Silvia Venuti. Sulla soglia della trasparenza. Interlinea Edizioni. Novara. 2016.
Pgg. 128
Dall’attesa di un’alba al mistero del
vivere
Mi piace iniziare
questa mia esegesi aiutandomi con il riferimento ad uno scritto che già avevo
avuto occasione di stilare sulla poesia della Venuti:
“… E il tutto
si snocciola su un piano metaforico unisono e compatto, delicato e
morbido, disposto ad aiutare e a invigorire il significato del poièin con
un significante tecnico-figurato di spessore. E d'altronde se la Nostra riesce
ad avere nel cuore una mimosa piena di vento, o se riesce a
pensare a un vento alto nei rami a portare in alto pensieri e
sentimenti, o se riesce a vedere montagne che si vestono d’alba,
o tristezze mute che si appoggiano sui colori e al suolo, è
segno evidente che sa fare della parola un congegno talmente duttile,
flessibile, ed anche ultra/sintattico, da raggiungere le vette brillanti verso
cui si proietta il pensiero. E non sempre, come sappiamo, la parola è
sufficiente a rivestire gli intenti emozionali che tendono a sradicarsi
dalla caducità degli autunni…”
Riportare questo lacerto
significa tracciare quella continuità emotivo-strutturale che alimenta il canto
della Nostra: una ricerca attenta e scrupolosa
in una simbiotica combinazione con parvenze a cui affida tutta se stessa
per una verità che sa cogliere nella natura, nei lampi di luce, nei suoi
travagli simbolici, ma soprattutto nelle voci allegoriche che tanto sanno di
vita:
Ogni
risveglio
è alba del mondo.
Nella dimensione del silenzio
l’allodola
canta il Vero. (Pg. 17).
Un silenzio meditativo, un
raccoglimento esistenziale, e un abbraccio alla Bellezza come ad mundi verum.
Ogni alba è una rinascita, una catarsi, una epifanica soluzione, e di questo
Silvia Venuti è cosciente, come è cosciente del prezioso linguaggio che Pan
affida al canto di un’allodola. Basta saper leggere e non soffermarci alle
semplici apparenze. E’ indispensabile trarre dai simboli le astrazioni di ciò
che ci sta attorno. Ogni lume, ogni, colle, ogni fiore, ogni scaglia di mare, o
corso di fiume è un trionfo. Leggere in queste fulgide apparizioni i nostri
sentimenti significa scoprire quella parte di noi che ci è nascosta. E’ in
questa poesia incipitaria che già ci vengono incontro quelli che sono gli input
emotivi del percorso poematico della Poetessa; gli scarti semantici per dare corpo
al suo sentire; per concretizzarlo in
involucri di reale consistenza. Il suo linguismo, il suo spartito metrico, la
sua forza stilistica, allusiva, etimo-creativa, non è altro che una richiesta alla
natura di colori e forme per la sua realizzazione. Parlare di esistenzialismo
panico significa assegnare la collocazione giusta a questo canto; ad uno
spartito vòlto a dire della storia di una vita: l’amore, le memorie, la
solitudine, la tristezza, il malum vitae, il mistero, la precarietà del tempo,
la contemplazione e la fuga verso mondi che tanto sanno di quietezza e di
edenico riposo onirico; di un naturismo pieno, illuminante e oggettivante: una
luce che illumina il mondo di fiori e di bambini, un tripudio di amore, che
ogni giorno ci investe con la sua grazia e che dà vita e combatte contro la
morte:
La luce avanza lentamente
e lievemente assorbe oscurità.
In fedeltà d’ore s’offre il mattino,
il sole sorge a illuminare la
vita.
Alimenta il momndo
questo amore divino e
quotidiano
sì che non perisca l’uomo,
l’umanità intera.
Purifica, questa luce,
fa germogliare bambini e
fiori. (Pag. 18),
per
tutte le meraviglie della natura che contraddicono la notte; quasi un canto francescano, direi, ispirato
alla bellezza dell’universo, dove capinere, passeri, merli, celebrano la nascita,
cinguettando garruli all’avvento del Supremo; della sua voce concretizzata
nell’aria tersa, nelle montagne che si fanno più vicine:
All’ora prima,
nitida l’edera
proietta la sua ombra
e le montagne
si fanno più vicine.
Nell’aria tersa
anime alate, cince,
capinere, passeri, merli,
celebrano la vita. (Pg.
19).
Una
frustata di suoni e di colori; una festa
di incanti e di sorprese, sempre nuovi, una vivida coscienza di esser-ci, presente, hic
et nunc nel creato.
E’ un breve e intenso Giorno di memoria pariniana quello in
cui si diluisce l’amplesso esistenziale della Venuti: LE ORE DEL MATTINO, NEL
TEMPO POMERIDIANO, AL VESPERO: Tempora diei; De natura lucreziano, respiro
elegiaco di virgiliano incanto.
Nella seconda parte si
continua questa simbiotica fusione fra anima e visività dell’essere: la gioia
dell’ombra delle foglie, la gioia di vivere, l’immagine che si azzurra e si
eterna, il perfetto equilibrio di contrapposizioni fra il pieno e il vuoto, il
profumo del passato, il ricordo come dono, come rivisitazione di antiche primavere,
mito e realtà indissolubilmente in pace, l’incoerenza che pretende coerenza, il
mistero di un destino che definisce dedizioni, incontri, i segreti dell’ora
tarda. Il tutto in un lirismo dolce e accattivante, intriso di una purezza
sapida di pino, di selva dove i richiami si fanno lontani: la vita che scorre
coi suoi misteri; con tutti quegli interrogativi difficilmente risolvibili; ma qui
c’è l’eleganza e lo stupore, l’ottimismo vitale di un essere che ama ed è
amato; di un essere che ringrazia l’azzurro per avere avuto il dono di
esistere, anche se cosciente dell’avvento di un vespero e di una sera. Un
viaggio di plurima metaforicità che ci è vicino per la sua universale ed
oggettiva traversata; per una navigazione su un mare non sempre favorevole come
la vita ma con una barca che regge le tempeste e sa sempre riprendere il via
con ungarettiano spirito. Fino ad approdare ad isole di pace e serenità, di
quietezza ed inquietudine in un vespero magico di colori, di promesse, di
destini:
(…)
Ho la sensazione vera
che si sia compiuto,
un destino, un viaggio,
una promessa,
come avessi superato
l’ultima prova. (Pg.
100).
Ad isole che nascondono nella loro bruma la
geografia dell’essere e dell’esistere; della luce:
La nebbia
lievitando
prepara nel mistero
un’altra alba (pg
117),
o
il ruolo del nostro cammino sempre
stupito di fronte ad albe fiorite nelle
maglie del mistero nel tentativo
vano di sciogliere quel nodo che ci esclude dal tutto:
Si prova e riprova
per sciogliere quel nodo
della vita che ci esclude
da felice pienezza.
Intanto si vive davvero,
dando il meglio di sé. (Pg.
116).
Nazario Pardini
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