Carnevale, che follia
Sonia Giovannetti, collaboratrice di Lèucade |
L’invito
era chiaro. Diceva: “Cara Carla, per martedì grasso ci riuniamo a casa mia, ho
organizzato una festa in maschera. Ognuno sarà libero di indossare il costume
che desidera e potrà agire in piena libertà. L’anonimato è tassativo: nessuno
dovrà farsi riconoscere, qualunque cosa succeda. Sono certa che ci sarà da
divertirsi. Ti aspetto. Laura”.
Con
Laura siamo amiche dai tempi della scuola; mi è molto cara, anche se non ci
vediamo più così spesso come una volta. Il lavoro e la famiglia esigono il loro
spazio e, in proposito, siamo entrambe impegnate. Quell’invito mi apparve, lo
confesso, alquanto strano. Laura, per come la conoscevo, era sempre stata una
donna allegra e vivace, ma non particolarmente stravagante, né originale.
La
sua vita pareva scorrere su un binario dei più tradizionali e prevedibili: dopo
il diploma, c’era stato subito il lavoro da bancaria e, molto presto, il
matrimonio – che sapevo felice – con Marco, conosciuto sui banchi di scuola e a
cui era rimasta sempre saldamente legata. I loro due bambini, arrivati in
rapida sequenza, avevano blindato ben presto la coppia in una vita molto
regolata e con poche pause di libertà, che tuttavia sembrava essere assai ben
accetta a entrambi. Non mi aspettavo, perciò, una proposta così “audace”, se
posso usare il termine: la sorpresa come evento, e il mistero come suo
condimento, li facevo estranei al carattere della mia amica. Ma chi può dire di
conoscere davvero un altro in tutto e per tutto, sia pure a noi particolarmente
vicino? Così, più per curiosità che per altro, decisi di accogliere l’invito e
lo comunicai subito alla mia amica.
Carnevale di Viareggio |
Presa
la decisione chiesi allora a me stessa: “Cosa sarà bene che indossi?” Sul momento
però non seppi rispondermi, non trovai facile decidere nell’immediato, anche
considerando l’ampia libertà di scelta favorita dal vincolo dell’anonimato. Continuavo a chiedermi: “Indosso una maschera tradizionale, una di quelle che siamo abituati a
veder sfilare tra musiche e balli per sfogare la voglia di prenderci
un po’ in giro? O piuttosto mi faccio ispirare dai grandi carnevali del
passato, in cui era concessa licenza (concessa, beninteso, solo per quel breve
periodo dal potere in auge) di mettere in discussione con modi scherzosi
l’ordine morale, politico e sociale vigente? O meglio ancora” mi dissi “perché non
prendere sul serio il senso del Carnevale come occasione per trasgredire scegliendo
di essere, almeno per quel giorno e fino in fondo, me stessa? Non è in fondo questo” mi ripetevo “il
significato vero e ‘scandaloso’ del Carnevale: poterci togliere la maschera che
ci imponiamo tutti i giorni, quella dei nostri ruoli – sociali, professionali,
familiari – per indossare una maschera
più autentica, quella che ci rappresenta appieno, quella della nostra vera
identità? Perché, dunque, non rendere ancora una volta omaggio a Pirandello e uscire da quell’opprimente teatro del
quotidiano che ci vuole interpreti di una parte che non ci rappresenta per indossare, finalmente, i nostri abiti?”
Affascinata
da quest’ultimo pensiero, decisi di appropriarmi fino in fondo della lezione
pirandelliana: sfruttare la finzione, che è l’arte del teatro e, insieme, la
forma del Carnevale, per rappresentare l’autenticità. E la festa della mia
amica mi sembrò l’occasione propizia per aprire le stanze più riposte dell’anima,
quelle nelle quali conserviamo i sogni, le fantasie, i progetti e anche le
utopie. Più passavano i giorni e più si delineava, nella mia mente, la maschera
che avrei indossato, quella che meglio avrebbe rispecchiato ciò che veramente
sento di essere e che quasi mai trapela di me.
Mi
piaceva anche l’idea di tener fede, così, alla locuzione latina del “Semel in anno licet insanire”, emblema
del Carnevale, perché concederci almeno una volta l’anno una piccola follia serve
a tenere accesa la fiammella del ‘fuoco
sacro’ della creatività, della curiosità, dell’esplorazione di noi stessi;
in una parola, serve a dare senso alla vita. Un po’ come fanno gli artisti,
genialmente sovversivi per vocazione, che rimangono, con ciò che rappresentano,
aggrappati a ciò che sono.
Arrivai
in ritardo il giorno della festa. La porta era aperta e mi trovai immediatamente
immersa nell’atmosfera più classica del Carnevale. Cercai di farmi largo in
quel clima festoso con la speranza di riconoscere la mia amica. Ma non mi
riuscì.
