Angela Ambrosini collaboratrice di Lèucade |
Franca
Donà, La verità degli anni, Kanaga
Edizioni, 2021
Foto
di copertina: Romina Rezza
Prefazione
di Angela Ambrosini
Tutto inizia adesso:
nell’hic et nunc della lirica d’apertura l’itinerario poetico di Franca
Donà si delinea calamitato da una sorta di incantamento nei confronti delle
esperienze quotidiane più marginali, solo presumibilmente prive di interazione
con l’afflato perenne dell’essere. Eppure è anche qui, nel lato labile e
transitorio delle cose, persino nell’ambientazione urbana (che, lo vogliamo o
no, interagisce in modo silente con la nostra sensibilità più profonda) dove si
acquatta una porzione di universale. Ed ecco che in un codice visivo tra
“marciapiedi” e “grigiore dell’asfalto” esplode la nota accesa e stridente di
un iris, “ostinato usurpatore di uno spazio metropolitano”, oppure in Seguendo
una musica di passi , “sui marciapiedi logori / la fuga alla malinconia del
lunedì /…/ il tempo di guardare il mondo / scendere da questa nuvola d’acciaio”,
accarezziamo con lo sguardo due moderni flâneurs di
baudelairiana memoria, l’uno con “un sorriso verde negli occhi”, l’altro con
“la barba un poco più bianca” e lirica dopo lirica, in questa bella, avvincente
silloge in bilico tra poesia dell’esperienza oggettiva e poesia autobiografica,
comincia a declinarsi una polifonia cromatica, con dominante in azzurro, ora a
stemperare ora a esaltare la corrispondente polifonia degli stati d’animo della
poetessa, innamorata delle cose e del loro mutamento in un gioco di prospettive
alla ricerca permanente della verità. Alla domanda montaliana “Il varco è
qui?”, fanno eco le parole della nostra autrice: “Serve tornare alla poesia /
al gioco crudo delle verità / occhi che frugano l’invisibile / il verso della
luce oltre la crepa”. È nella “crepa” della poesia, in quel linguaggio per sua
natura deviante dalla norma, che si cerca “la meraviglia dell’approdo”, il
dischiudersi di una realtà altra, altra da sé, altra da noi, ma proprio per
questo foriera di verità e conoscenza. Affiora il concetto della poesia/parola
come forma di conoscenza pur nella percezione mutante dell’oggetto: da qui, dal
nostro immergersi nel divenire, erompe la ricerca della stabilità dell’essere.
Crediamo che nella poesia, nella poesia vera, come questa di Franca, lontana da
autocompiaciuti stilemi dilettanteschi e da egocentrismi di superficie, sia
insita una forma di filosofia, seppure in termini quasi contraddittori o forse
meglio sarebbe dire dialettici. Non vogliamo certo addentrarci nella ben nota querelle
platonica tra poesia e filosofia, molto più semplicemente intendiamo
rivendicare, come poc’anzi affermavamo, il ruolo di “conoscenza” che attiene a
quel genere di poeta che, affermava Saba, “lavorerà con la scrupolosa onestà
dei ricercatori del vero”, laddove per “onestà” il grande triestino si riferiva
al duplice senso sia etico che contenutistico (da “onus”, peso, valore del
contenuto). E in questa ricerca di significato sotto la scorza delle cose e del
loro precipitare, un ruolo di spicco ha svolto, in molte poesie della Donà, il
periodo di confinamento sociale scatenato dalla pandemia del Covid-19, in presa
diretta confluita in versi di distillata pena, di sgomento trattenuto sul filo
della pietà. Il riferimento alle date dei mesi di marzo e aprile 2020 non
lascia adito a dubbi e porta in sé la cicatrice già indelebile della storia. Sotto
il peso del mondo, datata “27 marzo 2020, Città del Vaticano”, raffigura in
soli cinque versi la visione di Papa Francesco “sotto il peso del mondo” in una
Piazza San Pietro vuota e lucida di pioggia tra “campane e sirene / unite in
preghiera”. Ma è negli splendidi endecasillabi di La primavera dei balconi
che emerge con vigore di immagini la tragedia consumatasi a Bergamo tra le bare
trasportate dai mezzi militari, a dimostrazione che la poesia non è solo luogo
di obliterazione e vagheggiamento. “Saranno ancora rondini a cantare / oltre i
confini grigi delle case / oltre il lamento, la preghiera / il pianto dei
soldati sopra i carri / le bare senza fiori e senza croci / soltanto il buio a
benedirne il viaggio”. Struttura e temperie dal tono (molto probabilmente
casuale) di quasimodiana memoria capovolgono il tempo imperfetto del primo celebre
verso di Quasimodo da un’orazione di senso negativo a una di senso affermativo.
