Nazario Pardini
Fulvia
Minetti: Parole di pelle
CLEUP
EDIZIONI. Padova. 2014. Pagg. 78. €. 14,00
Poesia
spigliata, avvolgente per cromie e figurazioni mai oziose, dove il verso con il
suo andare flessibile e ondulatorio fa di tutto per abbracciare gli slanci
emotivi dell’autrice. Una poesia schietta, di vita e vitale, che indaga, con vis creativa e perspicace analisi
psicologica, il dilemma dell’esistere; e lo fa partendo dalle cose, dai fatti,
dagli incontri, dalle questioni umane e da tutto ciò che appare, per azzardare
fughe verso l’azzurro più intenso dei cieli. Una plurivocità di polisemica
significanza zeppa di metafore, sinestesie, figure allusive che ampliano il
senso delle parole, ne rafforzano la valenza poetica fino a declinarle in nèssi
di determinanti significanti metrici: dai “denti stretti/ delle tegole”, alla
“ferma voce/ della pietra”, dai “piedi del cuore”, al “vento intriso/ del bacio
della sera”… Il linguaggio forzato da assemblaggi di vaghezze semantiche va
oltre il suo senso per dare spazio a vertigini creative volte a espansioni di
grande respiro. Versi brevi, incisivi, che si susseguono in un frenetico
scivolamento verticale, che tanto significano la profondità di una meditazione
sulle questioni umane, sfiorate, però, mai appesantite da un dire ridondante di
barocchismi verbali. Parole di pelle.
La carne è rivestita di pelle.
E le parole si fanno carne viva, carne che
vibra, pelle-tatuaggio di un sentire robusto e dolce, potente e mansueto, amaro
e generoso, gioioso e umano. Un affacciarsi sorridente alla finestra della
vita, dove l’alba è racchiusa “nelle grotte delle dita”, dove “Le ginocchia dei
massi/ pregano/ sillabe di pioggia”, dove “Ascolto/ la vita muta dei palmi/
schiusi al mattino/ sui fianchi di luce” o dove “il vento spoglia/ gli occhi
dei fiori” in Stormi di memorie.
Una epifanica palingenesi; una festa di suoni
e di colori ; un abbrivo di luci in cui si concretizza un’anima che fa della
lingua un tappeto di velluto orlato e merlato ad accogliere l’incedere del
canto. Una complessa semplicità verbale di sagace ispirazione e di esperita
versificazione che trascina il pensiero oltre se stesso, oltre gli spazi del
consentito. Mentre la natura potente, plurale, e avvolgente cospira e si occupa
di trascinare Fulvia fra i suoi più reconditi nascondigli. Le offre “le bacche
dei suoni”, “il ventre intriso/ del bacio della sera”, “i battenti di
settembre”, “la fronte/ accigliata del cielo” o “l’odore salso/ dei saluti”,
perché in questi spazi possa trovare il terreno adatto per concretizzare i suoi
sospiri; per concretizzare le meditazioni sull’essere e l’esistere con tutto un
fremere di metaforico slancio emozionale: melanconia, gioia, amore, senso di
fragilità di una vicenda umana, e coscienza del tepus fugit.
Ma è Nel
mare degli occhi che forse si raggiunge il massimo dell’espressività
stilistica della Nostra. Una lirica che dovrebbe servire da composizione
incipitaria, da prodromico avvio ad un percorso poematico intriso di tanta
personalità creativa:
Una lunghissima gola
di silenzio la strada,
sotto le guance
di un cielo pudico.
Scoccate le braccia
sorreggo
un colonnato di sapori,
parole correnti e colorate
il mare.
Tempo oltre il tempo
sboccia dai fiori
sotto un ombrello di luna….
Un
richiamo di panico mélange che invita ad amare, a meditare. Sì, a meditare sulla
Bellezza come atto iniziale e conclusivo del nostro cammino.
Su una Bellezza
spasmodicamente cercata attraverso un linguismo audace, azzardato, che va
contro corrente, contro l’uso consuetudinario di una canonica morfosintassi;
direi un linguaggio di celiniana memoria; in cui la Nostra smembra il tutto per
ricomporlo con immagini e costrutti di straripante significatività. Una dualità
testuale che percorre tutto lo spartito dell’opera: quella dell’intenzione
emotiva e quella di una corsa verbale mirata a completarla, a darle corpo. Uno
stile che mi riporta a memoria lo spirito de la Giovinezza del De Sanctis secondo cui la forma deve contenere il
tutto, e non solo forma, ma simbiotica
fusione, equilibrio di elementi, compenetrazione di anima e corpo, di vita
sospirata, gagnée aussi par la douleur,
e una parola che la giustifichi, che la
ingabbi. E tanto è il contenuto di questa vicenda che il termine sembra non
soddisfare del tutto le esigenze espressive di Fulvia.
Come è naturale che sia,
dacché non esiste linguaggio – e la Minetti ne fa una scalata verso vette
inarrivabili – non esiste linguaggio sufficiente a significare il misterioso plasma
dell’animo umano.
Nazario Pardini
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