LINGUA,
LINGUAGGI E POETI
IN RIFERIMENTO ALL'ARTICOLO DI FRANCO CAMPEGIANI "LA POESIA E LA FUNZIONE DEL CRITICO" DI CUI IL LINK:
Entro
a dibattito già avviato permettendomi di esporre un mio modesto punto di vista
e allargando la discussione verso altri fronti.
Fa
bene Franco Campegiani a ricordarci che “ Il fruitore - così come il
critico, che è solo un fruitore più esperto e smaliziato - dovrebbe avvicinarsi
all'opera con altrettanta potenza spirituale, leggendola tra le righe e
risalendo dal prodotto (testo, quadro, scultura o altro) alle fonti archetipe
da cui è generata “.
Anche
Benedetto Croce nella sua Estetica testimonia che “l’attività giudicatrice, che critica e
riconosce il Bello, s’identifica con quella che lo produce. La differenza
consiste soltanto nella diversità delle circostanze, perché una volta si tratta
di produzione e l’altra di riproduzione estetica., L’attività che giudica si dice gusto;
l’attività produttrice, genio: genio e gusto sono, dunque, sostanzialmente
identici”.
Orbene,
appurato che queste affermazioni sottendono valenze sulla cui positività tutti
si troverebbero in accordo, desidero qui condurre il discorso verso un sentiero
tracciato da poeti (molti) e scrittori (meno numerosi) di fresca generazione,
epigoni delle avanguardie letterarie del secolo scorso.
Quanti
di loro adottano un linguaggio “comprensibile” a tutti? E come riesce il
Critico a districare bandoli di matasse che frequentemente il più attento ed
illuminato lettore non riesce a sbrogliare, perdendosi nella caducità di prose criptiche o versi ampollosi
e densi di neologismi, disposti in costrutti palesemente arzigogolati?
Ivi,
oltre che non albergare la coscienza del Bello, neppure v'è traccia dell'Arte
del Comunicare.
L'istinto
naturale del linguaggio dà ad ognuno di noi la possibilità di trasmettere
conoscenze, informazioni ed emozioni ai propri simili.
Non
esisterebbe una società umana cosciente e ben organizzata senza equilibrate
capacità espressive.
Lingue
e dialetti appartengono a gruppi di uomini e popoli che, attraverso secolari
vicende, si sono costituiti a formare paesi, città e nazioni che condividono
valori, ideali e tradizioni comuni.
Il
linguaggio umano presenta due aspetti tra loro complementari: quello individuale
e quello sociale.
Restando
nelle nostre contrade, e a mo' di esempio, Dante o Manzoni negli attimi
espressivi in cui tratteggiano se stessi rappresentano un atto individuale di
fronte alla lingua parlata dell'Itala gente.
Nell'ottica
individuale un' espressione acquista maggior valore quanto più è personale e inconfondibile.
Sotto
l'aspetto sociale, d'altra parte, l'espressione dovrebbe conformarsi in
tutti gli individui della comunità, affinché tra loro possa crearsi un canale
comunicativo chiaro e completo.
Il
poeta che tenta di affascinare il lettore circuendolo con neologismi estetizzanti,
edonistici o contemplativi – dall'impronta spesso goffa – riesce soltanto a
mortificarne l'intelletto, ma non a conquistarne il cuore.
Il
clone di un “m e r i g g i a r e pallido
e assorto” andrebbe a spiaccicarsi tra le facce untuose di un “t r a m e z z i n o” di dannunziana fattura
mentre l'accorto Montale, ligio alle forme e allo stile di una lingua nitida,
oggi manipolata con estrema leggerezza, sorriderebbe leggendo strofe
strapazzate da inconsulti, roboanti vocaboli.
E il
Critico?
Deve
stare accorto a non incensare opere che si fregiano di “nuovo” indossando
parole o locuzioni eccentriche, mirabolanti , ma che sono incomprensibili ai
più.
L'intimismo
individuale – declinato in autentici versi o in brani virtuosi – non ha bisogno
di addobbi: deve presentarsi sul palco della Letteratura con la genuinità e la
purezza che odora di “umano” poiché è limpido fiotto delle scaturigini
universali.
E dice
bene Campegiani quando afferma che il Critico “... debba possedere qualità di poeta, o comunque di
uomo non solo interessato, ma direttamente coinvolto nei fenomeni e nei
processi creativi ”.
Ma
spesso – e ciò lo rileviamo nel contesto di ogni forma d'Arte – un processo
creativo condotto in porto con maliziosi artifici lo si spaccia per brillante
intuizione. E il messaggio che si trasmette diventa ingannevole, artefatto,
adombrato da stratagemmi che nulla hanno a che fare con le candide pulsioni
dell'anima.
Come
poeti ci resta allora solo da fare la “Poesia onesta”, se non vogliamo
incorrere nella tirata d'orecchi nietzschiana:
“… il poeta, presuntuoso,
patetico, importuno, come sono soliti esserlo i poeti, questa persona che
sembra satura di possibilità e di grandezza, anche di grandezza etica, e che
tuttavia, nella filosofia dell’azione e della vita, raramente giunge alla
comune onestà... “.
