giovedì 22 agosto 2019

ROSSELLA CERNIGLIA: "POESIA ED ERMENEUTICA"


POESIA  ED  ERMENEUTICA                                         

Rossella Cerniglia,
collaboratrice di Lèucade


                            
                                
  
È  ormai universalmente accettato, ciò che peraltro appare inevitabile e cioè che il soggettivo entri nell’interpretazione della parola poetica. Chi legge e interpreta, in realtà, rifà a suo modo l’opera, la ricrea secondo le categorie della sua soggettività, la quale sempre emerge in qualsivoglia approccio conoscitivo. Ma da ciò, tuttavia, non deriva che tale intromissione sia un diritto istituzionalizzato, quanto piuttosto il limite che contrassegna la monadicità di una condizione.
   In essa si esprime l’assoluta identità del soggetto con se stesso e l’assoluta impenetrabilità della prospettiva interiore sacralizzata attraverso la parola. La parola è infatti ciò che appartiene all’haecceitas, all’assoluta soggettività, soprattutto perché non ci riferiamo qui alla parola quotidiana, ma a quella poetica. Nel microcosmo umano si ripropone, pertanto, l’assoluta unicità dell'Essere: esso è altrettanto irraggiungibile quanto il macrocosmo divino. E allo stesso modo che l’essenza del trascendente risulta a noi solamente avvicinabile per gradi, così l’unità monadica dell’haecceitas umana, è accostabile più o meno intimamente, mai prendibile.
   Ogni arbitraria intromissione è una violazione. La creazione poetica, o più genericamente artistica, corrisponde infatti all’atto divino che istituisce il mondo, la realtà che oltrepassa il suo Sé.
E l’uomo che riceve, con la sua stessa esistenza, il mondo, deve mostrare fedeltà alle sue leggi, non stravolgerle a suo arbitrio perché in esso e nelle sue leggi si dispiega ed esprime l'essenza della realtà suprema. Allo stesso modo, un’interpretazione che neghi il valore intrinseco all’opera d’arte,  alla sua inarrivabile haecceitas, sostituendole qualcos’altro ad arbitrio, è stravolgimento e trasgressione.
   In sommo grado nella creazione artistica, ma più in generale in ogni prodotto dell'attività umana, si realizza l'essenza stessa dell'Essere che nel suo farsi Immanente alla realtà umana si pone come via e guida alla Trascendenza. Ogni processo conoscitivo è infatti una creazione, e come tale è prolungamento  e manifestazione dell'opera dell'Essere.
 Il tendere a ciò che ci trascende è, sostanzialmente, il presupposto di ogni creatività artistica e, per certi versi, anche di ogni creatività umana. Nella creazione l’uomo mette al mondo se stesso, ripete l’atto di Dio che estrapola da sé il suo Sé, ed esso diventa la Realtà, l’altro da sé rispetto all’Origine. 
   L’opera d’arte è la creazione di un mondo assolutamente individuale, l’estrapolazione di un sé, che senza quest’atto sarebbe stato “nullo”. Ma è, nello stesso tempo, continuazione della stessa creazione dell'Essere che si realizza in ogni atto di conoscenza che è nuova creazione.
   Come Dio riflettendo il suo sé crea il mondo, la realtà nella quale l'uomo sta immerso, così l’artista mette al mondo il suo intimo sé, la sua individualità che rimarrebbe nascosta, e come inesistente, senza quest’atto. E quest’atto è, paradossalmente, ciò che traduce lo spirito -nella sua assoluta individualità- in materia, o per meglio dire, in prodotto fenomenico, (il prodotto artistico). E indica, per ciò stesso, uno scadimento dell’originario sé, così come la dimensione del reale, che si genera dall’Origine, rappresenta uno scadimento in confronto all’assoluta purezza ed unicità dell'Essere.
