Monterotondo, Grafica Campioli (13 gennaio - 3
febbraio 2018)
TOTEM DEGLI
APPENNINI - I GIORNI DELL'OMEGA
Il racconto di
un "nativo" degli Appennini
in una mostra
dello scultore Emilio Anselmi Mitia Aruna
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
I giorni dell'omega,
i giorni del compimento. I giorni della fine. Il Centro Italia è stato scosso
da tragedie telluriche immani e, come da sempre accade, l'arte, partecipe dei
dolori del mondo, funziona anche da tamburino della rinascita coi suoi potenti
sussulti creativi. La mostra dell'artista Emilio Anselmi, in arte Mitia Aruna, vuole porsi come "il
racconto di un nativo degli Appennini",
una sorta di manifesto rigenerativo della montagna che, nei giorni dell'omega, sappia tornare a parlare dell'alfa,
dell'inizio che necessariamente è connesso con la fine. E', questa, una
conoscenza ancestrale di ogni tempo e luogo della terra, un portato delle
culture mitico-sapienziali di ogni popolo nativo, ivi compreso quello che soggiorna
da tempi immemorabili sull'Appennino.
Ospitata presso la Grafica Campioli di Monterotondo, di cui lo stesso Anselmi è titolare
e gestore, la mostra, inaugurata il 13 gennaio, resta aperta fino al 3 febbraio
p.v. Di grande interesse l'aspetto totemico di questa poetica, il cui impatto ha
il potere di risvegliare gli smarriti fascini del sacro primordiale. E visitando la mostra ci si chiede come mai un
artista del ventunesimo secolo, calato nella cultura postmoderna ed ipertecnologica
del mondo attuale, possa decidere di dedicare le proprie attenzioni all'universo
prelogico e prescientifico degli archetipi e dei miti. In che modo può
legarsi la ricerca d’avanguardia con
questi richiami ancestrali, separati e paradossalmente congiunti rispetto alla costruzione
storico-culturale (Essere e Tempo distinti ma in relazione tra di
loro)?
Come mai, al
culmine del disordine, quando tutto sembra andare in rovina, tutto si coagula imprevedibilmente
in un ordine nuovo? E come mai, ricostruito il vascello dopo il naufragio, e
tornati di nuovo in mare, non si può fare altro che attendere i marosi con il
corollario di nuovi affondamenti e nuove rovine? Cumuli di macerie e strade
inaccessibili hanno azzerato la vita sugli Appennini e reso lugubri luoghi di
particolare bellezza e grazia montana. Visioni spettrali stringono la mente e
il cuore di chi sa di avere là le proprie radici, ma ecco il totemismo di
Anselmi tornare candidamente agli archetipi e ai simboli aurorali, agli
entusiasmi del primo giorno, all'alba della cultura e della vita. E non è un
ritorno al passato, ma un ritorno agli inizi perenni, un rinnovato e coraggioso
atto fondativo.
Questo
significa tornare alle radici. Non è regresso, ma innovazione, è trovare la
spinta oggi per un nuovo albeggiamento. Purtroppo è vero: il popolo è stato
soppiantato dalla massa, dalla cultura senz'anima dei tempi attuali, ma tornare
alle radici è ancora e sempre possibile, alla loro linfa perenne che torna sempre a dare nuove gemme e
nuovi frutti. Il rinnovamento: questa è la peculiarità delle radici. Non la
conservazione, come è facile equivocare. Le radici prescindono dal tempo. Son
qui da sempre, sono nel passato e nel futuro. Per questo la storia è ciclica: ci
sono flussi e riflussi e tutto si capovolge sempre nel suo contrario. Lo
sapevano gli avi, legati all’avvicendarsi della vita e della morte, del giorno
e della notte, al sano alternarsi delle stagioni.
