Antonia
Izzi Rufo: La casa di mio nonno. Il Convivio
Editore. Castiglione di Sicilia. 2016. Pg. 144. € 13,50
Antonia
Izzi Rufo è nelle cose, e le cose sono in lei. Un connubio stretto di realtà,
sentimenti, di tradizioni, di aria imbevuta di tempi, altri tempi, dipinti di
gioie e colori, di incantesimi, di paesaggi memori “di paesini vicini e lontani
che si adagiavano sulle coste tra il verde e l’immensa vallata solcata da
ruscelli e strade che s’insinuavano tra campi
e boschi, che scomparivano e riapparivano ad intermittenza…”. Un
crogiolo di memorie che sgomitano per tornare a vivere arricchite dal pathos di
una vita. Un imperfetto che con il suo senso di continuità dice da sé di
antiche primavere, di volti scomparsi, di case e fiumi di un’età che intrepida,
torna per vincere le sottrazioni del
tempo. La casa di mio nonno, il
titolo, ed è il primo racconto, eponimo, ad avvicinarci da subito a quello che
rappresenta il memoriale per la scrittrice. Motivo e focus dominante, linea
rossa che fa da coagulante nel dipanarsi delle tematiche. Diciotto racconti che spaziano dai ricordi
alla realtà, dalla storia alla fiaba, dal ménage al dramma senile… Una vita,
insomma, tante vite raccontate con una scritture elastica e sciolta, avvincente
e convincente per la pluralità espressiva, e soprattutto per la molteplicità di
sequenze volte a dipingere, a rappresentare luoghi e paesaggi come
concretizzazione di stati d’animo scortati “dal vento che giocava saltava
sibilava con me e con le querce di S. Rocco”. Una narrazione ricamata di trine
e merletti che con le sue polimorfiche intrusioni tanto ci dice di poesia; di un
vero canto che Antonia si porta dietro per donarlo al racconto. Sì, c’è questo
travaso nella scrittrice, e in certi momenti non è azzardato parlare di prosa
poetica, soprattutto quando Ella è presa da input emotivi rievocativi che la ri-portano
a stornelli di vendemmiatori, all’uva moscatella, alla semplicità di una società
di scambio. Antichi usi, fresche vicinanze, natura in veste variopinta, aspetto
poetico di un periodo che l’Autrice ri-vive con strappi di saudade e vertigini
di panica quietudine: San Rocco, La
vendemmia, La spannocchiatura, La raccolta delle ulive, l’Uccisione del maiale,
La befana, Pasqua e Natale, un succedersi di eventi tinti di un autobiografismo
che, emotivamente cotto a puntino, dà tutto se stesso alla intensità lirica di
una poesia determinante per il valore del testo: “… Eppure/ c’è sempre/
nell’animo mio/ impressa una foto,/ sebbene sbiadita,/ l’immagine viva/ di una
bimba che corre/ col vento, nel vento,/ in un viale/ s’immette di querce/ i cui
rami/ fronzuti l’attendono,/ l’abbracciano,/ la portano in volo/ sul “Colle”,/
a sedere la pongono/ sopra una pietra/ rosa dal pianto/ ma calda/ ancora
d’amore.”, dove una foto sbiadita, e una pietra rosa dal pianto segnano
l’imperscrutabile corsa di un tempo che tutto divora, meno le cose che restano;
quelle che si sono guadagnate il fatto
di esistere. Il dipanarsi delle vicende continua con “Laura e Stefano”,
un racconto il cui contenuto ci dice della fine del pianeta per l’ingordigia
dell’essere umano votato al male e al mancato rispetto della natura, ad una nuova guerra devastatrice: “… Distruzione di paesi e
città, campagne, di tutto quanto era stato raggiunto dal progresso in tre
millenni e morte di quasi tutti gli esseri viventi…”. Ma l’amore salverà il
mondo: “Stefano e Laura s’incontrano in uno spazio desertico…”. L’uomo ritorna
primitivo: “… Non hanno attrezzi agricoli e si servono di pietre… per
zappettare intorno alle piantine… Quella vegetazione segna l’inizio della
rinascita…”. Un diacronico succedersi di tasselli storici: dallo sconvolgimento
totale alla vita, dacché: “la vita è eterna, quindi indistruttibile, e
risorgerà ogni volta dal caos”. E’ essa
che vince
sempre per la scrittrice, questo è il segnale positivo del suo pensiero;
sebbene l’uomo faccia di tutto per distruggere il pianeta, per annullare l’esistenza
di ogni essere vivente, è nel potere
della natura la vittoria sul tutto; anche sulla strada del regresso intrapresa
dal genere umano. Segue Ripiego, (Cristina,
Mauro, Leandro) una storia di sentimenti contrastanti, di ritorno alle radici,
di insoddisfazioni, di tradimenti e pentimenti fino al ripiego a una vita
ecclesiale, o di meditazione e raccoglimento: “ la donna… era assente, tutta
raccolta in se stessa, la sua anima vagava nell’infinito, si spingeva
nell’Oltre, raggiungeva, con la fede e la fantasia, il regno dell’eterna
felicità e lì sostava estasiata”. Continuano
gli altri brani a prospettarci vicende e accadimenti di una realtà a volte
trasferita in spazi immaginifici, ma pur sempre presente, vicissitudinale, resa
umanamente concreta da una penna viva e vivace; attenta e perspicace nel
cogliere i subbugli dell’animo umano. E il cerchio sembra chiudersi col ritorno
all’autobiografismo narrativo: Una storia
come tante, dove l’Autrice torna a rappresentare paesaggi da sogno,
incontaminati, dalle strade bianche, con aurore da petali di rosa, tramonti con
tavolozze iridate. E’ lì che si trova e si ritrova; ed è lì che il suo animo
incontra la quiete; dove i ragazzi giocavano a nascondino; e dove gli ortaggi
crescevano in abbondanza senza bisogno di concimi chimici; e dove Maria percorreva
sei chilometri al giorno, per un viottolo di campagna fino al ruscello che
attraversava saltando sui sassi. Sì, non la storia di una vita qualunque, di
una qualsiasi vita; ma quella unica e inconfondibile, che ognuno vive e che la
Nostra ha fatta sua, lasciandola in animo pezzo per pezzo; intingendola di
tutti quegli intingoli che rendono saporiti i piatti; impreziosendola, insomma, con immagini
arricchite da un tempo che ingrossa e sfuma, che indora e spigrisce, che orna
ed adorna; da un tempo che inquieta, anche, non dandoci risposte sulla fine
delle nostre storie:
“(Maria)
Risponde al saluto del cuculo, antico amico, contempla “la virgola” (il paese
di fronte, di nascita di lei), freme all’abbraccio d’amore che Zefiro, per
conto di “lui”, le prodiga, mentre l’accarezza, baci le imprime sulle labbra,
sensazioni le provoca nell’animo, di tenerezza e calde emozioni”. Stati d’animo
che trovano posto in versi finali e che sentono forte il bisogno di chiudere in
poesia la loro potenzialità emotiva:
(…)
di
nuovo è tornata primavera
“Tu,
amore mio, non torni”.
Così
Maria, lo sguardo lontano,
oltre
l’azzurro, oltre l’infinito.
Nazario
Pardini
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