   Ma la creazione è in ogni uomo. Ogni uomo ha in sé una capacità creativa che mette in atto in vari gradi e misure. Così è per l’opera d’arte, la più essenziale messa al mondo di noi stessi, la più autentica forma di noi proiettata di fuori - che può, a sua volta, essere scandita in varie modulazioni. 
   Perciò, interpretare soggettivamente il prodotto artistico è inevitabile, ma non auspicabile. Perché sia possibile una più giusta interpretazione occorre  una conoscenza dell’altro il più possibile profonda ed estesa perché rispettare l’opera della creazione è essenziale.
   Se l’elemento soggettivo di chi interpreta entra nell’interpretazione, si crea un' interferenza che è contaminazione, e questo rappresenta piuttosto un limite a tale penetrazione che è simile, per la sua irraggiungibilità, a quella della Monade-Dio.
Lo sforzo deve essere concepito come tentativo di  avvicinamento, mai concluso, alla  realtà  più
intima e più vera dell’altro, paragonabile a quello per cui attraverso la conoscenza più autentica e
profonda della realtà cerchiamo l'essenza ultima dell'Essere.
 Si è sempre discusso intorno ad una possibile definizione della poesia, sulla sua scaturigine e sul valore da assegnare ad essa. Ma è difficile trovare risposte soddisfacenti a tali quesiti. D'altra parte, la conoscenza scientifica, che così grandi passi ha compiuto negli ultimi due secoli, sembrerebbe, per la sua stessa forza, oscurare ogni altra forma di conoscenza. La scienza produce progresso, teoria e tecnologia sono ormai indissolubilmente legate, comprendono e modificano la realtà che ci circonda. E il concetto di conoscenza è, sempre più legato a quello di utilità, ne costituisce il fine irrinunciabile da cui  il concetto di poesia rimane tagliato fuori.
  Ma come la scienza ha un suo specifico approccio al mondo, suoi codici, suoi principi da applicare, così è per la poesia. Entrambe mirano allo stesso scopo: la conoscenza della realtà, una conoscenza che dia risposte a tutti i perché dell’uomo. Ma se unico è lo scopo, diverso è l’approccio, diversi gli strumenti adoperati. Esse leggono i diversi volti del reale che si fondono in unità. La scienza ne esplora vari settori con una ragione più asettica, mondata, il più possibile, della soggettività, col rigore che astrae dalla materia solo le forme essenziali, le strutture quantificabili e misurabili. Ma una ragione siffatta, nel suo astratto rigore, nella sua schematicità è uno strumento freddo, in grado di guardare solo alla superficie delle cose.                             
  La poesia, al contrario, vuole andare al cuore della realtà, nell'anima delle cose, vuole sondarne le zone d’ombra, il mistero che il mondo racchiude nelle sue profondità, l’intima essenza dell'esistente, il suo fondamento e il suo senso più proprio. Forse è un tentativo: l’anima dell’uomo che avvicina l’anima del mondo e viceversa; e in questo tentativo vi è corrispondenza, vi è analogia, e da qui scaturisce quel senso panico che è la comunione col Tutto. In questo tentativo la ragione non ci appare disumanata, semplice struttura mentale invariabilmente presente in tutti gli uomini, ma fusione di individualità ed universalità, ragione che si colora del nostro sentire e della nostra anima.
. Così, vari sono i modi di approccio e di comprensione del mondo che si integrano e si completano a vicenda per adempiere ad un unico scopo.
