Paolo
Mazzocchini: Chiasmo apparente. Lieto Colle. Faloppio (Co). Pg. 74. Euro 13,00
Poesia
fresca, innovativa, energica, quella della plaquette di Paolo Mazzocchini
editata nella collana Erato per i tipi di Lieto Colle, i cui versi, con ritmi
di prolungata partecipazione emotivo-descrittiva, e simbolico-allusiva danno
forza e concretezza agli intenti di un animo
volto a fare del mare, del nettare, dell’ambrosia, delle amiche, degli
amici, della melanconia, dell’Ipotesi d’assenza, dell’arcana pace, della
pioggia rimbalzante, e del Chiasmo apparente (poesia eponima), un gioco di
riflessi di visiva metaforicità. Un assemblaggio di parole in corpose intuizioni
rilucenti di ontologica essenza umana; di perspicaci oggettivazioni
esistenziali con riferimenti a una realtà spicciola e concreta, dacché è da lì
che parte il Nostro: dagli elementi di quotidiana natura per farne un
trampolino di lancio verso meditazioni che travalicano il particolare per approdare
a riflessioni di carattere filosofico-vicissitudinale; a intrecci saporiti di
umana solitudine in affollamenti “pirandelliani”; tutto volge all’uomo, al suo
esistere, ai paradossi del suo esserci; alla rappresentazione di una poesia
simile ad un’ostrica nell’urna; alla vita nel suo complesso evolversi sotto gli
occhi di uno scrittore che la rovescia, la strizza, la esamina, e la
personalizza con visioni di epigrammatica intensità; con legami verbali che
vanno oltre il comune scrivere; oltre il comune intendere il verso, la sua dispiegazione
contenutistico-significante : Poiesis:
L’ostrica nell’urna
del guscio compone il suo
lutto muto attorno ad un acuto
granello di pena. Con cura
paziente lo circuisce dentro
la sfera liscia dura, in sé
perfetta di una lacrima
di madreperla. Poco
importa se qualche pescatore
mai ne profanerà
l’arcana pace
(Poiesis).
Composizioni che con esemplare duttilità ci avvicinano al modo di intendere la
vita: Di tanta speranza; Il sonno nella
ragione; Epea pteroenta: “Il pensiero frulla/ libero giovane/ passero. Le
parole/ sono le sue ali”; Specula mundi: “Io e voi, noi tutti, occhi/ miopi per
i quali il mondo/ inconcludente indaga il rebus/ ozioso di se stresso”; Rerum natura; Carpe diem; Niente: “Niente/
può nuocerti di più/ del male che può farti/ un innocente”; Deus est; De me
fabula narrabatur…Tante pièces da cui trapela l’idea dello spazio in cui
l’uomo è destinato ad esistere e coesistere: il tempus fugit, l’amore per la
nostalgia, la miopia dell’essere umano, l’impossibilità di vedere oltre,
l’inquietudine della sua vicissitudine, la coscienza della sua precarietà… Il
tutto condito con una salsa piccante fatta con ingredienti di un orto ora
soleggiato ora ombroso.
Una narratologia nutrita di prosastiche
aggressioni, di ripetuti enjambement che fanno da siero coagulante; da corposo
progetto di autoptiche similitudini. D’altronde appartengono proprio al messaggio
di Mazzocchini le visioni di un mondo che ci circuisce ingannandoci: ora col
tempo: “Fuori dal golfo mistico infero/ scorre il magma sordo e viscido del
tempo/ e dello spazio” (Chiasmo apparente); quel tempo che, col suo silenzioso
e imperterrito andare privo di riferimenti o soluzioni ai tanti perché
irrisolti, ci condanna a una vita di inquietudini esistenziali; ora col
memoriale, i rimpianti, le nostalgie, le
illusioni, le delusioni, gli amori che ci accompagnano appiccicati al nostro
ego “… crocchiano appena/ fra i denti con le patate arrosto/ bollenti,
abbrustolite troppo/ perché si riesca a scarnificare/ un grammo lungo di piacere…” (Cena di mezza
estate, tra amici), dove è evidente la scelta creativa e meticolosa di copulazioni
etimo-colorite di urgente resa contenutistico-estetica e figurata; e dove
persino del tentativo di elevarsi all’eterno non rimarrà che una scia di cometa
nella croce inumidita dagli occhi:
… Il dramma
coturnato è nel divieto fisico
assoluto di trascinare oltre
la sospensine del fiato, non
parliamo poi di replicarla
grado dopo grado nella scala
indefinita dell’eterno. Di quella
rapinosa scensione, di quella
trasfusione innamorata di luce
rimarrà non più d’una scia
di cometa nella croce
inumidita dagli occhi
(Divina Voluptas).
In
definitiva quello che resta dopo la lettura, oltre alla densità del cogito ergo… e del suo “pesante”
persistere, quello che resta è un sapiente, piacevole, affabulante, e
intrigante gioco di intarsi verbali; di chiasmi apparenti e di figure
stilistiche incastonati in un linguismo poetico che non esiterei a definire
sperimentale se riferito ad altra poesia che fa del suo esistere un realismo
lirico di capassiana memoria; che fa del suo fluire un adagio, morbido, e
sonoro proporsi in canti di nostrana tradizione. D’altronde anche l’impiego di
un panismo che dà rilevanza oggettivante al tutto, non sa mai di pastorelleria
agreste o arcadico ozio letterario; al contrario serve al poeta per irrobustire
i suoi legami con una interiorità a portata di mano, impellente, o riposata in
un letto di suggestive tinte emotivo-riflessive:
Ci si sveglia talvolta dal letargo di un
dolore come in gennaio filamenti
di alberi affiorano all’alba dal latte
della nebbia nottetempo escreto
dal seno della valle: nella coltre
di lana si incide il trapuntare
nero dei rami, come guizzi
di capillari iniettano appena
il teso pallore dei palmi
schiusi delle mani (Ex
dolore).
La
stessa grammatica poetica è sovvertita dall’uso di articoli a fin di verso, o
da un libero andare a capo senza alcun rispetto delle sensazioni euritmiche del
gioco. Ed è nella poesia finale, forse, più che nelle altre composizioni, che
l’Autore si approccia al dilemma della vita colla equazione fra un tu e un treno su cui puoi
sederti come vuoi, nel verso o contro; fra un viaggio compiuto ed uno da
compiere: corolla del futuro, l’amante compagnia della speranza in un senso; pianto,
rancore, nostalgia, promesse di velluto nell’altro; io aggiungerei ammesso che
ci siano posti a sedere, e che non restiamo intruppati senza potersi affacciare ai
finestrini della vita, per restare alla metaforicità del caso.
Nazario
Pardini
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