“E come potevamo noi cantare” di Alle fronde dei salici vira in un
futuro che tuttavia non ha l’uomo per soggetto: “Saranno ancora rondini a
cantare”. E in un clima simile a quello di guerra, la poetessa ribadisce “Non
ci sarà un ritorno, non ci sarà / un altro treno verso il mare, mai più…”. Ma,
al di là delle incerte prospettive legate a questa lunga stagione pandemica,
l’uso del tempo verbale futuro è insistente nei versi della Donà e più spesso
si tinge di fiduciosa attesa: “Aspetteremo insieme / il sole dietro il mandorlo
/…/riscopriremo la perfezione dei dettagli” (in Il sole dietro il mandorlo)
o, ancora, in Lo spazio dell’attesa e in Saranno i fiordalisi, si carica di gioia per l’adorata figlia in procinto
di diventare mamma: “l’assoluta dedizione alle due sillabe / (la brevità di un
nome immenso)”. La galleria degli affetti non può non attraversare i versi di
un poeta e le immagini dei figli, dei nipotini, il ricordo del padre, affiorano
con serena commozione, ma è l’imperativo del lutto per la madre, recentemente scomparsa,
che occupa uno spazio sacrale nelle pagine della Donà, senza tuttavia mai
indulgere in scorie di pianto scomposto. Nella “ovvietà sublime del consueto”
(in Ti regalo il mio buongiorno), l’autrice sperimenta che il viaggio nel
ricordo “ci ridona il tempo, / il tempo che non muore mai” e, quasi anticamera dell’eternità,
assapora “la gioia degli attimi per sempre” e “il tuo essere immortale / oggi,
sempre nel mio cuore”. Altrove, una struggente memoria olfattiva erompe in
associazione al ricorrente ventaglio cromatico e allora ecco che rosso, viola,
beige, turchese e smeraldo zampillano dai cassetti evocando la vista dell’amata
madre: “Ho il naso dentro la tua vita / se ancora fosse tua la vita / se fosse
adesso il tuo respiro / non la memoria di un profumo” (Dentro la tua vita).
Dicevamo dell’alta frequenza del cromatismo
lessicale nella presente silloge e forse la stessa professione della Donà, in
ambito della riabilitazione psichiatrica, potrebbe fornirci indizi precisi per
lumeggiarne meglio le correlative valenze sottese. Ma ora ci interessa additare
al lettore l’altrettanto consistente indice di frequenza di certi lessemi in
qualche modo legati al simbolo atavico della soglia, del passaggio. Balconi,
finestre, cancelli, persiane, cortili, stanze aperte, ponti, strade dai cigli
infossati, stazioni, marciapiedi, vetrine, non hanno solo a che fare con un’ambientazione
urbana cara all’autrice e alla poesia contemporanea nella stessa misura in cui
è caro il respiro della natura, ma sono echi di un varco, di un passaggio verso
l’altrove, del senso della soglia. Nelle antiche mitologie esisteva una
creatura che come Janitor, Giano bifronte, era posta a custodia del
diaframma tra conoscenza e mistero, tra profano e sacro, tra la superficie e
l’abisso. Il poeta è una specie di custode di questa soglia che travalica i
confini del linguaggio denotativo per spingersi nella connotazione, al di là di
ogni aspetto puramente referenziale e razionale, in una ricerca spesso
inconsapevole nella quale è coadiuvato dal vasto repertorio di figure retoriche
formali e semantiche, a loro volta usate in modo non sempre consapevole. “Nel
finire del buio / percepire il senso d’inizio / scolpire il silenzio di luce /
l’accenno alla vita / senza pretese di confine / mi accingo al giorno che
nasce” (Accingersi al giorno). Non sappiamo né ci interessa sapere se la
bellissima catena sinestesica “scolpire il silenzio di luce” sia prodotto di un
processo controllato, poiché l’impronta psichica nel lettore è potente e
veicola, tra l’altro, proprio quel senso di passaggio di cui dicevamo poc’anzi.
Nel verseggiare maturo della Donà la robusta presenza del tempo futuro appare
agganciata proprio al senso della soglia, alla volontà quando non alla
necessità interiore di intraprendere il viaggio-passaggio verso rinnovati orizzonti
in una visione non accigliata della vita. Il pessimismo, la tristezza che
adombrano certi versi, motivati da accadimenti inconfutabili, di per sé non sono
condizioni per una pervasiva meditazione cupa sull’esistenza. Prova ne sia il
leitmotiv dei lessemi “ali”, “volo” o “vele” che, annodandosi al simbolo del viaggio
della vita, stanno a denotare un impeto di fiduciosa tensione verso l’avvenire.