   In questa assimilazione dei due poli della conoscenza in cui soggetto e oggetto divengono uno, la poesia attua quella sintesi che pone il microcosmo umano in stretta relazione col macrocosmo divino. La poesia, soprattutto la poesia lirica, nasce da un’insoddisfazione di fondo, dall’angoscia che ci deriva da un senso di mancanza, di incompletezza, di castrazione dell’anima che sente forte il  bisogno di espandersi sino ad essere tutto – situazione che altrove, ho chiamato sentimento teocratico della coscienza. Uno degli aspetti essenziali dell’essere dell’uomo è, - secondo quanto sta sotto i nostri occhi - ma anche secondo quanto Schopenhauer ha teorizzato nella sua analisi della realtà - la Volontà. Ogni progresso ed ogni conquista umana sono affidati ad essa: alla ineluttabilità del volere sempre qualcosa. L'uomo tende sempre a ciò che gli manca, e quando lo consegue c'è sempre qualcos'altro che gli manca. L'uomo manca sempre di qualcosa proprio perché essere limitato e imperfetto e, pertanto, è necessitato a desiderare sempre.
   Solo L'Essere, in quanto Illimitato, Infinito, Perfetto, Eterno, non tende a niente, Egli è il «motore immobile» secondo la definizione aristotelica. Questo continuo tendere dell’uomo a qualcosa che sempre gli manca, questo bisogno di dilatazione dello spirito sino all’assolutezza, al già accennato sentimento teocratico della coscienza, che è il volere per sé la stessa radicalità dell'Essere, o assolutezza di Dio, è indice di questa mancanza radicale, di questa lontananza e irraggiungibilità che è la trascendenza divina, fine ultimo di ogni desiderare e di ogni divenire, fine che l’uomo -consapevolmente o inconsapevolmente- insegue, e che vive, prima di tutto, come Abbandono.  Abbandono a vivere una vita priva di senso, poiché solo l'Essere, nella sua assoluta radicalità e immutabilità, potrebbe giustificare e dar senso all’esistenza rappresentandone il fondamento e il principio.
   Tale conoscenza, tuttavia, non appartiene agli uomini di questa terra, così Dio rimane sempre incomprensibile, al di là dell'orizzonte mondano, infinitamente remoto rispetto alla realtà del nostro mondo e della nostra esistenza. Ma pure in tale impossibilità di prensione, l’uomo -e in lui anche la poesia- non smetteranno mai di cercare, tra le pieghe del Mistero, tra le ombre di un mondo che non fornisce sufficienti risposte ai nostri perché, quella Luce che è la stessa Verità dell'Essere.          
 Naturalmente tale ricerca si pone in termini problematici, dal momento che ciò che è limitato - l’uomo- non potrà mai comprendere l’Illimitato – l'Essere che ci sovrasta-  quanto meno all’interno di quella struttura che chiamiamo “esistenza”.
   Ma l’esigenza rimane, pur in questa consapevolezza, e pertanto l’uomo non smetterà mai di cercare -attraverso contraddizioni, incertezze, illusioni- qualcosa che riesca a fondare e a dare significato alla sua vita.
  La struttura della nostra esistenza ha per essenza il limite: nella realtà tutto diviene proprio perché è limitato, condizionato, tutto è incanalato entro coordinate dalle quali, per nostra sola forza, non possiamo uscire. Ma questo ci comunica anche quella volontà di rottura di questi vincoli -che è costitutiva   della   nostra  stessa  struttura  esistenziale  contro  la  sovrastruttura  di   una  gabbia    
- l'esistenza- che non ci consente il ricongiungimento con la totalità l'Essere. Ma L'uomo, forse perché programmato anche a questo, ha in sé l'aspirazione irriducibile a scardinare questo limite e queste barriere e a ricongiungersi a quella Patria lontana che è la stessa pienezza e infinità dello Spirito.  Conosco due sole vie, che, pur all'interno di questa ferrea struttura che è l'esistenza, aprono uno spiraglio sulla realtà più vera: l'Amore, in quanto legge di tutto l'universo, e la Poesia.                
                                                                                                  Rossella Cerniglia

