sabato 27 aprile 2013

UMBERTO CERIO: "DIARIO DEL PRIMA"





Umberto Cerio: Diario del prima. TIPOLITO ELLEGRAFICA. Gaeta. 2011. Pp. 80



Un percorso, quello di Cerio, tutto vòlto alla ricerca di se stesso, ad una attualizzazione del passato, a una rivisitazione poetico-filosofica di quadri, di fatti, pur minuziosi, che possano vincere, in qualche maniera, il potere dell’assenza, del tempo sfuggito; una recherche: “Che cosa raccontava/ tuo padre e tuo nonno e ancora altri avi,/ che tu potevi dirmi/ pescatori o allevatori d’api/ come Aristeo,…” (pp. 13). Una ricostruzione articolata e complessa, in cui l’autore impiega tutta la sua architettura poetica, sorreggendola con figure di antico nerbo classico. Un tempio di colonne e di celle costruito su schemi di ingegneria ellenica, ma con pietre e pensieri di una modernità profonda, coinvolgente, e, perché no, assillante in questo assiduo tentativo di utilizzo del fatto. Si parte dal dialogo con la madre, per recuperare, dai suoi sogni, dalle sue illusioni o delusioni, il mondo che fu, il Diario del prima. Si continua nella seconda parte con le ventuno ballate. Ma, nel complesso, è la vita che emerge con tutte le sue problematiche esistenziali dell’esserci e dei perché: fughe, ritorni, sogni, incertezze. E c’è, qui, la coscienza di vivere in spazi ristretti e affollati da un mondo che trascura le esigenze di ognuno, in questa sottrazione omologante. In primo piano il filosofo, che, con il suo pensiero lineare e razionalmente finalizzato all’obiettivo, cerca il vero. Pensiero vòlto, appunto, a dare consistenza al passato, a riportarlo a galla con tutta la sua validità da nuova vita. Dall’altro il poeta, che, con la sua fantasia e la sua originalità etimo-affettiva, con il suo verbo fresco e incanalato a rivestire gli slanci emotivi, riesce ad amalgamare il tutto in un poema di grande soluzione umana; di una soluzione che pretende di innervare energia  spazio-temprale ad una linea che vada contro le leggi naturali; e che faccia del passato una realtà solida di supporto ad un presente pronto a slanciarsi nel futuro. Certamente con tutti quei dubbi che tormentano l’uomo cosciente di essere umano. Il tutto in una prospettiva di scoperta, dal risultato alquanto difficoltoso e problematico; e forse, proprio per questo, oggettivo e vicino al sentire di ognuno di noi. E d’altronde sono proprio tutti quei perché ad assillarci. E la cosa certa è che la vita è precaria e la memoria stessa in tutta la sua labilità ce lo conferma. Ci conferma proprio questa fugacità, questo implacabile scivolare e annullarsi delle cose: “Ora l’inquieta sera delle donne:/ non sanno più il telaio/ né col fuso il filare della lana…” (pp. 17). Ma si può recuperare questo patrimonio con la funzione organizzata dell’intelletto? Si può tradire il tempo che si rifiuta di prospettarci il presente? Lo si può fare ricercando storie, momenti, affetti, pensieri,  incontri o parole, ed  andando oltre fino ai riti e alle alchimie dei miti. Cercare là l’origine dei nostri credi e del nostro essere umani. Quei miti che perdono la loro storia nei pozzi reconditi dell’essenza dell’uomo. Ed è la seconda parte, quella delle ventuno ballate, ad affrontare questo aspetto speculativo e suggestivo; lo fa un poeta che sa utilizzare magistralmente pathos, vicissitudine umana, cultura classica, mito in un quadro poetico di estrema compattezza e organicità. Un poeta che sa trattare il verbo in maniera talmente duttile da renderlo ancella di un grande patrimonio emotivo. Cerio fa del memoriale e del prima la sostanza della questione che più ci conturba: essere mortali con l’occhio rivolto all’oltre.
 
Ballata della clessidra

   Segna la mia clessidra
l’estrema solitudine dei giorni,
doloroso silenzio
dell’amaro consumarsi del tempo.
E ancora più feroce
voce di vento inquieta e buia, a sera.
    
   C’erano albe serene
ed i poeti inventavano i miti,
riempivano il mondo
di muse di eroi e sacre leggende,
popolavano il cielo
di Dei lontani da nuvole scure.

   Gli aedi cantavano
dolce il sogno di Chimera e di Dafni,
la speranza dell’uomo,
L’assurda empietà di Teia e Iperione.
e sapevano amore:
ma un abbandono è sempre un abbandono.

          Segna la mia clessidra vuota
          vicine memorie di abissi,
l’inutile sangue dei sacrifici.

   E sono giorni vuoti
se nuovo filo di Arianna si spezza,
se sacertà s’infrange,
se la ragione cede alla violenza.
E muori come Clizia,
uomo, guardando il sole che ti brucia.

   Parola di universo,
negli occhi forza immane di bufera,
caduta degli Dei,
bruciare d’astronave nello spazio,
esplodere di stelle
e nel cuore che impazzisce, la notte.

Segna la mia clessidra vuota
vicine memorie di abissi
l’inutile sangue dei sacrifici.


Nazario Pardini                     27/04/2013


1 commento:

  1. E muori come Clizia uomo (...) segna la mia clessidra vuota vicine memorie di abissi (...) L'essenziale modernità di quest'opera poetica di Umberto Cerio dal titolo ballata della clessidra ha un cuore antico e fonda, nella soggettività della scrittura, l'umanesimo tragico della negazione. Mi sembra davvero un testo a più dimensioni in cui i miti, come sostiene il Prof. Pardini nella nota critica, ritornano nell'umano patrimonio emotivo con occhi rivolti all'oltre. Molto bella, complimenti. Cordiali saluti.

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