Daniela Cecchini: Sinestesie dell’io. La Caravella
Editrice. Segrate (MI). 2016. Pagg. 86. € 10,00
Anima, spirito, corpo.
L’anima, prigioniera del suo
involucro
si affanna, poi soffoca.
Ma mette le ali
quando si nutre
di vita interiore.
Spazio che non è lusso
ma scrigno di respiri di
libertà.
Prigione,
anima, spazio, volo verso l’alto, oltre i limiti che la vita ci impone; oltre
le ristrettezze del vivere. Illusioni, delusioni, sottrazioni, oniriche alcove,
ritmi incolori dell’esistenza, vereconda ricerca di precaria felicità. Iniziare
da questi versi significa andare da
subito a fondo nel cuore della silloge; nel messaggio focale di uno spirito che
è in cerca di un’isola di difficile approdo, dove le dimensioni umane si
sfumano in lampi d’infinito; in viaggi improbabili; in disattese aspettative.
Tutto sembra farsi illusione, sorrisi di pianto, inesauribile memoria, dove
persino l’amore si fa gioco di ossimorici abbrivi: “… In fretta volto pagina,/
decido di non pensarti,/ ma le braccia mie/ vorrebbero accoglierti”. Un
simbiotica fusione di luce e ombra che tanto sa di vita.
Sinestesia dell’io: tentativo
di offrire all’anima, al respiro, alle palpitazioni, ad ogni vertigine sensoriale
ed emotiva, i colori più vari dell’ontologica vicenda umana. Un io che si
frantuma in mille sfumature per darsi ad una società non sempre egalitaria, non
sempre disposta o disponibile a comprendere le esigenze di una realtà il più
delle volte offesa dall’egoismo o
dall’indifferenza. Insomma un viaggio fra gente e vicende di una poetica che attrae e convince
per linearità strutturale, per tenuta metrica, per figure significanti ma
soprattutto per una paradigmatica inclusione di significanza che gioca con
effetti conturbanti sul nostro magma di viventi. Sì, un viaggio, un nostos, un
nostoi; una navigazione su un mare zeppo di tranelli e di scogli appuntiti e
aguzzi, su cui è facile perdere la rotta, perdere la visione di un faro che ci
illumini; dacché il viaggio che noi ci riproponiamo in seno alle aporie di una
convivenza difficile, è anche lo stesso che indirizziamo verso la luce del
nostro esistere; della nostra coscienza; del nostro epigrammatico esilio in un
mistero che ci avviluppa. Questo è il viaggio della Cecchini; la sua ardita
immersione nei pelaghi dell’io. Dare soluzioni giuste e socialmente edificanti
non è di certo difficile; lo è invece affrontare le questioni di una esistenza
che ci vede qui invece che là; che ci vede in un mondo di estrema precarietà
nei confronti di un tutto verso cui allunghiamo lo sguardo troppo effimero per
le miopie terrene: i perché irrisolti e
irrisolvibili: chi siamo? Cosa vogliamo? Quale il ruolo della nostra vicenda
esistenziale? Quale la fine del nostro patrimonio memoriale? E il nostro
rapporto col tempo? Con quella clessidra che fa scivolare i suoi granelli senza
tenere di conto del nostro esser-ci? Tanti gli interrogativi che ci poniamo
durante il viaggio e a cui difficile è dare una risposta, soprattutto quando ci
misuriamo con l’infinito, noi piccoli esseri mortali. Questi gli scogli aguzzi della navigazione. Questo
il nostro andare per un mare a volte in bonaccia, altre tormentato da venti che
squassano le vele. Sì, possiamo continuare con ciò che rimane dopo avere
sbattuto; magari con una tavola superstite, non del tutto danneggiata, nella
speranza di incontrare quella luce che ci illumini durante il cammino. La Cecchini è fragile come ogni umano, è
debole di fronte a una clessidra, di fronte al gioco dell’eterno su di lei
cosciente della sua precarietà. Non c’è via di fuga:
casa senza finestre:
simulacro delle mie delusioni.
Nell’accecante buio brancolo,
via di fuga invano cerco.
Un dedalo di implosioni
dilanianti,
ma necessarie
per sperare nella luce.
Ma
sa trovare i suoi convincimenti di fronte alle ingiustizie macroscopiche che si
vede davanti. Lì c’è certezza; lì è necessario dare fuoco alle polveri;
innervare la poesia di substantia; e tutto scorre ex abundantia cordis, da
un’anima ricca di un patrimonio etico-civile che cerca una verbalità adeguata a
dare corpo a tanto sentire: le parole si accavallano, si danno forza l’una
l’altra, si impennano, si assiepano ora in iuncturae brevi e secche, ora in
ampie cavalcate narrative per dire di Bambini tra macerie, di Diritto negato, di
Innocenza venduta, di una Umanità ostaggio di male, di un Naufragio, di Un
grido contro l’infibulazione, o di un Viaggio di sola andata. Qui il grido a volte acuto a volte
contenuto della scrittrice risuona sulle coste; sulla bocca del porto che ha
imboccato; risuona, fa eco, entra, sperando di fare breccia, di svegliare le
anime pigre, le anime mute; il tonante silenzio ereditato “da chi nasce madre,/
come me…”:
Tonante silenzio di anime mute
sempre più forte avverto.
Lo stesso ereditato
da chi nasce madre,
come me.
Solo sfingei,
impenetrabili silenzi
di rassegnata rinuncia.
Celati intenti,
intima mia coscienza
di ricerca negata.
Coraggio che non ci
appartiene,
per uccisa dignità. (Silenzio
A tutte le donne private della libertà d’opinione)
Questa la poesia di Daniela: è
zeppa di vita, di meditazioni, di tracce, di solitudini e incontri. Un insieme
di sinestetiche inclusioni riflessive, dove il verbo, con tutta la sua
estensione significante, dà sfogo alla schiettezza di un sentire forte e
vitale. Scrive Pascal: “Cos'è un uomo nella Natura? Un nulla davanti
all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il
tutto.”. Sono affermazioni che danno un quadro esatto della stesura poematica
della Nostra. Della sua ricerca interiore, di quello che prova di fronte alla
complessità del suo essere. D'altronde la vita è questa e sono pochi i margini
che lascia per uscirne indenni. Gli input emotivi restano, si gonfiano, si moltiplicano dentro di noi
generando malum vitae e perplessità. Ma
è proprio dal serbatoio di tali emozioni che nasce il malinconico flusso di
saudade, il terreno fertile della poesia; dalla ricerca incessante di noi
stessi in viaggio verso “casa” «Dove
siete diretti?» la domanda ai viandanti nello Heinrich von
Ofterdingen (1798-1801),
di Novalis. La risposta «Sempre verso casa»: il viaggio quale odissea, quale
metafora della vita.
Nazario
Pardini
10/07/2017
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