                                                 

9 commenti:

  1. Ringrazio la Dottoressa Cerniglia per l'incredibile 'articolo' pubblicato sul blog del caro Nazario e mi sembra davvero riduttivo definirlo 'articolo'. L'esegesi compiuta dall'Autrice, infatti, si potrebbe considerare un viaggio attraverso la poesia e le difficoltà e i misteri dell'ermeneutica. Questo termine ha un'etimologia complessa, infatti deriva dal greco - hermeneía - che significa interpretare, tradurre, e la radice greca 'erm' è strettamente legata a quella latina (s)erm, che ci porta al termine discorso, linguaggio.
    La Dottoressa si appella, a mio umile avviso, a questo secondo significato, che esclude, almeno in parte, la soggettività. E intraprende il viaggio, al quale ho alluso poc'anzi, sul valore dell'analisi quanto più obiettiva possibile dell'Opera. E asserisce con superba sensibilità che: "Perché sia possibile una più giusta interpretazione occorre una conoscenza dell’altro il più possibile profonda ed estesa perché rispettare l’opera della creazione è essenziale". Sono assolutamente d'accordo con lei e trovo bellissimo il concetto che nella creazione ogni Autore 'ripeta l'atto di Dio' e passi, quindi, dalla dimensione immanente a quella trascendente.
    A proposito dell'ermeneutica oso sottolineare l'assunto del filosofo Heidegger, il quale rifacendosi al mito del dio messaggero Ermes, tende a sottolineare come nell'ermeneutica si celi un significato più profondo del parlare, o dell' interpretare, che va oltre la necessaria analisi delle condizioni della comprensione umana: significato che attiene al dinamismo della parola nella relazione comunicativa, che comporta la capacità di accogliere e di interpretare ogni messaggio. Nel mito di Ermes verrebbe simboleggiata ogni mediazione comunicativa, in primis quella tra gli dèi e gli uomini; ma anche la mediazione tra gli uomini nel linguaggio e nella scrittura, la mediazione tra il silenzio e la parola, e ancor più profondamente, la mediazione tra la falsità e la verità, tra l’oscurità e la luce, tra il celato e il manifesto. La Cerniglia, con il parallelismo tra ogni creazione e Dio, mette in risalto il limite. Limite, che credo sia senz'altro presente anche nei concetti di Heidegger, nel dualismo che egli attribuisce alla comunicazione. Ma il limite rilevato dalla Dottoressa, per quanto innato nell'essere umano, riesce grazie alla grandezza della Poesia e dell'Amore, 'ch'a nullo amato amar perdona', a non vincolare l'uomo e la sua "volontà di rottura di questi vincoli -che è costitutiva della nostra stessa struttura esistenziale contro la sovrastruttura di una gabbia"
    La Dottoressa Cerniglia dà una nuova misura dell'individuo libero, nella sua tensione verso l'arte, che è tensione verso Dio.
    Mi scuso per l'apporto limitato, ma di fronte ai giganti si resta 'nani'.
    Un grazie di cuore e un saluto affettuoso.
    Maria Rizzi

    RispondiElimina
  2. RICEVO E PUBBLICO

    Ringrazio, intanto, infinitamente, Maria Rizzi, per il suo profondo brillante commento, pieno di spunti di approfondimento ulteriori.
    Alcuni concetti forse non sono stata in grado di esprimerli compiutamente, o potrebbero essere errati già nel loro assunto, nel loro punto di partenza. Sostanzialmente volevo legare per analogia l'inconoscibilità del divino, all'inconoscibilità dell'essenza individuale, dove appunto risiede l'essenza del divino in noi. Wittgenstein traduce questa irriducibilità col termine di “solipsismo linguistico”, cioè nel fatto che attraverso il linguaggio non possiamo veramente comunicare i nostri sentimenti ed emozioni e ciò che è intimamente legato in maniera ineffabile tra corpo ed anima. Come dire che posso parlare del mio mal di testa, ma non fare in modo che l'altro provi il mio stesso mal di testa attraverso le mie parole, attraverso la mia descrizione di esso. Affermando quel che ho scritto, intendevo riferirmi a questa dimensione che rimane tutta mia, nella quale l'altro non può assolutamente accedere se non per vaga approssimazione, non penetrare del tutto come non può penetrare la divina essenza dell'Essere, di Dio. Essa può essere solamente “avvicinata” come è possibile, secondo Heidegger, per l'essenza divina, il Verbo divino. E la Poesia è intimamente intrisa non solo di pensiero, ma del “sentire” individuale, strettamente legati come lo sono misteriosamente corpo ed anima. Perciò, qualcosa inevitabilmente rimane insondabile nell'ermeneutica, e il sostituire nell'interpretazione, a questa parte mancante di conoscenza la nostra soggettività di interpreti, è un abuso - inevitabile abuso -! ma è tale, è contaminazione dell'assoluta individualità dell'altro, del poeta, della propria assoluta singolarità che è simile, in questo, alla monade Dio.

