venerdì 25 luglio 2014

ROBERTO MESTRONE "PALLIDE TOGHE ED EREDITA' CULTURALI"

                      
                           
Roberto Mestrone collaboratore di Lèucade

PALLIDE TOGHE 
  ED 
EREDITÀ CULTURALI

Riferimento a Pasquale Balestriere: "Di giurie e di premi letterari", su Lèucade di luglio 

Molti di noi sono convinti che comporre poesie sia impresa facile:  basta incolonnare dei versi e il gioco è  fatto.
Costoro non si rendono conto che – per l'animo umano – il “dopo” la lettura di una lirica (che si possa ritenere tale) non è più come il “prima”.
Qualcosa è cambiato: quei versi ci hanno trasmesso un'emozione consegnandoci le intime riflessioni dell'autore.
Una lirica non è autentica se non riesce a suggestionare il lettore, e il lettore iniziato all'arte poetica è poco più di un principiante se non sa cogliere le emozioni suscitate da un componimento pregevole.
L'anello che non tiene” individuato dall'amica Maria Ebe deve essere sostituito per far sì che la catena regga: la Cultura non può accettare, tra i propri difensori, dei dilettanti allo sbaraglio con la veste di paladini senza arte né parte.
Se il Poeta è quell'Essere che con una matita e un foglio tenta di esplorare un altro altrove, il Critico deve essere in grado di immedesimarsi in quell'altrove. Ma non basta: occorre anche che sappia riconoscere, nei versi di Nazario, Umberto o Giovanni – citati da Maria Ebe – dei perfetti endecasillabi.
Mi sia permesso di obiettare: come si può assegnare il ruolo di giurato, in un Premio di Poesia, ad un illustre personaggio per il quale le forme metriche sono un territorio ancora da esplorare ? A quale giudizio verrebbe sottoposto un sonetto classico che, pur se suggestivo e convincente nel contenuto, racchiudesse un paio di endecasillabi zoppi ?
Tenendo ben saldo il testimone di Maria Ebe amplio il discorso: come possiamo chiamare poesia una cascata di versi strampalati che, fustigati da una prosodia da urlo, racchiudono un'accozzaglia di vocaboli chiassosi o terribilmente immaginifici, introdotti con saccente convincimento dall'autore per camuffare la sua poca dimestichezza col vocabolario dell'italica lingua?
All'amico Pasquale, che ancora non conosco di persona, assicuro: in Italia sono operanti alcuni sodalizi letterari che “respirano” cultura ed arruolano, nei Premi letterari che periodicamente organizzano, giurati di buona taratura per accogliere, con saggio equilibrio, le opere da valutare.
Io faccio parte del corpo giudicante di alcune realtà culturali; come te, credimi, troppo spesso nella biblioteca della vita ho sfogliato i volumi del dolore, e così, quando varco l'uscio di un autore che con versi sublimi dipinge i propri patimenti, mi accosto a quell'anima con devota empatia e ammirazione, ma non posso esimermi dall'esprimere un parere rigoroso sugli altri elementi, strutturali, dell'opera oggetto di analisi.
Nel calarmi nei panni del critico occorre ch'io operi con le “ali dell'anima” e la “forbice dell'intelletto”: mi adagio sulle strofe per distinguere il bel verso da quello pacchiano, mi impegno ad individuare e sanzionare strutture metriche scorrette e forme lessicali non appropriate.  Altrimenti l'autore di pregio, qualora venisse giudicato in maniera superficiale o scriteriata, si allontanerebbe dal giardino di un Parnaso che riterrà piagato da giudizi discutibili o, peggio ancora, assoggettato al “servilismo da richiamo” o ai “voti di scambio”.
A Lorena chiedo con fraterna simpatia di non covare l'intenzione di non parteciparvi più (ai Premi letterari).
Aver vinto con onore non è assimilabile ad un'illusione: custodire nella borsetta il curriculum di una Cenerentola non significa – salendo sul podio più alto – vivere gli attimi frizzanti di una favola, ma ci si proietta nella dimensione del “palpito allargato” del nostro cuore. L'encomio della giuria e gli applausi che riceviamo per i nostri “pensieri profondi” non devono procuraci eccessiva euforia ma neppure avvilente disincanto. Un'opera vincitrice viene letta e riletta decine di volte da coloro che, assennatamente, la premiano, e quindi il verdetto è da accettare senza riserve: quei versi hanno raggiunto l'ambìto bersaglio dell'anima!

Franco intravvede spiragli di luce ritenendo, anch'egli come me, che non tutti i giurati sono macchiati di chissà quali colpe o manovre. E ci ripropone le buone intenzioni de “Il Bandolo”.
Vorrei condividere con voi la lettura del primo articolo di questo eloquente Manifesto Culturale da me sottoscritto: “ Spesso oggi si assiste allo spettacolo di un'arte per iniziati che non parla di umanità, ma si avvita su se stessa in forme capricciose e futili, molto più amanti di sensazionalismo che di verità. ( ….. ) L'arte non deve essere il fine dell'artista, strumentalizzando e asservendo l'uomo a quella finalità, ma al contrario, deve essere un mezzo al servizio dell'umanità. Vogliamo un'arte meno vanesia, che si lasci ispirare dai valori autentici dell'uomo, dalla sua essenza, dalla sua universalità (…..).

Sandro, sottolineando il convincimento di Pasquale secondo cui il compito nobile dei Premi letterari è quello di creare momenti di confronto, di conoscenza, di stima reciproca, dai quali - non proprio raramente - nascono vere amicizie, tenta di rendere evanescente la linea di confine tracciata tra i giudicanti e i giudicati e ci infonde la consapevolezza che non sono i successi (anche quelli eclatanti) che fanno il vero scrittore (o il genuino poeta), ma è la missione di messaggero d'Arte che questi incarna a renderlo degno dell'alloro.

Umberto (Vicaretti) auspica, per il futuro, una rivoluzione culturale che possa porre fine al dilagare della confusione dei ruoli: la presunzione, l’immodestia, unite all’incompetenza e all’approssimazione, costituiscono quella micidiale miscela di povertà culturale le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Ciascun operatore culturale e tutti gli amanti del Bel Verso dovrebbero immergersi nella lezione crociana che assegna al Poeta il compito di ricondurre l'individualità all'universalità, il torrente del finito all'oceano dell'infinito, e pur individuando nella “liricità” la fonte di ispirazione comune a tutti gli uomini, chiarisce che l'estro creativo diventa Poesia con il contributo della Conoscenza.

Agli amici Antonio, Giorgio, Nazario, Umberto (Cerio), e a tutti coloro che sono intervenuti replicando con argute argomentazioni alle sollecitazioni di Pasquale, rivolgo un invito: chiediamo ai giovani di accompagnarci nei salotti che frequentiamo e alle manifestazioni cui assistiamo.
Il consumismo che sta dilaniando la società rischia di  atrofizzare le loro intelligenze rendendoli computer-dipendenti e schiavi dei gioielli informatici. Spalanchiamo ai nostri nipoti le porte del sapere “a buon mercato” ed aiutiamoli ad accostarsi all'Arte: introduciamoli nei reading poetici, nei cenacoli letterari, nelle sale che ospitano le manifestazioni dei “sani” Concorsi di Poesia.
Convinciamo le “nuove leve” che non tutte le nostre eredità culturali sono infangate dal malcostume o dal pressapochismo. Se riusciremo a conquistare la loro fiducia sarà più agevole prospettare, anche  ai talenti più riluttanti, un futuro migliore, rendendoli orgogliosi delle capacità intellettive che posseggono ma che non riescono a valorizzare poiché privi di una guida.

Riprendo in mano il filo conduttore del dibattito, e augurandomi che giurie esaminatrici e liriche partecipanti percorrano sempre i limpidi sentieri dell' “onestà intellettuale”,  concludo rammentandovi il saggio monito di Maria Ebe : “ chissà se siamo ancora in tempo a salvare quel soffio vitale e lieve chiamato "poesia" oppure continueremo a stupirci se nessuno più acquisterà un libro di versi.

                                    Roberto Mestrone


                                                                                                                                                                                                                                                                  

1 commento:

  1. Quando apro la mia borsetta, oltre al curriculum da Cenerentola, trovo quello di una donna che si è sempre data all’Altro in modi diversi nel corso della sua vita. In quest’ultimo tratto, la Poesia ne è diventata parte integrante. Scrivere per me è “un togliere a sé stessi qualcosa per darlo all’Altro” e questo “Altro” è soprattutto il Pubblico( o Lettore). In quel curriculum ci sono anni di esperienza teatrale e di palcoscenico, seppure vissuto amatorialmente e nella realtà di una zona ristretta come la Garfagnana, in cui, ciò che più ha contato è stato il Pubblico. Vale a dire l’elemento ricettivo dell’animo di un artista. Quindi, quel podio per me è stato soprattutto un palcoscenico su cui il mio corpo scalpitava soltanto per raggiungere il microfono e poter dar voce alla lirica che la mia penna aveva scritto. In quel momento, niente mi sembrava quel Premio, a confronto della possibilità di poter “dare all’Altro” ciò che “ho tolto” - in forma di poesia - a me stessa. E intendo “togliere” nel senso etimologico del termine, cioè di “allontanare levando in alto”.
    E’ la reazione di chi “riceve” che mi preme soprattutto come poetessa. Per questo scrivo, oltre che per me stessa. Ma se ciò non mi interessasse terrei tutto custodito gelosamente in un cassetto e mai mi sarei data in pasto al web per anni. Se ho voluto sperimentare l’esperienza dei Concorsi l’ho fatto per scoprire e capire un mondo che mi era sconosciuto. Non per vincere e vantarmene poi. Nessuna Fata ha trasformato la mia zucca in carrozza, se non la mia penna che, in questo caso, per la Cenerentola che sono, si è rivelata una bacchetta magica.
    “Il timore di un’illusione” non è riferito nello specifico, ad una carrozza che a mezzanotte ridiventa zucca, ma a tutto un sistema che, come è stato ampiamente ed esaustivamente spiegato dai ben più esperti di me e insigni Poeti e Critici che hanno partecipato a questa interessante discussione, non sempre agisce in modo ortodosso, non sempre premia le opere migliori, non sempre ha la competenza necessaria per farlo. E’ proprio nell’azione di questo “non sempre” che si infonde negli artisti premiati la convinzione di essere dei sommi vati, dei talenti unici, dei depositari della Poesia, generando quel narcisismo di cui Franco Campegiani ha ampiamente trattato nel manifesto de “Il Bandolo”, condannandolo in modo assolutamente condivisibile.
    Se covo l’intenzione di non partecipare più ai Concorsi è perché non so ancora discernere appieno quelli veramente validi, ma anche perché esistono altre e, forse, migliori vie per “dare all’Altro”, che è alla base della trasmissione culturale.
    Credo che Roberto Mestrone sia un giudice attento e competente e sappia insinuarsi perfettamente nell’animo di un’opera per comprenderne il valore, ma “non sempre” e “non tutti” sanno fare altrettanto o intendono farlo.
    Ringrazio per lo spazio concessomi e chiedo scusa se mi sono dilungata sulla mia recente esperienza.

    Lorena Turri

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