La società, ha detto Ibsen, è
come una nave con un cadavere a bordo, e il cadavere è il simbolo tabù. C'è
tuttavia da dire che, prima di divenire cadaveri, i simboli sono angeli in
volo, sono linfa e sangue, son polle d'acqua sorgiva. Per pigrizia mentale noi
smarriamo i sentieri che vanno a quelle fonti, così le crediamo inaridite per
sempre. E ci rimane il tabù tra le mani. Ma il simbolo non muore per questo, sa
restare angelo in volo in attesa del nostro risveglio, del nostro ritorno alla
propulsione creativa, facoltà che sempre in noi cade in oblio. E' accaduto
tante volte nella storia. Si pensi all'influsso del Primitivismo sull'Avanguardismo
artistico dei tempi attuali. Più la cultura si fa complessa e babelica, più
si ha bisogno di riscoprire il semplice, l'essenziale. E viceversa.
E' il percorso dell'arte
contemporanea: da un lato la parodia del chiasso sferragliante e caotico,
dall'altro il desiderio di vergini silenzi, di semplicità e rigori interiori. La
poetica di Emilio Anselmi si sviluppa nel solco del ready made, nato nel clima surrealista ed ironico della demistificazione
oggettuale, approdata alla satira del consumismo metropolitano della Pop Art. Da qui le poetiche del
riciclaggio, cui quest'arte può essere collegata, tese a donare nuova vita agli
scarti tecnologici come ai reperti trovati in natura, ivi pervenuti da una loro
lunga consuetudine con le culture dell'uomo. Qui tuttavia il riciclaggio è molto
di più della mera riutilizzazione di materiali e diviene vera e propria rigenerazione spirituale. Il ready made non più come oggetto trovato, ma come tesoro nascosto, simulacro
di essenze incorruttibili, immortali.
L'artista ha dedicato cicli importanti della sua
produzione alla spiritualità dei popoli nativi, con riferimento specifico agli
Indiani d'America, cogliendo i tratti sacrali e sciamanici di quella cultura.
La ruota di medicina, ad esempio,
simbolo di quelle conoscenze universali e prelogiche comuni a tutti i popoli
della terra, legate ai ritmi delle quattro stagioni, ritmi che oggi abbiamo
cancellato con danni incalcolabili per la nostra, ma ancor più per le future
generazioni. Ispirazioni analoghe ora l'artista trova sull'Appennino, considerato
che ogni popolo, in fondo, è nativo e tale resta fin quando riesce a dominare le
contaminazioni storiche, rimpastandole nella propria filosofia, nei propri
mitologemi originari. Ecco che, per andare avanti, bisogna tornare indietro.
Non in senso passatista e nostalgico, ma in senso innovativo.
Con Mitia
Aruna ci siamo soffermati molto spesso a parlare di un notissimo e geniale
scultore rupestre dell’avanguardia artistica più accreditata: Lorenzo Guerrini,
oramai scomparso. Molti credo conoscano i grandi monoliti che Guerrini era solito
scolpire direttamente in cava, a contatto di gomito con gli scalpellini. Sono
forme primordiali che alcuni hanno pensato di avvicinare ai menhir preistorici, con grave disappunto
del Maestro, che in essi vedeva piuttosto impronte di città avveniristiche,
dove agli scultori – cito le sue parole – “fossero dati chilometri di
spazio-natura da plasmare tra cielo, acque e terra, per dare all’uomo il suo nuovo
spazio”. Di questo abbiamo più volte parlato con Anselmi, riconoscendo in
quella visione dell’arte molte anticipazioni poetiche successive, dalla Land art all’Arte povera.
C'è tuttavia da aggiungere che Emilio, pur
affascinato da quella poetica, non scolpisce nel senso michelangiolesco del levare, come faceva ancora Guerrini, scartando il
superfluo, bensì recuperando il superfluo e mostrando come nell'economia del
creato niente viene eliminato e tutto si rinnova.
Mitia
Aruna non usa martello e scalpello,
né modella o intaglia figure, ma compone totem
assemblando legni, pietre e metalli trovati in natura, come pure manoscritti
ingialliti e carte d’archivio, trasformando il tutto, con pochi tocchi geniali,
in opere suggestive, dal sapore ruvido e gentile, aspro e dolce, raffinato e
rusticano. E' la scoperta del valore incorruttibile e immarcescibile della vita,
che accetta di morire per rinascere, in un progetto di vivificazione infinita. E gli oggetti diventano soggetti, esseri viventi, dimore
di numi.
