venerdì 5 aprile 2013

PAOLO BASSANI: "AVANTI C'E' POSTO"


AVANTI C’È POSTO


 





 

Percorso della memoria

di

Paolo Bassani


 

 

 

AVANTI C’E’ POSTO

 

Il caro vecchio tram della linea Chiappa era arrivato alla pensione. Era quello il suo ultimo viaggio. Anch’io, bambino, ero andato a salutarlo con i compagni al capolinea di Via Cesare Bertagnini. Un vago senso di malinconia sentivo, quello che si prova per ogni cosa che ci lascia. C’era qualcosa nel mio inconscio che mi legava al tram. Le rotaie, gli scambi, lo sferragliare delle grosse ruote d’acciaio, la sua stessa forma,   mi ricordavano il treno. Già, il treno faceva parte, in qualche modo, della mia famiglia: mio padre era ferroviere, come i suoi fratelli e quasi tutti i nostri parenti.  Ma, per noi bambini della Chiappa, il treno era lontano: per vederlo dovevamo andare a Gaggiola. Il tram, invece, era sempre tra noi; una presenza che si legava alla vita d’ogni giorno. Forse, per questo, con lui (lasciatemi passare questo “lui”) avevamo fatto presto amicizia e preso confidenza. Invero, qualche compagno più grande e un po’ discolo qualche volta se n’approfittava. Ad agosto, per esempio, nei giorni che precedevano la festa del quartiere (San Bernardo), sistemava sulle rotaie mucchietti di polvere esplosiva (una miscela di clorato di potassio comprato in farmacia e zolfo) e, così, al passaggio del tram era tutto un crepitare di spari come una battaglia vera. Qualche volta il tranviere scendeva a “bonificare” la linea.
Con la scomparsa del tram si chiudeva una pagina di storia del quartiere e con essa andavano in pensione abitudini, locuzioni e vocaboli (“attàccati al tranvai”, “il solito tran tran” “tranviere” e così via; sempre rigorosamente con le “n”). Ma per ogni pagina che si chiude un’altra se ne apre: ancora tutta da scrivere. Quella nuova pagina aveva come suo protagonista il filobus che avrebbe, in un certo senso, portato a cambiamenti d’abitudini e di mentalità. La vita, in fondo, è tutta un’abitudine. Ogni novità, inevitabilmente, comporta sempre qualche problema di adattamento e di comportamento. Perfino il lessico non ne rimane immune. Mi ricordo, per esempio, la difficoltà di trovare per gli addetti al filobus un vocabolo appropriato che li catalogasse. Se era stato facile coniare “tranviere” (da tram) non lo era altrettanto, adesso, davanti a quel nuovo composito vocabolo “filo-bus”. Come si doveva chiamare l’operatore del filobus? Forse “filibustiere”? No! Non era necessario essere un linguista per sentire che quel vocabolo strideva alquanto, dando l’idea non di un alacre operatore del trasporto ma, piuttosto, di un tipo per niente raccomandabile. Qualcuno cercò allora, senza fortuna, di coniare qualche altro termine: “filobusere” “filobusista”. Ma, come si sa, la fortuna gioca un ruolo importante anche nel dare una patente alla parola. Quei vocaboli non ebbero fortuna e, così, il guidatore del filobus rimase genericamente autista e l’altro, addetto a riscuotere il pedaggio, bigliettaio.
Il filobus, rispetto al tram, rappresentava certamente un passo avanti nel campo del trasporto degli utenti: era più dinamico, scorrevole e meno rumoroso. Era, insomma, più moderno, in linea con i tempi. Ma anche la modernità ha bisogno di un certo tempo per imporsi e stabilizzarsi. Ogni novità va messa alla prova dei fatti e richiede spesso qualche aggiustamento. Mi ricordo, per esempio, che in certi tratti della filovia, dalle mie parti, le aste del filobus “scarrucolavano” frequentemente costringendo l’autista a pazienti esercizi di ricollocazione (non piacevoli, soprattutto sotto la pioggia). D’altra parte, anche i viaggiatori dovevano prendere confidenza con il nuovo mezzo. All’inizio avevano un certo timore delle porte automatiche: la paura di rimanere chiusi tra esse, magari quando il filobus riprendeva la sua corsa. Già, la corsa! Mentre il tram aveva ben definito il suo percorso, il filobus no, diventava qualche volta imprevedibile. Perdere l’equilibrio, per una svolta o una frenata inattesa, voleva dire spintonare e, a volte, trovarsi quasi abbracciati a qualche altro utente (non sempre entusiasta dell’incontro). Mi ricordo che il bigliettaio (non era ancora entrata in funzione la biglietteria automatica) immancabilmente rivolgeva il suo invito: “Prego…avanti c’è posto”. Io non mi facevo certo pregare: di solito, preferivo collocarmi a ridosso dell’autista. Mi piaceva vedere il percorso e la strumentazione del cruscotto: il voltmetro, l’amperometro e tutte quelle spie luminescenti (verdi, rosse, gialle, a volte lampeggianti): magia multicolore del quadro di comando. E, poi, mi interessava vedere l’autista al suo lavoro: alle prese col volante, col rubinetto per l’apertura delle porte, col pedale dell’acceleratore e il freno. Già, proprio il pedale del freno guardavo con una sorta di timore, quando il filobus percorreva in velocità la ripida discesa dei Fossitermi. Mi ricordavo la scena di un camion che, per un guasto ai freni, era finito contro il muro.
