giovedì 19 agosto 2021

ANGELA AMROSINI: "RECENSIONE DI S. QUASIMODO E M. CUMANI a IL FUOCO TRA LE DITA"

 ANGELA AMBROSINI

Recensione di:

Salvatore Quasimodo e Maria Cumani, Il fuoco tra le dita. Il poeta e la danzatrice, a cura di Mariacristina Pianta e Alessandro Quasimodo, Abramo Editore, 2011.


Angela Ambrosini,
collaboratrice di Lèucade

   Il libro, come puntualizza nella premessa Mariacristina Pianta, attenta curatrice, insieme a Alessandro Quasimodo, dei testi autografi, è il risultato della strutturazione di materiale di varia natura, un coacervo di emozioni, dati, osservazioni, testimonianze di Maria Cumani, intenzionalmente assemblati senza tener conto dell’ordine cronologico “per avere una maggiore libertà nello stabilire nessi analogici tra argomenti comuni e creare un’autentica conversazione tra il lettore e l’autrice” (p. 7). È il felice esito di una tecnica di montaggio che, tra l’altro, vede convergere stralci di diario e lettere di Maria con testimonianze di personaggi di spicco dell’intellighenzia del tempo, estrapolati dall’Archivio Salvatore Quasimodo  curato da Antonio D’Amico. Sono lettere che occupano la sezione finale del volume a ricostruire la fitta rete di contatti che la posizione e la professione della Cumani le imponevano e le procuravano. Compaiono i nomi di Giorgio Morandi, Francesco Messina, Aligi Sassu, Gianfilippo Usellini, Alberto Savinio (fratello di Giorgio de Chirico) a dimostrazione dell’interessamento della stessa Maria anche per il mondo dell’arte e della pittura, come ribadito dal disegno di Renato Guttuso che la ritrae in movimento di danza.