Un
rinnovato animismo, dove, strappato al nulla dell’estinzione, l'oggetto
trovato si carica di valenze spirituali che, pur vivendo nel tempo, vanno
al di là del tempo mortale. La vita è scandita da albe e tramonti, per cui dopo
la notte non può che tornare l’aurora. Ed è così che la cultura degli avi si
rinnova, nella certezza che l’alfa e
l'omega cadono sempre l'una
nell'altra e si danno fraternamente la mano. Ma c'è un aspetto giocoso, in
questa poetica, di cui occorre ancora parlare. Non è più la satira ideologica della
Pop Art o del New Dada verso gli oggetti del consumismo tecnologico, ma una sorta
di garbata, seppure sferzante, ironia sulla facile trasformazione di ogni
simbolo in feticcio, sulla degenerazione possibile della ierofania in idolatria,
sulla confusione forse inevitabile del sacro col profano.
Franco Campegiani
Mi colpisce, tra le altre figurazioni, quel palcoscenico naturale allestito con materiale di risulta che offre una chiave severa ma armonica per capire il MONDO, quello di poesia e di pensiero, dove la materia e lo spirito convivono in un linguaggio universale, radice suggestiva di ogni possibile lettura e apertura verso un mondo nuovo di speranze e di semplicità aurorali.. e allora non ha più senso parlare di arte di regressione o di avanguardia. È una nuova visione che davvero unisce natura e cultura, l’alfa e l’omega, la centralità dell’indagine delle soluzioni archetipe e delle contaminazioni Basta aver la pazienza di sottolineare umilmente e aderire per capire: “il totemismo di Anselmi… tornare candidamente agli archetipi e ai simboli aurorali, agli entusiasmi del primo giorno, all'alba della cultura e della vita….”
RispondiEliminaM.G.Ferraris
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RispondiEliminaDa intelletto acuto e coltissimo, ma soprattutto sensibile qual'è, Maria Grazia Ferraris coglie nel segno, sottolineando, nella poetica di Anselmi, quel "mondo nuovo di speranze e di semplicità aurorali" "che davvero unisce natura e cultura, l'alfa e l'omega", ed evidenziando "la centralità... delle soluzioni archetipe e delle contaminazioni". Le sono davvero grato per restituire in poche battute e con così grande efficacia il senso della mia esegesi.
RispondiEliminaFranco Campegiani
“Tornare alle radici è ancora e sempre possibile” sostiene Franco Campegiani nel suo illuminante scritto di presentazione dell’arte di Mitia Aruna. Trovo che si tratti di una necessità oltre che di un obbligo morale che abbiamo nei confronti di noi stessi e della terra che con le sue doglie ci ha generato. È dalla terra che, da sempre viene la spinta al rinnovamento, dalla cuffia, apice della radice il rigenerarsi della pianta.
RispondiEliminaL’uomo dalla terra potrebbe ancora imparare, se sapesse aprire gli occhi e provare ad imitarla, trovando in sé la capacità di autoregolarsi e tornando a lei se necessario. Tornare agli inizi per germogliare nuova vita.
“Al culmine del disordine” tutto si può riordinare. Questo leggo nel lavoro di Franco Campegiani, questo vedo osservando la “Ruota della medicina, simbolo delle conoscenze universali e prelogiche legate ai ritmi delle quattro stagioni” di Mitia Aruna.
Annalisa Rodeghiero
Certo Annalisa: tornare alle radici è tornare alla terra, alla linfa, all'essenza, alla vitalità. Ci allontaniamo dalla terra quando ci allontaniamo da noi stessi, dal nostro ruolo di "custodi dell'Eden", e quindi dalla nostra più vera umanità. Tuttavia, a dispetto di ogni devianza, umani restiamo nel profondo, e come tali "figli della terra". Ed è lì che dobbiamo tornare, e che torniamo necessariamente, ogni qualvolta, inariditi e svuotati di energia, ne avvertiamo la necessità.
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Franco Campegiani