La memoria mi riconduce adesso al 28 gennaio 1951: il giorno dell’inaugurazione della linea filoviaria; nel mio caso Chiappa-Ospedale. Anche noi, quella domenica, eravamo scesi in strada ad attendere quel primo filobus, coscienti di vivere un momento storico. E l’attesa non andò delusa. Anzi, ben cinque filobus apparvero in sequenza, tutti infioccati di nastri tricolore, pieni di autorità e di invitati. Quel primo filobus, contrassegnato con il n° 210, che apriva la sfilata, dava inizio ad una nuova era nei trasporti cittadini, entrando trionfalmente nella comunità e nella nostra vita di tutti i giorni.
Ma, anche noi, popolo comune, sentivamo il desiderio di fare il nostro viaggio inaugurale. Mia madre ed io lo facemmo la domenica seguente partendo dal capolinea del Negrao, naturalmente pagando il biglietto. Ci rendemmo subito conto della fortuna che avevamo, abitando vicino al capolinea! Voleva dire avere sempre il posto a sedere assicurato. Quel primo viaggio inaugurale, per noi, non ebbe soste (e non poteva essere altrimenti); seguì il percorso andata e ritorno per intero: Chiappa-Ospedale-Chiappa.
Più di mezzo secolo è ormai passato da quel primo viaggio. Anch’io, come tanti spezzini, ho un debito di riconoscenza, di affetto, verso il filobus. Anzi, vorrei dire che forse gli devo qualcosa in più. Sì, confesso: ho anche qualcosa di cui farmi perdonare. Per carità, non pensate troppo male! Non ho mai scritto sulle pareti e sui sedili, né viaggiato in clandestinità. Soltanto una volta non pagai il biglietto, ma senza premeditazione. Quando me ne accorsi ero ormai giunto a due passi dall’uscita. Rischiai. E se mi avesse fermato il controllore? Che figura miserabile! davanti a tutti! Che vergogna! Una cosa però va detta a mia discolpa: il giorno dopo quel viaggio “franco” presi carta e penna e scrissi alla Fitram. Inviai l’importo del biglietto non pagato.
C’è, però, ancora qualcosa che devo farmi perdonare. Ora, vestendo il ruolo del pentito, sento di dovere le mie scuse ad un ignoto autista del filobus, a diversi utenti e alla FITRAM: per una vecchia storia di tanti anni fa. Come detto, io abitavo alla Chiappa in via Genova, sul lato destro della strada verso la Foce. Qui era l’ultima fermata del filobus, prima del capolinea del Negrao. Ma, forse, è meglio che spieghi per filo e per segno tutta la vicenda. Avevo acquistato da poco tempo un grosso registratore audio a nastro, meraviglia delle meraviglie per quei tempi. Ero giovane allora e, come ogni giovane, sentivo anch’io una scanzonata propensione per lo scherzo.  E così un giorno, senza pensarci troppo, decisi di giocare un tiro all’autista del filobus che si fermava proprio davanti alla mia finestra (a pianterreno). Erano circa le 12,50 quando arrivò il mezzo. Come al solito si aprirono le porte e i viaggiatori incominciarono a scendere. Fu allora che, a tutto volume, misi in funzione il registratore che scandì il segnale orario delle ore 13, registrato il giorno precedente dalla radio. Ho qui, stampata nella mente, la scena che seguì. L’autista, estratto l’orologio dal taschino, visionò l’ora.  Rimase un attimo indeciso, poi, aggiornate le lancette, riparti come una saetta. Quel giorno il filobus non sostò al capolinea del Negrao in attesa delle ore 13. Partì innanzi tempo lasciando a terra, lungo il suo percorso, non so quanti passeggeri. Non voglio pensare a quante imprecazioni volarono all’indirizzo di quell’ignaro autista e della FITRAM. Chissà se vive ancora questo autista. Vorrei incontrarlo per stringerlo con un fraterno abbraccio.

 

                             Paolo Bassani

 

 

 


 

1 commento:

  1. Racconto premiato nel concorso letterario "Storie di quartiere" e pubblicato nell'omonimo volume edito a cura del Comune della Spezia.

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