   E su tutti ovviamente campeggia e vibra la figura di Salvatore, suo marito, ed è, giustamente, proprio dalle lettere del grande poeta indirizzate a Maria che prende le mosse “Il fuoco tra le dita”. Una dozzina di missive nelle quali il Premio Nobel si firma ora con il proprio cognome, ora con gli appellativi di Virgilio e di Apollion, rivolgendosi altresì all’amata con il nomignolo di Pucci datole dal padre, o con “Delfica” o “Erato” ed è proprio in questa sezione del libro che si propongono le tre splendide liriche espressamente dedicate a lei: “Delfica”, “Elegos per la danzatrice Maria Cumani” e “L’alto veliero”. Interessante è il valore emblematico di questi appellativi. Su “Virgilio” inutile spendere parole, è chiara l’intenzione di Quasimodo di identificarsi con il poeta latino invocandolo, come fece Dante, a illustre guida della sua ispirazione. Anche “Delfica” in qualche modo riecheggia il sommo poeta che nella “lieta Delfica deità” ci indica Apollo venerato a Delfi, laddove la stessa Maria, a sorpresa, in una lettera del 1995, ribadisce la funzione sacerdotale insita nel suo cognome Cumani che si può ricollegare alla figura della Sibilla cumana.[1] Ma anche su “Apollion” vale la pena fare una breve riflessione. Così come lo stesso Salvatore ebbe a precisare in una lettera all’amata (p. 23), Apollion è l’angelo distruttore, la divinità degli abissi, opposto a Erato, musa della poesia amorosa, quindi dell’armonia e questa opposizione (se è vero il detto latino nomen omen) pare prefigurare il difficile, tormentato rapporto che si sarebbe poi creato tra i due e nel quale Maria sarebbe stata proprio l’elemento di equilibrio, di armonia, in contrapposizione all’inquietudine del marito, poi sfociata nella separazione. Questa contrapposizione tra i due si evince chiaramente anche dal tono delle lettere che delinea temperamenti diversi. Salvatore scrive missive di altissima valenza poetica, pervase da un’aggettivazione e una costruzione squisitamente letterarie, impreziosite da frequenti richiami mitologici, a volte dal sapore quasi dannunziano. Se, è stato detto, la lettera è in un certo senso “la metà di un dialogo”, le lettere di Salvatore sono splendidi monologhi; più che lettere private echeggiano come epistole destinate coscientemente alla divulgazione e alla pubblicazione. Il suo incedere nei confronti della destinataria è seduttivo, scrive per compiacere e per piacere sia a Maria che a sé stesso. Di contro, Maria scrive senza mascheramenti né narcisismi e a questa diversa scala di valori si ispira la diversa cifra dei documenti raccolti in Il fuoco tra le dita: pagine di diario, lettere, brevi racconti, resoconti di sogni, spunti di monologhi da recitare, strofe di versi. Il tutto a comporre un diario della mente, una specie di journal intime sempre in bilico tra poesia e autobiografia, non pensato per la pubblicazione (come di solito avviene nella stesura di un diario che sia un’autobiografia inconsapevole) e nel quale i pensieri, le riflessioni, i ricordi, fluttuano liberamente in un resoconto non narrativo di eventi e circostanze e, soprattutto, di affetti e moti d’animo. Il diario, diceva un grande diarista, David Thoreau, “è un registro di esperienze e crescita, non una cassaforte di cose ben fatte e ben dette”. E un diario spesso somiglia per sua natura a un Cuore segreto dell’orologio, per usare il suggestivo titolo dell’opera di Elias Canetti, anche se “il cuore segreto dell’orologio” di Maria non pulsa al ritmo della sentenziosità aforistica di quello del Premio Nobel bulgaro. Senza indulgere a facili tentazioni invocando un’ illustre parentela di genere nello sterminato Zibaldone leopardiano (applicabile per lo meno come ideale “sottotitolo” al volume della Cumani per l’eterogeneità degli argomenti e del materiale proposti), non può essere sottaciuta la dichiarata ammirazione di Maria per Katherine Mansfield: Come si respira nelle sue pagine. Tutto vi è trasfigurato, esclama (p. 67), più volte menzionandola come ispiratrice. Ma il Diario della scrittrice neozelandese è comunque lontano da quello di Maria sia per il mondo che Katherine ritrae, giustamente definito dalla curatrice M. Pianta a volte “angusto”, sia per il tono stilistico, nella Mansfield notoriamente innervato del realismo del suo maestro, Chekov, laddove M. Pianta ravvisa (forse in modo azzardato) un’impronta di “realismo magico” (p. 30) nella Cumani, opinione sicuramente dovuta a quella commistione di lirismo-autobiografismo di cui dicevamo prima. A parte, dunque, l’egida tutelare della Mansfield, consapevolmente scelta da Maria, si potrebbe individuare una certa assonanza con Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, assonanza beninteso casuale, se consideriamo la pressoché perfetta coincidenza cronologica d’inizio di stesura dei due diari (1935 quello di Pavese, 1936 quello di Maria) e la pubblicazione postuma di entrambi, protraendosi quello della Cumani fino al 1992, ben oltre cioè il 1950, data del suicidio di Pavese. Anche il diario del grande scrittore delle Langhe, di perfetta tenuta stilistica (e non possiamo sottacere neanche la forte coesione formale del testo di Maria, che di quello non condivide la visione cupa e a volte cinica della vita), è organizzato in un impianto anti-narrativo che procede per sussulti, spunti, allusioni fugaci di eventi, con frasi brevi e spesso impersonalmente costruite all’infinito quasi per non perdere il contatto con l’idea. Vorrei, a proposito di “idea”, ipotizzare un’ardita analogia con le arti visive. Nell’annosa querelle rinascimentale sul primato delle arti, è noto come il Vasari attribuisca al disegno il ruolo principe, essendo più vicino all’idea di quanto non lo siano pittura e scultura. Potrei parimenti affermare che anche il diario (senza per questo volergli assegnare il primato di genere della scrittura) è sicuramente più vicino all’idea di quanto non lo siano poesia e prosa letteraria, troppo spesso soggiogate alla dittatura dello stile, laddove la diaristica proprio per la sua immediatezza, esattamente come nel disegno, coincide con l’incompiutezza. La scoperta del sé, il dialogo con il nostro io sotterraneo cui indulge Maria (p. 50), è alla base della creazione e della scrittura e si noti come la pratica stessa della scrittura riservi questa scoperta del sé a chi la compie solo mentre scrive. Sto facendo mia la riflessione della filosofa e poetessa spagnola Maria Zambrano riguardo alla pratica dello scrivere: il segreto si rivela allo scrittore mentre lo scrive, mai quando lo pronuncia, [2] cioè non è “prima” di mettere nero su bianco che ci si svela il segreto dell’io, ma proprio nel corso della scrittura stessa, come se la parola orale difettasse di aderenza piena all’idea. E questo è ancor più vero nel caso di un diario o journal intime.