Nel
frattempo, le maschere che vedevo erano le più note: Pulcinella, Brighella, la
bella Colombina contesa tra Arlecchino e Pantalone; Jolly, il giullare per
eccellenza, e poi ancora: Gianduja, Pierrot, Rugantino, Sandrone, Brighella, Scaramuccia,
Tartaglia, Corallina e tante altre, tutte ispirate, al contrario di me, alla
tradizione. L’atmosfera era comunque allegra e divertente; il ritmo della
musica e il suono delle trombette, insieme alle “lingue di Menelik”,
accompagnavano le danze.
Avvicinandomi
al tavolo dei dolci, trovai una sedia libera e mi accomodai per poter godere
meglio della visuale, con la speranza di scorgere Laura. In fondo, avevo
partecipato alla festa per poterla rivedere. Avevo molta voglia di
riabbracciarla e sapere di lei. Attesi mezz’ora prima di essere sedotta da una
maschera alquanto particolare. Un uomo in abiti del 700, pantaloni fino al
ginocchio e un cappello a falde laterali, teneva in mano uno strumento di legno,
una sorta di bacchetta biforcuta che andava scuotendo di continuo. “Chi
può mai essere” mi domandai. Fui distolta
da quella figura dalla precisa domanda che Shakespeare, apparso all’improvviso,
mi rivolse: “Sei Erasmo da Rotterdam, tu?” Annuii
con il capo e lui continuò: “Mi piace il personaggio che rappresenti. E’
in piena sintonia col significato autentico del carnevale. Il suo “Elogio alla
follia” fu geniale per quei tempi e anche ora. Ci aiuta a non prenderci troppo
sul serio, a non entrare troppo nei ruoli. In fondo un po’ di Follia, quella da
lui decantata, ci aiuta a non diventare matti per davvero” sentenziò
sorridendo, mentre ripeteva: “ma il vero
folle non è forse colui che asseconda la maschera che altri lo inducono ad
indossare?”
Mi alzai
e lo abbracciai, dicendogli: “Solo uno
come te, grande Shakespeare, conoscitore acuto e geniale dell’animo umano,
poteva riconoscermi e apprezzarmi. Tu che hai parlato della verità, dell’illusione, dell’inganno, dell’amore e soprattutto di
quel che dovremmo e vorremmo essere e che forse mai potremo.... Grazie!”
Fui contenta
di quell’incontro. Quell’uomo aveva compreso il messaggio di cui la mia
maschera era portatrice: celebrare colui che, più di 500 anni fa, aveva elogiato
quel pizzico di leggera follia che ci aiuta a vivere meglio, a coltivare leggerezza
e ironia quel tanto che serve per sorridere alla vita e perfino, talvolta, per
farcela amare.
Fu
allora che comparve davanti a me una donna vestita da dea che irradiava luce e
calore, così come proprio il mio Erasmo l’aveva descritta nel suo capolavoro.
La dea simbolicamente rappresentata come Follia, che ci spinge ad alimentare lo
spirito del sorriso e che porta al bene. Mi parve proprio questa la maschera di
gran lunga più bella della festa. Era lei, in fondo, che aspettavo da tutta la
sera, e quando finalmente la vidi, presi a ripetere a me stessa le parole di
Erasmo: «… gli elementi emotivi non solo assolvono la funzione di guide per chi si
affretta verso il porto della sapienza, ma nell'esercizio della virtù vengono
sempre in aiuto spronando e stimolando, come forze che esortano al bene ….».
Quella
figura divina mi apparve ancora più bella nel momento in cui si diresse verso
me e, sorridendo, si tolse la rigogliosa parrucca e la maschera di cera. Fu
allora che la riconobbi: si trattava proprio della mia amica Laura! Fu per me un’immensa
gioia constatare che un comune pensiero ci aveva accomunato. In quel preciso
momento udimmo le parole e il ticchettio dei bastoncini di legno agitati dalla
maschera che mi aveva poc’anzi incuriosito. Ci guardò con ammirazione e disse “è meraviglioso per me aver trovato ciò che cercavo.
Sono il Rabdomante, cerco l’acqua con la tecnica più antica, quella nota fin
dai tempi della Cina imperiale e del regno d’Egitto del III millennio a.C. Mi
chiamano infatti lo “stregone dell’acqua” e oggi le mie bacchette non mi hanno
tradito perché ho trovato, grazie a voi, acqua pura: la vostra volontà di
mostrarvi agli altri per ciò che siete e vi piace essere. Ben venga, dunque,
questo Carnevale che ci dà la possibilità di riflettere su di noi. Ben venga,
mie care, tutto ciò che ci esorta a essere ciò che vogliamo essere.
Ma non esagerate, mi raccomando”.
Quel buffo,
improvvisato, simposio terminò con una risata collettiva; mentre Shakespeare continuava
a ripetere: «The world is a stage».