Roberto Mestrone
Un
intervento ricco di saggezza questo di Mestrone, che oltre ad una riflessione
personale, vanta una profonda conoscenza della letteratura critica da cui
attinge per dimostrare la validità dei suoi assunti. Io sono pienamente
d’accordo su tutto. Soprattutto sull’idea che la lingua debba essere semplice e
comunicativa e che non si debba rifugiare in rocamboleschi barocchismi che il
più delle volte servono a nascondere vuoti di idee. Tanto più la poesia. Essa
deve raggiungere la platea, e lo deve fare con immediatezza, agguantando
l’anima del lettore in una simbiotica empatia, ammesso che esista l’atto
creativo, il cosiddetto genio estetico. Questo è il primo obiettivo. E deve
emozionare, deve far vibrare le corde del cuore. E lo deve fare al primo
impatto con la sua vis umana, esistenziale, nel suo magico gioco di azzardi che
ne traslano gli abbrivi oltre i limiti del nostro essere terreni. Da ciò
l’universalità del canto: partire dalle cose più umili per farne una scalata
verso l’irraggiungibile; d'altronde la poesia è uno dei pochi mezzi che ci
permettono di agguantare la coda dell’eccelso. Possono andar bene figure
retoriche, nèssi allusivi, ma spontanei, vòlti ad abbellirla e non ad
appesantirla. E credo soprattutto che debba rispettare misure metriche
finalizzate a creare quella indispensabile armonia versificatoria che è
elemento determinante dell’atto creativo. Non credo di certo ad una misura
spaziosa, prosastica, in cui il verso possa permettersi di andare a capo a
piacimento. Ed il critico? Poeta poetae adductus. Artifex artifici adductus. Il
critico deve fare sua l’opera, la deve ri-vivere, ri-creare, e con tutta la sua
generosità emotiva stendere la pagina critica imbevuta del suo modo d’intendere
e di sentire. Poesia su poesia. Respiro su respiro.
L’atto
creativo è individualità traslata all’universalità del sentire. E la funzione dell’esegeta
è quella di sapersi intrufolare anima e mente nei significati e significanti
del testo, tanto da farsi lui stesso nuovo creatore. Non ci devono di certo
essere barriere, stacchi, fra le due posizioni. Ma interscambiabilità emotiva.
Confluenza sentimentale e semantica. E dirò di più: se il critico, oltre ad
essere tale, è anche poeta credo che otterrà la sua finalità con più
partecipazione autoptico-interpetrativa. Con maggiore resa critico-estetica,
umano-esistenziale, o etico-sociale.
Nazario Pardini
Platone definiva i poeti filodoxoi, "amanti degli spettacoli", contrariamente ai filosofi, amanti della verità e del sapere. I poeti tuttavia possono anche essere "onesti", come giustamente osserva Mestrone, dando vita ad un canto che sa di verità, anziché di narcisismo vanitoso. Ma i filosofi sono davvero orientati verso la verità, se da essa escludono la bellezza, ritenendola a torto vanitosa? Anche la filosofia dovrebbe essere "onesta", riconoscendo che il Vero, il Bello ed il Buono non sono tre categorie separate dello spirito, ma profondamente intrecciate tra di loro. E' quando si coglie questa unità che il linguaggio diviene estremamente comunicativo. L'arte del comunicare a mio parere sta qui, in questo sguardo puntato sull'assoluto, lasciandosi individualmente illuminare dall'unità del vero, del bello e del buono. Un linguaggio (un pensiero) siffatto arriva con immediatezza ad ogni platea, mentre se si punta lo sguardo sulla platea si scade inevitabilmente nella banalità del noto e dell'acquisito.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Caro Franco, sono d'accordo quando affermi che il Bello, il buono , la verità, il Vero si estraggono dalla profondità di un quid che ci orienti verso l'alto, ma a questi virtuosimi (non più di moda) è necessario aggiungere il pensiero "pensante" l'unico, l'impareggiabile, che escluda la vanità e la vacuità nelle quali è intriso il mondo contemporaneo. A illuminare l'unità del tutto, ad armonizzare le diverse forme di vita, di onestà intellettuale, di sapere è sempre l'intelletto, e che sia del filosofo o del poeta, o dell'artista deve essere "verità" non inquinata, linguaggio estremamente evocativo, perfettibilità d'intendimenti, sempre puntati verso l'alto e l'Assoluto che prima o poi andremo a raggiungere . Il danno che ne viene fuori dalla mancanza di spiritualità intellettiva è quella sorta di NON discernimento che ci rende sordi e indifferenti dentro la cortina criminogena del nostro stesso vuoto, che non s'intreccia con l'individuo e ne fa una specie di monco risultato che tanto deprechiamo...