   Ma addentriamoci negli scritti di Maria. Si snodano due livelli di lettura. Il livello superiore, strettamente diaristico o diacronico, è in sintonia continua con un secondo livello più profondo, sincronico, che unifica tutte le pagine, dalle più lontane della giovinezza fino alle ultime dell’età matura, attraverso quelle che sono le grandi categorie dell’esistenza (amore, libertà, dolore) e che spaziano longitudinalmente in tutto il libro legandolo come un collante in un’architettura a poliedro. Di qui, sicuramente, la volontà dei curatori di non tener conto, come dicavamo, dell’ordine cronologico perché il testo, nonostante il fitto reticolo di date in cui è incastonato nella sua struttura esterna, viene in parte meno alla sua funzione strettamente diaristica di archiviare fatti ed eventi, dando priorità e vasto respiro, come dicevamo, alla meditazione introspettiva sulla vita, alla ricerca di una solidità dell’essere (il livello “sincronico” di cui parlavamo prima), che si spingono oltre le apparenze, oltre i fatti. Per meglio dire, lo sguardo interno prevale su quello esterno, come testimonia anche l’amore di Maria per il genere poetico. Contemporaneamente la Cumani infatti scriveva poesie di cui abbiamo (sempre a cura del figlio e di M. Pianta) una bellissima raccolta, O forse tutto non è stato, in una sobria, raffinata veste editoriale per i tipi di Nicolodi Editore. Dei suoi versi hanno scritto Afonso Gatto, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni. Questa produzione lirica, alla quale Maria fu inizialmente incoraggiata dal marito Salvatore, dà fede del suo incoercibile bisogno di esprimersi non solo con il fisico attraverso la danza, ma anche attraverso la parola: Vorrei creare non solo col movimento, ma anche con la parola (p.77). Più volte nel corso del diario (e dei suoi versi) manifesta questo desiderio: Devo vincermi, devo imparare il duro lavoro dello scrivere (p. 89). E ancora: Io devo danzare e anche scrivere di me per trovare una mia voce. Io so di non avere ancora una mia voce, ma sento che devo trovarla. (p. 55)

