COMMENTO ALL'ARTICOLO DI VITO LOLLI SUL BLOG DI MARZO
Bellissima
questa disquisizione su un tema che amo molto: l’incontro inevitabile tra
Apollineo e Dionisiaco (tanto caro a Nietzsche)che è anche la radice originaria
del legame profondo tra Mithos e Logos. Lo stesso Platone conosceva bene questo
legame fondativo della filosofia, sia pure scegliendo di indirizzare il mito
per lo più alla funzione allegorica. Ma non dimenticava di dare onore anche
alla follia visionaria della poesia simbolica, difficile da decodificare. Ora
dice molto bene Vito Lolli che, ancora oggi, “L’esperto del mito è chi
dimentica la superficie per il silenzio del profondo”. Senza il silenzio
interiore infatti non può emergere quell’Immagine che è “visione” e che da
l’avvio alla scrittura poetica come forma alternativa alla scrittura argomentativa
del Logos. Mi viene in mente, a proposito di “immagini”,quella di Gesù che
scrive misteriosamente sulla sabbia mentre i Farisei condannano una donna
accusata di adulterio alla lapidazione… una scrittura effimera e insieme
profonda espressa nel silenzio che si inciderà nel cuore con la decisione della
“risposta” che salva la donna ( il dionisiaco?) suggerendole un “nomos”
interno. Una delle mille interpretazioni possibili, certo, ma è proprio questo
il linguaggio “polisensico “della poesia filosofica che sgorga dal silenzio. Ed
era il linguaggio dei “poeti teologi” che narravano miti per trasmettere il
“nomos”al popolo, come ben racconta Vico nella Scienza nuova, all’epoca in cui
la ragione non si era ancora affermata, con le sue leggi civili. L’elemento
Apollineo era allora quello di Ferecide, come dice Lolli,”l’uso enigmatico
della parola per accennare, nascondendolo, ad un messaggio proveniente dagli
dei”! Ma come è possibile tutto questo ancora oggi, nell’era ineluttabile del
“disincanto”, per usare la suggestiva espressione di Max Weber?
Sempre Vico parlava saggiamente non di un “progresso” lineare verso l’età della ragione definitiva come voleva il Positivismo – e la fine, così della storia, in senso apocalittico e nichilistico - ma di “corsi e ricorsi” che ogni tanto ci riportano sì nei risucchi di una nuova barbarie, ma proprio per questo rendono ancora necessaria, aggiungerei io, l’intervento dei “poeti teologi”. Altrimenti non si spiegherebbe come Dante, nell’epoca del ritorno alla barbarie , come venne considerato successivamente per molti versi il Medio Evo, abbia scritto un’opera così alta e profonda come la Divina Commedia , oltretutto allegorica, per poter attingere platonicamente sia al Mithos che al Logos, senza il cui incontro non esisterebbe nemmeno il linguaggio letterario.
Ma il poeta teologo oggi, passato per le rivoluzioni del pensiero ottocentesco e novecentesco, è colui che ha il compito di ricostituire l’unità del sapere, ovvero sanare quella scissione tra scienza e metafisica che tanto ha condizionato il mondo moderno a partire dalla rivoluzione scientifica stessa, ma, oserei dire meglio, dalla rivoluzione industriale in poi, che ha rafforzato sempre di più il prevalere del pensiero” strumentale”. Con le conseguenze più recenti della società”liquida” di cui parla Maria Rizzi.
Ma la psicoanalisi junghiana in particolare ci ricorda che abbiamo un mondo di immagini archetipiche a cui attingere per ricordare le nostre radici poetiche fondate sulla metafora e sul polisensismo.
Il poeta teologo può essere dunque ancora, a mio avviso, un visionario, ossia colui che ha la “missione” di creare immagini evocative che parlino all’emisfero destro del nostro cervello, per non dire al “cuore”, ossia quella dimensione interna che ci trascende e che tanto spesso viene sacrificata dalla razionalità ancora predominante. Si ritorna dunque sulle tracce di quel silenzio che mostra e che dice oltre ogni apparenza di superficie. E il mistero può così tornare a rivelarsi, nascondendosi, perché come dice Nietzsche, “tutto ciò che è profondo ama la maschera”.
Sempre Vico parlava saggiamente non di un “progresso” lineare verso l’età della ragione definitiva come voleva il Positivismo – e la fine, così della storia, in senso apocalittico e nichilistico - ma di “corsi e ricorsi” che ogni tanto ci riportano sì nei risucchi di una nuova barbarie, ma proprio per questo rendono ancora necessaria, aggiungerei io, l’intervento dei “poeti teologi”. Altrimenti non si spiegherebbe come Dante, nell’epoca del ritorno alla barbarie , come venne considerato successivamente per molti versi il Medio Evo, abbia scritto un’opera così alta e profonda come la Divina Commedia , oltretutto allegorica, per poter attingere platonicamente sia al Mithos che al Logos, senza il cui incontro non esisterebbe nemmeno il linguaggio letterario.
Ma il poeta teologo oggi, passato per le rivoluzioni del pensiero ottocentesco e novecentesco, è colui che ha il compito di ricostituire l’unità del sapere, ovvero sanare quella scissione tra scienza e metafisica che tanto ha condizionato il mondo moderno a partire dalla rivoluzione scientifica stessa, ma, oserei dire meglio, dalla rivoluzione industriale in poi, che ha rafforzato sempre di più il prevalere del pensiero” strumentale”. Con le conseguenze più recenti della società”liquida” di cui parla Maria Rizzi.
Ma la psicoanalisi junghiana in particolare ci ricorda che abbiamo un mondo di immagini archetipiche a cui attingere per ricordare le nostre radici poetiche fondate sulla metafora e sul polisensismo.
Il poeta teologo può essere dunque ancora, a mio avviso, un visionario, ossia colui che ha la “missione” di creare immagini evocative che parlino all’emisfero destro del nostro cervello, per non dire al “cuore”, ossia quella dimensione interna che ci trascende e che tanto spesso viene sacrificata dalla razionalità ancora predominante. Si ritorna dunque sulle tracce di quel silenzio che mostra e che dice oltre ogni apparenza di superficie. E il mistero può così tornare a rivelarsi, nascondendosi, perché come dice Nietzsche, “tutto ciò che è profondo ama la maschera”.
Giusy Frisina
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