    Rossella Cerniglia

    RispondiElimina
  3. RICEVO E PUBBLICO
    PRIMA PARTE

    ERMENEUTICA E POESIA di Rossella Cerniglia
    Nota di Edda Conte

    E' una pagina di critica di non facile approccio ma molto interessante.
    Sia l'apertura dell'argomento sia le conclusioni hanno il fascino di un "discorso" a cui non è facile resistere; il tema è profondamente sentito, soprattutto da chi ama e pratica la Poesia. Il clou si trova nella parte che riguarda l'arte interpretatoria dei testi, ma in definitiva il saggio è un vero e proprio excursus di filosofia. Vi si individuano infatti pilastri del pensiero a partire da Aristotele....a Kant...a Shopenhauer... Non entro nel merito perché questo non è il mio campo, pur riconoscendo l'importanza di tutta l'argomentazione a supporto del tema.
    Altri prima di me hanno ampiamente commentato, io mi limiterò ad annotare qui alcune considerazioni, scaturite da mie personali esperienze sia come poeta sia come lettrice di testi altrui. Quanto al "soggettivo nell'interpretazione della parola poetica" sono pienamente d'accordo: chi legge interpreta, non c'è dubbio. Come non c'è da mettere in dubbio che l'interpretazione è soggettiva e in quanto tale può essere fallace. Secondo l'argomentazione filosofica dell'articolo l'interpretazione non potrà mai rispecchiare per intero l'originale, per la natura stessa sia dell'essere che della Poesia.

    RispondiElimina
  4. SECONDA PARTE
    EDDA CONTE
    ( In fondo non è poi un gran male, se da una inesatta o incompleta interpretazione possono scaturire nuovi input per nuovi lavori, soprattutto quando il dettato si possa definire "universale".!)
    Personalmente ho trovato minore difficoltà, forse anche avvicinandomi un poco alla vera essenza dell'opera, conoscendo l'Autore o la sua biografia ; eppure ho riscontrato talvolta impensabili sorprese. Avevo cercato di "entrare" nell'essere dell'Autore, forse con intromissione, violazione e infine col risultato di inesatta interpretazione. E quante volte sarà accaduto! Ora mi rendo conto: non era per colpa o inadeguatezza , ma per la natura stessa dell'opera d'arte e del suo creatore, anch'essi "inadeguati" "imperfetti" di fronte all'Unico Vero Creatore!..
    Apro qui una piccola parentesi per una citazione:
    "...Sublimarsi vorrebbe la parola
    fatta di soli suoni...
    Può il poeta con armonia segreta
    entrare in simbiosi
    con l'opera sublime del suo Dio? "
    (Sono versi a chiusura di una mia lirica di esaltazione della Natura.)
    Ma che cosa è dunque la Poesia? Querelle annosa, insoluta e forse insolubile., almeno quanto a definizione. Giustamente si osserva che la scienza non ne dà risposte...eppure nella Poesia c'è realtà, almeno "in nuce"...perché si va alla ricerca dell'anima delle cose, proprio per il bisogno di una comunione col Tutto.
    Questa parte del saggio di Rossella Cerniglia mi ha entusiasmato, certe argomentazioni ho sentito farsi mie. Mi si perdoni se parlo qui in prima persona, ma quante volte ho pensato e scritto- spesso sotto forma di onirica storia- della inesauribile volontà dell'uomo, volontà di volere, volontà di cercare, perché sempre scontento e sempre alla ricerca di un inarrivabile...Forse nell'essere umano è innata una favilla caduta dal cielo, ed è proprio quella piccola scintilla che cerca di ricongiungersi al Tutto. In quel Tutto, divino ed eterno, il Poeta vede l' intimo soddisfacimento di un continuo bisogno e la meta del suo tendere alla Luce, che rappresenta la Verità dell'Essere. In effetti il Poeta che ha fede nella sua opera è sempre alla ricerca della verità, difficile a raggiungersi in quanto i mezzi a diposizione sono soltanto umani e pertanto limitati. Condivido pienamente- e mi piace moltissimo- la conclusione del saggio di Rossella Cerniglia (alla quale rivolgo sinceri complimenti!). Sono convinta che Amore e Poesia possono avvicinare alla conoscenza dell'Essere. Chiudo questa mia semplice ma schietta nota ringraziando la eccellente critica di questo suo meraviglioso saggio. Edda Pellegrini Conte. 24-Agosto 2019