“Ebbene sì”
mi dissi: “il mondo è un
palcoscenico!”
Un brano bellissimo, Sonia cara, che mi ha spinto a riflettere sul 'teatro della vita' e sulla follia, intesa nel senso di Erasmo da Rotterdam e di Borges.
RispondiEliminaRiguardo a ciò che narri sulle maschere, lessi un documento molto incisivo nel quale si diceva che si finisce per essere veri solo quando si indossano le maschere. Non ricordo il nome dell'autore. Riguardo alla follia e alla tua idea fantastica, profonda, degna di una sensibilità unica, mi hai indotta a ricordare il film "L'attimo fuggente", nel quale il professore asseriva: "Siate folli e fingete di essere normali. Il vero è in voi, non in ciò che gli altri pensano di voi". Hai centrato due verità dell'esistenza che mi stanno particolarmente a cuore e l'hai fatto con linguaggio superbo e con quella grazia che, sempre, ti contraddistingue! Grazie della lezione. Ti stringo forte.
Maria Rizzi
Maria carissima, ti ringrazio davvero molto per l'attenzione preziosa che mi dedichi e per le tue parole. Generosissime. Il tuo volto indossa sempre la verità dell'apertura agli altri, al mondo, alla vita. Ti abbraccio. Colgo l'occasione per ringraziare Nazario Pardini, per la stessa straordinaria, festosa e rara accoglienza (...) che riserva a tutti noi.
EliminaSonia Giovannetti
Ottimo spunto di meditazione quello del Carnevale e dei travestimenti che ne conseguono in libertà: un desiderio, “una follia” cui desidereremmo essere più fedeli. Uno spunto che ben vale la novella.
RispondiEliminaSono andata a riprendermi il testo di Erasmo da Rotterdam, che a suo tempo ho molto amato: chi poteva dire meglio di lui? Dice la Follia: “Sono come mi vedete, quell’autentica dispensatrice di beni che i Latini chiamano Stulticia e i Greci Morìa”. “A guardar bene, la vita è una commedia dove ciascuno recita una sua parte, e non è bene strappare la maschera agli attori che stanno recitando: tutta la vita non ha alcuna consistenza ma, tant'è, questa commedia non può essere rappresentata altrimenti… e il saggio che volesse mostrare l'autentica realtà delle cose farebbe la figura dell'insensato... Si dirà che questa è follia. Non lo negherò, purché si conceda che tale è la vita, la commedia della vita che stiamo recitando… perché io non dovrei a buon diritto essere ritenuta e proclamata l’alfa degli Dèi, dal momento che io, io sola, sono a tutti prodiga di tutto?”
Ben scelti gli incontri: Shakespeare e la dea simbolicamente rappresentata come Follia, che ci spinge ad alimentare lo spirito del sorriso e che porta al bene. «The world is a stage». Verità, illusione, inganno, l’amore.... Ebbene sì: “il mondo è un palcoscenico!”
Maria Grazia carissima, ti ringrazio davvero molto della tua preziosa attenzione e di aver aggiunto il valore che ti contraddistingue, offrendoci, nello specifico, altre parole di Erasmo. Ti abbraccio, grata. A presto.
EliminaSonia Giovannetti
Cara Sonia, si dice che due più due fa quattro e solo il folle può pensare che non sia così. Tuttavia accade che il folle sia felice e il cosiddetto "savio" sia tremendamente arido, sconsolato, derubato del bene più prezioso: la sua interiorità. Con questo meraviglioso racconto, tu metti il dito nella piaga. Non sembra possibile - di questi tempi specialmente - essere se stessi e vivere in società. Eppure equilibrio vuole che si stia un po' di qua e un po' di là. Non si può vivere sempre nella verità, ma neppure sempre nella menzogna. Un anziano contadino mi disse un giorno: "La verità dilla una volta l'anno". La saggezza popolana! Lo ricordi anche tu il motto dei Latini: "Semel in anno licet insanire". E tanto meglio se, per dire la verità, si approfitta di una maschera, fingendosi folli. Ridendo e scherzando, Pulcinella dice la verità. Un conto è la finzione, un altro la falsità. La maschera viene accettata, la verità nuda e cruda no. E va bene così, dal momento che dobbiamo barcamenarci tra due esigenze imprescindibili: quella di stare al mondo e quella di non tradire noi stessi. Equilibrio, saggezza, armonia...
RispondiEliminaFranco Campegiani
"La saggezza popolana", carissimo Franco, rende sempre più autentico il vivere e anche più tagliente. Sappiamo bene il valore dell'ironia, la stessa 'ironia socratica' ce lo insegna.
EliminaIn fondo quel "Pulcinella che ridendo e scherzando dice la verità" ci aiuta a dare più ascolto a noi stessi e agli altri; sempre nel segno della "finzione" non della "falsità".
Grazie infinite della preziosa attenzione, un caro saluto.
Sonia Giovannetti