EliminaNinnj Di Stefano Busà
Concordo con quanto asserito da Roberto Mestrone permettendomi d'insistere sull'idea di "poesia onesta". Lo reputo determinante, e voglio porre una domanda: cosa s'intende per onestà in poesia? Beh, mi sento di dire che la parola, nel caso in questione, va oltre il suo usuale significato perché abbraccia non solo la sfera morale ma - molto più intensamente - quella spirituale. Cerco di spiegarmi: il poeta deve essere onesto prima di tutto con se stesso, deve riconoscere "la voce", e deve anche essere irremovibile qualora percepisca un qualche presagio di falsità.
RispondiEliminaSi dirà: ma questo è un processo razionale. Nulla di più sbagliato: è, invece, pura istintività, accordo con il pensiero universale che continuamente ci pensa (Franco mi perdonerà se mi approprio, parafrasandoli, di suoi versi)
Il critico? Ho già espresso la mia opinione sul blog: aggiungo, ora, sotto questo punto di vista: "onestà su onestà".
Sandro Angelucci
Nel suo intrigante e circostanziato intervento Roberto Mestrone mette a fuoco due aspetti, che, per la lingua e i linguaggi, attengono a due ruoli ben distinti: il ruolo del poeta e quello del critico.
RispondiEliminaDel primo, cioè del poeta, Mestrone chiama in causa la “comprensibilità” del linguaggio poetico; del secondo, ovvero del critico letterario, chiama in causa la capacità interpretativa ed esegetica. Concordo con Sandro Angelucci nel ritenere che il poeta non possa prescindere dalla necessità di tendere ad una “poesia onesta”. Secondo l’alto magistero di Umberto Saba, infatti, la “poesia onesta” dovrebbe rappresentare, per il poeta, una sorta di imperativo categorico, un principio imprescindibile cui ispirarsi costantemente. E condivido con Franco Campegiani la convinzione che, per questo riguardo, il poeta debba fare suo questo assunto, “dando vita ad un canto che sa di verità, anziché di narcisismo vanitoso”. Molto opportunamente, di rincalzo, Njnni Di Stefano Busà sostiene che questa “verità” deve essere “non inquinata”, ma deve perseguire “un linguaggio estremamente evocativo, perfettibilità d'intendimenti, sempre puntati verso l'alto e l'Assoluto”.
“Poesia onesta”, dunque. Poesia che sappia parlare al lettore e che sappia evitare la vuota accademia, il virtuosismo fine a se stesso, la ricerca degli “effetti speciali”, gli sperimentalismi di assai dubbia capacità espressiva e valenza poetica, mascherati da farraginose e criptiche circonvoluzioni/circonlocuzioni semantiche, contrabbandate per il “sole dell’avvenire”. D’altronde, molti avanguardismi sono passati sotto i ponti senza lasciare apprezzabili tracce, e nessuno ne rimpiange l’estinzione; segno che le proposte avanzate e gli esiti raggiunti non avevano il crisma della vera poesia.
Anche per chi si accinge a poetare, quindi, il linguaggio deve assumere una valenza sociale, deve superare l’individualismo e, più ancora , l’intimismo e il solipsismo esasperati.
Diceva Franco Fortini, a questo proposito, che “la poesia (…) chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso”. E ancora, “la poesia non vuole comandare, non vuole persuadere,non vuole indurre, non vuole dimostrare. Si impone con l’autorità dell’ istituzione letteraria che essa evoca o rivive”.
Per passare alla seconda questione, quella cioè relativa al ruolo del critico, va da sé che, se la poesia deve essere “poesia onesta”, anche il critico letterario dovrebbe attenersi all’esortazione di Umberto Saba. Fa bene Roberto Mestrone a “bacchettare”, tra le righe, quei critici pronti ad “incensare opere che si fregiano di “nuovo” indossando parole o locuzioni eccentriche, mirabolanti, ma che sono incomprensibili ai più”.
E Nazario Pardini contribuisce, da par suo, a delineare il ruolo del critico ideale: “Poeta poetae adductus. Artifex artifici adductus. Il critico deve fare sua l’opera, la deve ri-vivere, ri-creare, e con tutta la sua generosità emotiva, stendere la pagina critica imbevuta del suo modo d’intendere e di sentire. Poesia su poesia. Respiro su respiro”.
Ma se il poeta, o presunto tale, non offre sponde né corrispondenze; se egli segue un percorso del tutto sconosciuto (non in senso squisitamente culturale, ma in senso esclusivamente individualistico) al lettore, come potrà il critico “fare sua l’opera”, “ri-viverla”, “ri-crearla”, e così consacrare quella “poesia” e darle il suo “imprimatur”?
Non è il caso di parlare, perciò, se non "en passant" e per “dovere di cronaca”, di quei “critici militanti” che, condizionati dalle lobbies delle grandi case editrici (e da interessi assai discutibili e assai poco trasparenti), sono pronti ad innalzare ponti d’oro per il nascente nuovo astro di turno della poesia, un astro magari sponsorizzato da gruppi di potere, dai grandi circuiti mediatici, da danarosi pseudo Mecenati, dalla politica (per qualcuno di loro era perfino nato, recentemente, un Comitato per il Nobel!...).
Ma questo è un altro discorso.
Umberto Vicaretti
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