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ringrazio infinitamente Edda Conte, per la lettura del saggio e per il commento assai pertinente e pieno di interessanti spunti di riflessione. Altresì la ringrazio per la condivisione di alcuni assunti che entrambe riteniamo di grande interesse per per la Poesia.

      Elimina
  5. L'interessante e appassionata disamina di Rossella Cerniglia presenta molti punti di suggestiva riflessione e mi complimento vivamente con lei. Tuttavia confesso che la sua argomentazione mi lascia perplesso, come perplesso mi lascia ogni argomentazione che punta alla trascendenza partendo dagli indiscutibili limiti della conoscenza umana. E' un percorso bloccato, dal momento che, come dice giustamente Cerniglia, "Dio rimane sempre incomprensibile, al di là dell'orizzonte mondano, infinitamente remoto rispetto alla realtà del nostro mondo e della nostra esistenza" (da qui, a mio parere, il monito a "non nominarlo invano"). Esiste, a mio parere, un movimento inverso, che dalla trascendenza giunge all'immanenza, su cui bisognerebbe riflettere maggiormente, essendo il vero garante di ogni rinnovamento e di ogni spinta creativa dell'essere umano. In quel movimento non è pensabile che sia Dio direttamente a parlare, quanto piuttosto l'essere alare che fa le sue veci vivendo nell'uomo stesso: in pratica l'essenza, il doppio ultrafisico dell'uomo stesso che con lui tenta di viaggiare in sintonia. Quel "daimon" (socratico) che non è in fondo altro che la Musa dei poeti e degli artisti, la sfera universale dell'uomo stesso, di cui l'Assoluto (irraggiungibile) l'ha voluto dotare per non lasciarlo alla deriva, fornendogli le coordinate (divine) a lui necessarie per vivere in armonia. E' a quel piano universale dell'uomo stesso che si devono i suoi cosiddetti momenti di grazia, i capolavori unici che lo fanno vibrare, facendo vibrare al contempo le corde profonde di moltissimi esseri umani. Ritengo che la conversazione universale sia possibile e che stia tutta, paradossalmente, in questo dialogo interiore dell'uomo con se stesso, primo anello di una catena relazionale, saltando il quale va in pezzi l'intera catena e non è possibile stabilire rapporti autentici. E' vero: ogni autore scrive o dipinge (o suona e scolpisce) per se stesso e per la propria festa spirituale. Scrive cioè, o dipinge eccetera, per raccontare a se stesso i valori e le verità universali conquistati. In assenza di tale rivelazione, egli cade nell'intimismo e nel narcisismo, ripiegato su se stesso, senza poter interessare altri e senza nulla poter dire ad altre persone. Ciò la dice lunga sulla vivacità di una ricerca, quella interiore, che sconfina dai territori del soggettivismo in quanto aperta ai venti delle essenze universali. I territori dell'interiorità, in effetti, non coincidono con quelli del solipsismo e dell'individualismo esasperato, se è vero - per dirla con Jung - che il traguardo del processo di individuazione sta proprio nel raggiungimento del Sé universale. Quando Adamo ritrova se stesso, ritrova il suo Eden, la sua vera patria divina ed umana. Ritrova cioè la poesia e l'amore di cui la Cerniglia stessa parla in questo suggestivo trattato. Ed è un contagio per i suoi simili, seppure circoscritto, come è ovvio che accada nel relativo. L'ha detto Proust ne "Il tempo ritrovato": "Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso". Quando si ascolta una poesia di Pascoli, o di un vero poeta, non ci si commuove per la vita di lui, ma per la propria. Ciò che interessa realmente il lettore è di conoscere se stesso attraverso la lettura, non colui che scrive. Sta qui l'universalità dell'arte e della poesia. Quando ci si avvicina ad esse, i parametri dell'universalità si trasformano, perché esse comunicano di riflesso e non di proposito. Intendo dire che non parlano a tutti, come uno spot pubblicitario, o un comizio politico, bensì al cuore e alla mente di ognuno.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina
  6. RICEVO E PUBBLICO
    RISPOSTA PER F. CAMPEGIANI
    PRIMA PARTE
    1) É stato Martin Heidegger a prospettare l'esistenza di una struttura archetipica, di un'archelingua, che costituirebbe la radice comune del Pensiero e del Canto. Un sostrato nel quale pensiero e canto - come avviene nel mito- convivono e si intrecciano tra loro inscindibilmente, insomma, una struttura portante della nostra esistenza dalla quale dipende la nostra interrelazione e interazione col mondo.
    Nella postulazione heideggeriana, Pensiero e Canto, vale a dire filosofia e poesia, si condensano in questa originaria matrice che è la Dichtung, e in essa coabitano, hanno un rapporto dialogante, che si esplica nel linguaggio. Nella Dichtung i due elementi vivono non scissi, e solo a posteriori è possibile considerarli separatamente.
    Tale concetto è parte di quell'evoluzione del pensiero di Heidegger dopo Essere e Tempo, che è insieme svolta ontologica e tentativo di sostituzione di quel linguaggio con cui la metafisica aveva impostato la questione dell'essere, la Seinfrage. Ed è nel saggio Holderlin e l'essenza della poesia, pubblicato nel 1937, che Heidegger formula una nuova concezione dell'essere connessa ad una precedente impostazione del problema della verità: la concezione dell'essere come evento cui si collega il ruolo ontologico del linguaggio.
    Per Heidegger, infatti, “ciò che prima di tutto è, è l'essere”. La parola evento, viene in tal modo a designare l'originaria reciproca appartenenza dell'uomo e dell'essere: l'uomo infatti non è senza l'essere e l'essere non di dà senza l'uomo. All'interno di tale originario evento sono possibili, poi, tutti gli altri accadimenti della storia umana che è, manifestazione dell'essere, storia attraverso cui l'essere, storicizzandosi, si manifesta.
    “Nella dimora dell'essere abita l'uomo- dice Heidegger - e i pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono.”
    Nel pensiero originario, cioè nel mito, i due poli della dell'archelingua heideggeriana vi si riscontrano - come abbiamo detto - intimamente connessi, e in essi si realizza quell'aprimento dell'essere che non appare mai in una luce costante. Il suo disvelarsi è, infatti, analogo a una istantanea illuminazione che subito torna a nascondere ciò che ha mostrato perché il mostrarsi della verità, quello che gli antichi greci chiamavano aletheia, si dà in un continuo nascondersi e rivelarsi che non ha fine. Per quel che concerne più propriamente la poesia, essa permette l'aprimento dell'ente “in ciò che esso è, e nel come è; e nell'opera (d'arte) è in opera l'Evento (Geschehen) della verità. In essa, la verità dell'essere opera attraverso il linguaggio per il suo disvelamento.
    In altre parole, in questa lingua originaria, archetipica, il compito della filosofia viene a coincidere con quello della poesia poiché entrambe, attraverso le parole, hanno il compito di svelare il senso dell'essere, la sua verità. Ma tale svelamento, secondo Heidegger, non dipende dalla volontà dell'uomo. Non è, infatti l'uomo a parlare, ma il linguaggio stesso -e per suo tramite l'essere- che parla attraverso l'uomo.
    Rossella Cerniglia

    RispondiElimina
  7. RICEVO E PUBBLICO
    RISPOSTA A F. CAMPEGIANI
    SECONDA PARTE

