugno
immense macchie
di ginestre
s’accendono di
sole… (Pp. 15).
lo fa perché
vede in quelle note di cromatici affetti la possibilità di rivivere un mondo
che ritorna con tutto il suo immortale sapore: l’immagine di un fiume carico di
sole; quella degli amici castagni; “ancora un poco di quel tempo”, insomma;
ancora un po’ di quel “fresco, tenero di verde”, dove il poeta spera di restare
quando poserà il suo passo stanco:
A te
correvo dopo il
temporale
quando al lieve
fremito del vento
ancora la pioggia
lucente
cadeva dai fiori
e dalle foglie.
Solitario
m’incantavo al sordo rumore
e torbido impeto dell’acque… (Pp. 16).
A voi ritorno,
amici miei castagni,
in questo afoso
giorno dell’estate.
La nostalgia d’un
tempo mi sospinge
alla magica terra
dell’infanzia. (Pp. 26).
Ah! Quanto
apporto di musicalità in questi endecasillabi, quale importante significante
metrico per questi ritorni vitali!
Sapori, anche,
di cose antiche, ma sempre nuove e pregne di fecondi messaggi. Sapori che premono,
e sollecitano la parola a combinarsi in schemi e misure per accompagnare tanto
sentire. Misure che si alternano nel loro fondamentale compito di contenere
tanto subbuglio interiore:
Come allora lasciatemi
posare
il capo sul
guanciale di sacco
all’ombra fresca
della volta
e ritrovare quel
profuno antico
di pane, di legna
e di cantina.
Ancora gli occhi
socchiuderò
alle bianche
nuvole del cielo
immobili come
l’aria che a quest’ora
stagna sui campi
e sulle case,… (Pp. 21).
E anche se,
spesso, si succedono, nella silloge, momenti di dicotomica suggestione:
Presto, a sera,
il sonno chiudeva
i miei occhi di
bambino
e il capo
s’adagiava
sul vecchio
tavolo di legno.
(…)
Adesso,
s’è fatto fragile
il mio sonno:
s’infrange al
minimo rumore
e a cerchio
erranti s’allargano i pensieri:
notturni flutti
inquieti alla deriva.
Attendo l’alba.
Ma
sempre più, tarda la sua luce. (Pp. 22).
e anche se da
questo spartito di tonalità lirica, quasi romanza pucciniana, traspare una
visione umana del vivere e del morire. Della precarietà del tempo e della
fugacità del presente:
Le stagioni
passano:
va l’una e l’altra
subito s’appresta.
Vanno gli uomini
e gli eventi
le speranze e i
sogni:
resta solo la
memoria
e la paura di
vederla
scomparire nella
nebbia… (Pp. 32)
prevale sempre,
comunque, un inno gioioso alla vita; alla sua sacralità; tanto che il trascorso riemerge come fatto nuovo,
rivissuto con straripante forza emotiva, come evento a cui affidare anima e
corpo, per cancellare “il velo gelido dei marmi”:
Qui non regna il
velo gelido dei marmi
né il silenzio
desolato della morte;
non trovano
dimora crisantemi recisi,
opachi vasi e
fiori di plastica,
parole annerite
dallo smog.
Qui ancora pulsa
l’anello della vita;
mi parla la tua
voce,
m’allieta il tuo
sorriso.
Ecco la tua casa,
o Madre, la mia casa:
il nostro tempio
della vita. (Pp. 23).
Tornare vivi,
quindi, per sconfiggere, con un richiamo poetico di grande impatto emozionale,
il senso del nulla di Thanatos.
Sì!, certamente
c’è questa venatura di melanconica riflessione sulla caducità dell’essere e
dell’esistere. Ed è umano. È umano che in ognuno di noi esista questa
simbiotica antinomia fra il terreno e la propensione del pensiero all’oltre. Ma
è proprio questo, se si vuole, il pepe e il sale della poesia; è questo
scandalo delle contraddizioni il terriccio fertile da cui sbucano fiori sapidi
di terra e di cielo. Gli stessi fiori che troviamo in quei poetici valori che fanno del canto un
messaggio di speranza e civiltà; e non solo. Valori che impreziosiscono l’opera
di substantia corale, plurale; che
danno l’idea dell’uomo Bassani; dei suoi principi e del suo impegno etico e
sociale:
(…)
La mia patria è
qui
dove libertà e
legge
non hanno bisogno
di custodi
perché sono parte
dell’uomo
della terra;
qui dove le case
non hanno
cancelli
reti o muri
intorno
ma l’uscio sempre
aperto;
il vivere
il morire d’ognuno
è per tutti
un grande evento- (PP. 16).
Stenda la pietà
il suo velo
sui morti di
tutte le nazioni,
sparga
l’indulgenza del pedono,
annulli ogni eco
d’odio e di rancore… (Pp. 18).
Ed è alla poesia,
infine, che il Nostro offre tutto se stesso ed il suo mondo. E si raccomanda,
perfino, alla memoria, perché l’accompagni sempre in questa sua missione. É a
lei che affida un inno di sapore duraturo. Perché crede nella poesia; crede che
possa aprire le porte della luce “alla solitudine umana del nulla”. E la
invoca: “Rimani almeno tu, Poesia/ a cantare quel sogno lontano/… / Vieni,
squarcia le nubi e la nebbia/ che oscurano il cielo e la terra,/… ”. E conclude,
rivolgendosi al suo misterioso potere, con quattro versi emblematici:
Nel silenzio che
s’apre all’attesa,
come allora
innalza il tuo canto,
l’annuncio di una
nuova stagione
che ridoni
speranza al futuro. (Pp. 35).
Sì!, di speranza
per un mondo migliore.
Nazario Pardini 05/02/2013
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