    Qual è il rapporto che lega dunque Maria Cumani alla parola?  Non esitiamo a rispondere: lo stesso che la unisce alla danza. Dicevamo della struttura sostanzialmente antinarrativa di questo “zibaldone”, struttura che gli imprime la leggerezza della danza: Maria sembra danzare con le parole e con i pensieri con la stessa levità con cui danzava le sue esibizioni ben lontane dall’accademicità a volte un po’ asfittica del balletto classico, imbrigliato spesso in coreografie prone ai dettami di ingombranti scenografie. Maria, al contrario, ispirata allieva della Ruskaja, è anche ammiratrice incondizionata di Isadora Duncan che declamava “Io danzo la mia anima” (in sintonia con la famosa definizione che Carlos Gardel dette del tango, “un sentimento triste che si danza”). Maria danzava a piedi nudi, danzava anche senza musica e senza complicati apparati scenografici, postulando una danza dove la danzatrice non rappresentasse qualcosa, ma fosse qualcosa (p. 145) e in una bella lettera a Rossana Rossanda, quando questa era responsabile della Casa della Cultura di Milano, delinea la basilare differenza tra balletto classico (dal movimento periferico) e la danza moderna, dal movimento centrale (p.134). Torna l’opposizione sguardo interno-sguardo esterno. Una lettera dei genitori di una sua giovane allieva (Maria si dedicò con passione anche all’insegnamento della danza) è illuminante in tal senso, dichiarando costoro che con nessun’altra insegnante avrebbe acquistato la loro bambina non una grazia superficiale, meccanica e sovrapposta, ma una capienza delle possibilità espressive del suo corpo e dei suoi dinamismi (p.143). Anche negli scritti, sia in prosa che in versi, la Cumani si tiene ugualmente lontana da questa “grazia meccanica superficiale e sovrapposta” che purtroppo contraddistingue sovente molta scrittura femminile. Altrove, nella risposta ai quesiti da lei stessa formulati per i docenti di danza su incarico dell’Accademia Nazionale, instaura un significativo paragone tra danza e poesia, affermando che come la poesia…pur essendo legata al suo metro e al suo ritmo è autonoma, così è autonoma la danza, anche se legata alla musica…alla quale chiede… la sua misura (p.137).

   Spesso nelle sue parole troviamo l’attitudine alla danza, non solo come musicalità, ma persino come disposizione dello spazio tipografico. Voglio riferirmi, a mo’ di esempio, a Nenja, presente nel suo volume di poesie[3] e che merita una breve digressione. Il titolo è indicativo, “nenia” allude a ripetitività, litania, stato ipnotico e invito al sogno, additandoci pertanto non solo la struttura, ma anche il contenuto stesso della composizione, che non a caso si chiude con il motivo del sogno. La lirica si snoda attraverso un climax crescente degno del Bolero di Ravel, incalzato dal polisindeto e dall’anadiplosi, cioè dalla ripresa insistita, quasi in ogni capoverso, dell’ultima parola del verso precedente, fino a convergere nel bellissimo chiasmo finale che imprime alla poesia un tratto fortemente visivo. Se si potessero tradurre visivamente infatti le parole in uno schema, in un diagramma, vedremmo come si dispongono in una spazialità ondeggiante come una danza, è una poesia da “vedere” oltre che da ascoltare, permeata da una marcata evidenza tipografica. Si potrebbe persino coreografare, dato che la disposizione spaziale dei termini pare evocare il vorticoso fluttuare dei fiocchi di neve, soggetto della poesia stessa. Qui potremmo senza dubbio affermare che Maria danza con le parole creando una specie di calligramma coreografico.

   Veniamo ora ai temi focali della sua scrittura, a quelle che abbiamo definito le eterne categorie dell’esistere: libertà, amore, dolore.

   Cominciamo proprio dalla libertà, libertà che, in ambito civile, coincide con la volontà di pace, si pensi alle pagine scritte in tempo di guerra, alla splendida, breve sezione intitolata Un giorno rubato agli dei in cui rievoca la gioia mansueta con cui, qualche giorno dopo i bombardamenti di Genova e Milano del 13 agosto 1943, visse una giornata di sole nel Golfo del Tigullio, dove, ospite di una sua allieva di danza, venne raggiunta da Salvatore. La gioia di sapere illesa la sua famiglia, pur nella distruzione della casa, le fece assaporare tutta la semplice bellezza di un giorno di sole, il grande sole della costellazione del Leone, segno zodiacale di Salvatore, in piena pace interiore al di là della  preoccupazione del nostro “giorno dopo giorno” in tempi oscuri di lacrime e di lutti, alludendo al titolo della raccolta poetica di Quasimodo, Giorno dopo giorno, come sappiamo inserita, dal 1947, nel secondo periodo della sua poetica con l’impegno precipuo di “rifare l’uomo”. Così si sofferma Maria sul disappunto manifestato dalla cosiddetta “società bene”:

   Ebbene quel nostro giorno fece scandalo nella piccola baia mondana, ove le gentili signore non accettarono il nostro modo di essere: parole di critica aspra ci raggiunsero: in perfetto accordo e senza parole non avevamo voluto perdere l’ultima giornata magica che la sorte avversa non aveva ancora invaso. Superando la contrarietà per la perdita di beni provvisori (non così certo avremmo reagito se i nostri cari fossero stati colpiti) abbiamo saputo allontanare nel tempo l’accaduto respingendolo dall’oggi, nel passato di mesi o anche di anni. (p. 37)

E pensare che avevano voluto solo strappare agli dei un giorno felice (…) di viva forza. Stesso tono dai convinti accenti di impegno umano e civile, sia che alluda alla  guerra in corso in Corea o che si riferisca alla condizione della donna moderna, si evince nel “saluto del Comitato Provinciale dei Partigiani per la Pace” da lei portato al “Congresso delle Donne Italiane” (p.183). Queste pagine costituiscono uno dei pochi passaggi narrativi, discorsivi. Altro esempio in cui la sua scrittura si fa più concreta, attenta ai particolari e incline alla discorsività è da ravvisare in una bella, breve lettera del 1984 indirizzata al marito e alla madre morti ormai da anni, lettera nella quale si rivolge ai due come se fossero vivi, chiedendo inoltre la loro protezione perché riesca a scrivere ancora e ancora (p. 53), ribadendo così la funzione vitale che per lei ha la scrittura, alter ego della danza. Ma dove, curiosamente, il diario si fa esposizione circostanziata di particolari è la trattazione tematica dei sogni. La realtà onirica appare più volte, e in modo insolito, nel diario, dando spazio a una narratività che per il resto affiora solo attraverso frammenti di racconti. Il motivo del sogno torna spesso anche nei Monologhi (spunti per la recitazione che in realtà paiono stralci di diario più controllati sotto il profilo formale), come pure nelle poesie, nel tentativo forse di recuperare, dominandolo, quell’irrazionale che si annida in ognuno di noi.  C’è poi una sezione specifica intitolata Alcuni sogni nella quale la descrittività si fa meticolosa e incisiva àncora impigliata nella concretezza del reale, illustrando con chiarezza razionale situazioni irrazionali. Dal sogno al pregevole esempio di ecfrasi, evocata come una visione, il passo è breve: nella minuziosa descrizione del Ciclo degli affreschi dedicati “ai giochi e alle facezie” di Palazzo Borromei a Milano (pp. 125-128), prendono vita figure e atmosfere in una circolarità di impianto che riproduce persino la circolarità in cui si articola la visita, dalla chiarità solare del cortile all’ombra della saletta terrena, per poi tornare al sole, riproponendosi la concezione del movimento, del ritmo, anche nella descrizione delle pitture.

   Un motivo ricorrente nella meditazione di Maria è indicato dalle parole “esilio-solitudine- assenza”. Si percepisce in desolata assenza di vita (p. 64), in eclissi della vita. Fuori della vita (p. 44), affermando di sentirsi morta a tutto, a tutti (p. 94) fino a dubitare della sua identità: non più mia io sono (p. 77), o ancora: Le mie ore sembrano provvisorie come se non mi appartenessero. Partecipo ai miei giorni non con tutto il mio essere (p. 41), meditazioni che trovano riscontro puntuale anche nella produzione poetica.