    2) Tuttavia, nel suo stare a fondamento di pensiero e canto, filosofia e poesia, che si esplicano nel linguaggio, la Dichtung li trascende entrambi poiché ogni pensiero e ogni canto non potranno mai ricomprenderla e riaffermarla interamente. Essa rimane – come si è detto - nel pensiero/canto e nel linguaggio che li esprime, in un Nascondimento che mostra o in un Mostrarsi che nasconde. Ed è qui l'essenza del linguaggio e della realtà che esso esprime, e pertanto dell'esistenza intera: essa vive nell'ombra di questo Nascondimento che accenna a se stesso senza mai interamente svelarsi nella sua Luce. E in tal modo ci si presenta come inesorabilità del trascendente - ma non nel senso che Heidegger aveva combattuto, di quel metafisico che apre allo sviluppo incontrastato della téchne, bensì come distanza e diversità dall'ente, cioè per la sua natura ontologica e non ontica. In tali termini esso ci appare come connaturato alle modalità di essere dell'esistenza e riconfigura il problema dell'Origine dove l'aporia insormontabile è costituita dal fatto che qualunque tentativo facciamo per raggiungerla vede l'Origine arretrare nel suo Nascondimento e porsi Oltre, sempre al di là dell'umano orizzonte.
    Le grandi interrogazioni degli scienziati, al giorno d'oggi, mi pare vertano proprio su questo punto nodale, il primo e il solo punto indagato nelle lontanissime origini del pensiero stesso. Ed è questa la riprova dell'impronta teleologica che mi pare rinvenire nell'universo, come se un logos interno, un pensiero immanente ad esso ci indirizzasse all'Oltre, in un processo di Immanenza/Trascendenza che rimane la radice dell'Universo stesso. Infatti, comunque si attui questa ricerca, sia che parta da un'indagine sul suo fondamento, sia che parta dalle cose stesse, dall'essere o dall'ente, essa conduce sempre ad additare un Oltre, che si colloca, irrimediabilmente, al di là delle coordinate esistenziali, come se il fondamento dell'esistenza di fatto, e delle facoltà interpretative con le quali ci orientiamo in seno ad essa, fosse quel limite dal quale l'Essere-nascosto accenna a se stesso senza mai rivelarsi.
    Inevitabile torna, perciò, il parallelismo tra Immanenza/Trascendenza e tra il linguaggio umano e l'archelingua heideggeriana, la Dichtung. Infatti, nel pensiero di Heidegger, essa appare come sostrato immanente sia al Pensiero che alla Poesia, e d'altra parte, vivendo essi nella sua luce senza mai identificarsi con essa (che rimane inattingibile e nascosta), la Dichtung sembrerebbe additare la sua stessa trascendenza.
    Il rapporto Immanenza/Trascendenza, sarebbe poi, tradotto in altri termini, il rapporto che lega parallelamente e dialetticamente l'Esistenza all'elemento che la trascende e che ad essa si impone, che per quanto ci adoperiamo a negarlo, sempre risorge, sempre accenna a se stesso in quel Nascondimento/Disvelamento che gli è proprio. Ma tale rapporto, che a noi si mostra come parallelo e dialettico, verrebbe ad esprimere una Identità, una eguaglianza fondamentale poiché, solo nello iato che è l'esistenza, l'Immanenza/Trascendenza, -ovvero il Nascondimento che si disvela e il Disvelamento che in se stesso si ritrae nascondendosi- si mostrano come distinti.
    Rossella Cerniglia

    RispondiElimina
  8. Mi complimento ancora con Rossella Cerniglia. Stupende e dottissime le sue riflessioni, ma io sono molto terrestre e non so volare dalla terra verso il cielo. So però che il cielo è sulla terra e non me ne vorrei dimenticare. Fuor di metafora, ritengo che l'Oltre sia qui e che la sola cosa che chiede è di venire messo in pratica nelle azioni quotidiane. Noi siamo mistero a noi stessi, ma solo accettando tale mistero possiamo ottenerne confidenza e rivelazioni. Grazie per le squisite e cortesi attenzioni.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina