a
Carmelo
Consoli: La solitudine dei metrò
LCE
Edizioni. Castelfranco Veneto. 2014
Sei
nella solitudine dei metrò
quando
invece pensavi di abitare
nel
grembo caldo della terra.
(…)
E
cerchi un sorriso, una carezza
che
ti sfiori, ti perdi
dipanando
il filo arrotolato del cuore
nel
groviglio delle linee elettriche,
nel
grido di ruggine dei treni… (La
solitudine dei metrò).
Poesia
nitida, densa, umanamente intrigante, i cui versi, con perspicua accentuazione visiva,
fanno di tutto per concretizzare le emozioni scatenate dall’impatto con una
verità di proteiforme valenza emotiva. Un realismo trattato in tutte le salse,
e scandagliato in tutti i selvaggi rovi i cui pungiglioni graffiano un’anima
sensibile spersa nella loro selva. E fa già da prodromico avvio la citazione
testuale che si pone come momento incipitario con valenza eponima. La realtà,
la fuga, gli sprazzi di naturismo ora sottile e pacato, ora luminoso, rifugiano
il malum vitae, la condizione umanamente disumana di una società fredda e
convulsa dove uno squarcio di cielo, spesso, fa da ristoro ad un poeta alla
ricerca di una Bellezza, materiale e spirituale, di cui sente il bisogno.
Affermava
Thomas Eliot: “La poesia è connaturata all’umanità: il vero poeta assimila e
trasfigura, lo scriba si limita a copiare”. E qui si può parlare di vera e
generosa trasfigurazione, dacché il poeta ha vissuto e vive i vari momenti che
hanno inciso sul focus del suo canto. La sua non è certo la descrizione
pedissequa della realtà che ha di fronte, ma, piuttosto, la raffigurazione di
immagini che, sedimentate, si rovesciano sul foglio intinte del suo pathos. Un
canto personalissimo infoltito di motivazioni civili, di riflessioni su una
società estremamente liquida, sfuggente, in cui persino i ricordi stentano a
trovare spazio; dove tutto è precario, in vertiginoso movimento; dove viene
accantonato il tempo degli affetti, fagocitato da un modus vivendi a dir poco baumaniano;
un mondo di viandanti sperduti, direbbe Cardarelli. Sensazioni che si declinano
in stati d’animo di un esistenzialismo di memoria calviniana e di oggettiva
compartecipazione per la loro universale valenza. Ci si trova di fronte ad una
realtà per cui viene da chiederci se il progresso è questo; o se invece è stato
tradito in base a quel principio sacrosanto Galileiano secondo cui è tale solo
quando è a beneficio degli uomini.
La solitudine dei metrò, il
titolo. Una plaquette divisa in tre parti: Nel
grigio dei palazzi, Armonie e dissonanze-la vita in concerto, L’amore strepitoso.
Sì, solitudine, malinconia, ma quella giusta, sfiorata, per una valida resa
poetica; dolore, anche; ma amore, e trasalimento per quei barlumi di Bellezza
che ancora permangono e ancora di più spiccano in questo mondo scarso di
meraviglie, ma ricco di diseguaglianze, di rumori assordanti, di bigi colori ad
uccidere il canto di un’alba che maschera la vera città.
Si parte dalle minuzie, dalle piccole
cose, che poi si fanno grandi questioni in un realismo lirico di polisemica
significanza, di perspicua intensità visiva, di cui si era fatto interprete
Aldo Capasso, influenzando la metà del
novecento letterario:
dai
Suonatori
di strade
(…)
Due
a suonare vecchie melodie,
uno
a raccogliere monete
da
un cielo di persiane grigie.;
a
La
città dei poveri
(…)
La
città dei poveri
vive
nel cuore della sera
si
annida nelle mense della Caritas,
riposa
dentro i cartoni
al
riparo dai palazzi.
(…)
Già
mi vedo anch’io con loro;
vorrei
stare accanto a Fuffy,
buffo
da morire, con le zampe alzate
e
un piattino tra i denti.;
dai
muri colorati d’amore, al volto triste della città del bar della stazione;
dal
Telegiornale primo:
(…)
Se
guardi sai già che starai male,
se
spegni sei in un silenzio
bianco
di pareti e non vedi
nemmeno
il cielo dai palazzi.;
a
Dalle pareti accanto:
(…)
Restano
di quel cielo
calato
dai soffitti poche gocce d’amore,
sciolte
nell’amaro dei giorni,
nel
macero dei sogni;
fino
a Il computer:
(…)
Quando
la città dorme
Piero
accende
ammiccanti
sirene,
entra
ed esce dal computer
quasi
fosse in magico bazar.
Una
descrizione struggente e meticolosa, dove gli ambienti supportano psicologie
distrutte da un andare convulso che produce una società irrelata non più
correlata; dove darsi la mano o guardarsi negli occhi è per lo meno un fenomeno sempre più
anacronistico e inconsueto, se paragonato ad una civiltà dove l’incontro e la
collaborazione erano il pane quotidiano:
(…)
come
quando vivere
voleva
dire respirare l’infinito,
starsi
a contare sulle porte,
quando
non c’erano file continue,
guerre
urbane e ognuno
aveva
riflessi arcobaleno negli occhi
(…)
in
un intrigo di oleandri e gelsomini (Altre
fragranze).
Ed
è qui che il poeta rivive, perdendosi nei profumi e nei canti di viottoli alla
menta, di tornanti alle ginestre, di stelle azzurrine, di lucciole nell’aria.
Un ossimorico travaglio, una via crucis di antitesi che fanno di questo poema
un’ermeneutica danza di simbiotiche dicotomie. E d’altronde la vita tutta è
alimentata dallo scandalo delle contrapposizioni, dall’eracliteo polemos fra
gli opposti: giorno notte, buio luce, bene male, Eros Thanatos. Sta in questo
equilibrio degli estremi la nostra vicissitudine terrena. E la vita è proprio
un concerto di dissonanze. Esserci significa prenderne le due facce, viverne i
due volti, con il pensiero e la coscienza della sua sacralità, e con la mente
rivolta all’oltre, oltre quella siepe che fa da spartiacque fra il buiore e la
luce. Non è detto che si smarrisca il sentiero di Grezzano dove il poeta ci
accompagna con i suoi versi di euritmica musicalità:
Ci
rapiva l’immenso di stelle.
Grezzano
di notte,
stretta,
lontana borgata dei sogni.
Tre
case e campi d’avena
sul
sentiero che saliva alla foresta
ad
un passo dalla luna,
dal
canto dei lupi innamorati… (Grezzano di
notte).
Non
si tratta certamente di pastorelleria agreste, o di arcadico ozio letterario,
ma dell’altra faccia dell’esistere:
chiamalo sogno, utopia, miraggio, obiettivo
o altro; io lo direi realtà pura dove ancora è possibile vivere e respirare
quel profumo che sa di buono e di rimembranza. E’ lì che il sogno ci
avvicina alla contemplazione, ed è lì
che l’anima rincasa dopo la sua fuga verso un incontro con persone care i cui
volti permangono ritrattati nel suo etere:
Ciao
Franca amata sposa
ti
lascio tra Martina e Salvatore
altre
vite, altre storie,
altri
sogni rimasti negli occhi.
(…)
Vi
lascio
al
vostro parlottare di anime serene
nell’attesa
di vederci sbucare
dai
quadrati, dalle file,
dalle
pene della terra (Quadrato otto, fila
settantaquattro).
Nazario
Pardini
25/06/2014
Nessun commento:
Posta un commento