   Un termine, credo, in un certo senso “binario” a quello della solitudine è cenere, la cenere come nientificazione, risultato di distruzione, di devastante incendio della gioia e della giovinezza. Il termine “cenere” è insito persino nel suggestivo titolo di Il fuoco tra le dita, titolo che coincide con il primo verso di una lirica della raccolta O forse tutto non è stato:

Tenevo il fuoco tra le dita/ora ho cenere nei pugni chiusi. [4] Espressione questa che sembra avere una sua anticipazione in una lettera del 1954 indirizzata a Salvatore: Cenere è ormai tutto di me, un tempo così accesa io ero, in ogni attimo aperta ad accogliere vita e dare vita in risposta (p. 83).

   Questo senso d’inadeguatezza, di perdita della solarità d’un tempo le è instillato a poco a poco dalla perdita dell’amore di Salvatore, verso le cui debolezze d’uomo Maria mantenne un atteggiamento di grande compostezza, esprimendo un giudizio costantemente pacato, mai mosso da rancore o da sentimenti di vendetta. Solo amarezza, senso di privazione, di rimpianto, sempre fedele all’amore perduto, senza ossessione né possessione, ma semplicemente attenta e devota nella sua condizione di donna sola sia pur confortata dall’amore del figlio e dalla sua intensa attività di danzatrice, coreografa, attrice. Il suo sguardo disincantato ben le rivela le debolezze dell’uomo Quasimodo, quando gli rimprovera nelle traduzioni del Vangelo di Giovanni di non capirne se non la lettera dato che mai lo spirito lo toccò (p. 100), quando con amarezza osserva che egli si illude di poter vivere meglio seppellendo il passato senza averlo capito (p.98), quando rivolgendosi idealmente a lui riflette: le tue ribellioni erano per ribellarti alle tue angosce (p. 39), o quando senza false indulgenze scrive a mo’ di epitaffio: E’ morto uno scrittore, era vecchio e in più era egoista, prendeva in giro tutti e non amava nessuno (p. 41),  per poi sommessamente scrivere quasi in punta di penna:  So che non ci siamo mai lasciati (p. 39). Quella che Maria opera nei confronti dell’ex marito è una nobile impresa di restituzione di dignità attraverso l’amore. Si fa carico di capire l’uomo nelle sue debolezze e tormenti, nella sua asprezza di carattere più volte causa di sofferenze, e in modo capillare, tenace, inarrestabile, Maria porta a compimento con questo diario, attraverso le sue riflessioni, non solo la propria vita, ma anche quella di lui, quasi in un impossibile intento (per citare di nuovo il celebre precetto del Premio Nobel dopo la furia della guerra) di rifare l’uomo. Portare a compimento la vita dell’uomo amato, oltre che la propria, questo è il fine ultimo del diario di Maria Cumani, spesso ricorrendo anche a una deliberata intertestualità. Sono decine i versi del marito che, puntualmente citati tra virgolette, possiamo infatti intercettare sia nelle pagine del diario che tra le strofe delle proprie liriche, quasi a voler intavolare con lui un dialogo a volte tenero, a volte aspro, ma mai velenoso, come ci si potrebbe aspettare da una donna tradita senza avere tradito (p.51).

   E su tutto, sul senso di solitudine, di estraneità, di dissoluzione del rapporto con Salvatore, trionfa l’amore per il figlio che si traduce in amore stesso per la vita, inducendola a una presenza più assidua - Riparerò il tempo perduto. Ogni mia ora dovrà diventare presenza- (p.52), nella consapevolezza che sia lei che il marito non sono neppure di loro stessi, ma del loro tormento, della loro arte, del loro male di vivere (p.74).