“Noi col miraggio negli occhi / di un viaggio senza carovane /…/ ali che
sognano di varcare mondi / così, come nel sogno, noi di saper volare” (in Miraggi).
E ancora: “Stendilo piano, il viaggio, / se mai avrò le ali per volare / per
fare come fanno poi le rondini / quando ritornano per sempre al nido / quando
ritornano per sempre al viaggio” (in Se mai avrò le ali), un viaggio “in
cui noi siamo solamente vele” (La meraviglia dell’approdo).
Ma la poesia è anche strumento di
indignazione e di accusa e non può non tener conto delle piaghe della società e
dell’abbrutimento dell’uomo. I versi di denuncia di stupri e femminicidi
(ricordiamo, tra le altre, le liriche Ridatemi la vita, per Hevrin
Khalaf e Un volto nuovo per il giorno dedicata al noto caso di Lucia
Annibali), dello strazio dei migranti (“sponda dopo sponda e ancora il mare /
migrano oltre il senso del migrare / la gola squarciata nell’urlo del respiro”,
in Prodigio d’azzurri) seguono sovente un andamento con indice di
metaforicità più trattenuto, a esprimere la vemenza dell’accusa e dello sdegno.
La condivisione del dolore altrui si allarga ai versi dedicati a un malato di
sclerosi multipla (Raccontami le mani), alla vergogna storica della
Shoah che “oltre quel filo / chiede soltanto la memoria”, affinché “tutta
quella vita / non sia mai soltanto fumo dal camino” (Nel vento) e si
estende al dolore cosmico evocato nella distruzione delle foreste alpine ad opera
della tempesta Vaia che nel 2018 sradicò milioni di abeti secolarmente
destinati alla costruzione dei violini. La figura retorica della prosopopea,
reperibile nella Donà in notevoli esempi di personificazione di natura e
oggetti, si spinge allora in una lacerante quanto inusitata rete di nessi in
riferimento alle camere a gas naziste: “Usciranno dal camino / come ad
Auschwitz / e allora qualcuno sentirà / ancora Stradivari sopra i monti”. (Il
pianto dei violini).
Ma è con la felice personificazione della
“piazza che apparecchia il giorno” che vogliamo congedarci da questa preziosa
silloge: in un connubio paradossalmente divaricato tra aderenza al valore
referenziale e distanza dall’oggetto stesso a cui si riferisce, la Donà fa
propria la dimensione dello straniamento insito nella natura stessa del
linguaggio poetico, intuitivo, evocativo e alieno da formule di serrata
corrispondenza con il dato oggettivo. Parimenti, in molte liriche la scelta dell’ossimoro
sta a denotare questa volontà di accostarsi a una visione non asfittica della realtà,
non delimitata da leggi imposte, sia pur naturali. Anche la poesia La verità
degli anni, che dà il titolo alla raccolta, ribadisce mediante l’ossimoro concettuale
degli ultimi due versi un radicato legame positivo-oppositivo con la vita, a
dispetto delle ineludibili avversità: “questo mio dolore /…/ sembra essere
solamente amore per la vita”. Non a caso asseriva il filosofo poeta Ralph
Emerson che “la poesia deve essere affermativa”, essendo nient’altro che “la
pietà dell’intelletto”.
Vedo solo ora (vogliate perdonare la mia discontinua presenza sull'isola della poesia) la prefazione di Angela Ambrosini alla mia nuova raccolta di poesie, La verità degl anni, e ancora mi emoziono a leggere con quanta perizia e sentimento la nostra Angela entra nel vivo delle pagine e del mio animo, aggiungendo valore e ricchezza al mio libro. Grazie di cuore, sempre, cara Angela per la tua opera e grazie a chi vorrà leggerci. Franca Donà
RispondiEliminaVedo solo ora (vogliate perdonare la mia discontinua presenza sull'isola della poesia) e confesso la mia emozione, ancora una volta, nel leggere la meravigliosa prefazione di Angela Ambrosini alla mia nuova raccolta "La verità degli anni", la sensibilità critica, l'alta capacità espressiva e culturale con cui sa illustrare le mie poesie, cogliendo ogni frammento, ogni mia particella d'essere...grazie Angela, sempre per ciò che hai fatto per me, e grazie a chi vorrà leggerci. Franca Donà
RispondiEliminaGrazie Franca, è stato per me un vero piacere lasciarmi trascinare dalla ricerca dell'essenziale che i tuoi versi esprimono attraverso la bellezza formale.
RispondiEliminaAngela Ambrosini
Grazie Franca, è stato per me un vero piacere lasciarmi trascinare dalla ricerca dell'essenziale che i tuoi versi esprimono attraverso la bellezza formale.
RispondiEliminaAngela Ambrosini