   Alla stessa stregua il tema dell’infanzia, contemplata attraverso gli occhi del figlio bambino, o rievocata nei luminosi ricordi della casa di Caldè, sul Lago Maggiore, costituisce un sottile, indistruttibile legame tra passato e presente tanto da farle affermare nel 1992, pochi anni prima della morte: Tutto si fa vivo in me quello che fu (p.114). Nella persistenza della memoria ricorda lo sforzo continuo per penetrare più dentro alle cose, nella volontà di vivere la vita vegetale del giardino (p.81) dell’amata casa sul lago. Ma le allusioni di Maria all’infanzia nulla hanno di lezioso o manierato e si estendono sotto mentite spoglie, crediamo, anche in alcune pagine dei brevi racconti pubblicati nel “Giornale di Lecco” nel 1962 (ad es. Sogni, danza, bambine e Volti fanciulli).

   Su tutto e su tutti prevale un radicato senso etico che a volte si fa religiosa constatazione dell’ineluttabilità del dolore e del doloroso concetto di colpa indissolubilmente legato al destino dell’uomo: …e quanto bisogna soffrire per arrivare a capire che “La colpa è di tutti e di nessuno”. Tutti, tutti siamo colpevoli. Il dare dolore e ricevere dolore è inevitabile, la vita è crudele, lo è stata e lo è e lo sarà in ogni tempo e in ogni luogo. Fortunati quelli la cui fede importante è vivere e saper soffrire con dignità di uomini e donne (p.51). La sua meditazione religiosa si spinge fino alla dogmatica, possente affermazione che si può credere solo in ciò che non si può nemmeno confutare (p.73), altrove riecheggiando consapevolmente Sant’Agostino nella constatazione che non c’è salvezza se non nel sacro (p.116), sebbene nella realistica, sconfortante presa di coscienza che, pur sapendo che l’unica via di salvezza è la via del Cristo, lei non è capace di percorrerla, potendola solo guardare (p.46). La chiave per districarsi dal groviglio caotico delle apparenze è l’amore: le cose che si offrono come favola o come verità non sono che una torre di Babele se l’amore non le lega”. (p. 105), e quasi torna alla mente il Pascoli della prefazione ai Canti di Castelvecchio (Ma la vita senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione … è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico).

 Chi scrive, afferma Duccio Demetrio [5] “sa di non riuscire a saziare la nostra domanda di senso, eppure, non smette di cercare l’inimmaginabile. Non più fuori di sé, ma in quel lavoro interiore, in discesa verso l’invisibile”. E questo fa in modo inesausto Maria, istintivamente spostando gli interrogativi della propria scrittura, intuendo che questo “spostamento” è “l’unico centro plausibile” [6] della scrittura stessa, come quando si chiede, in versi di toccante pregnanza, quale sia per l’umanità la rotta da seguire dopo tante sofferenze:

 

Ci furono campi di sterminio

e non abbiamo capito

ci furono e ci sono i poveri, i malati

i disperati e non abbiamo capito.

Sono indegna, indegna.

Che posso fare per non perdermi per sempre,

per illuminarmi ancora,

per capire, per capire.

Dio, apri la solitudine

(p. 104)

 

   E con questa splendida invocazione, con la quale riesce a riscattarsi dalla sterilità della solitudine esistenziale, ci accomiatiamo da Maria, non senza aver prima indugiato con lo sguardo sulla bella foto di copertina de Il fuoco tra le dita che la ritrae danzando sulla spiaggia di Bocca di Magra in atteggiamento idealmente sovrapposto alla limpida stilizzazione del disegno di Guttuso. Il nome della collana “Le onde” in cui è pubblicato il diario, evoca, come a chiare lettere spiega nella bandella il curatore della collana stessa, il flusso e riflusso delle idee da sempre alternantesi come un moto ondoso nella storia della letteratura, moto ondoso stilizzato sulla copertina, quasi tautologicamente, nella fascia verticale di ghirigori lungo il lato sinistro, e che trova pieno, palese riscontro nell’immagine delle onde del mare raffigurate nella foto. Osserviamo di nuovo Maria che corre danzando incontro all’acqua e, a mo’ di ecfrasi adattata a posteriori, leggiamo questo bellissimo stralcio del suo diario:

 

I passi del mare sulla riva. Al mattino cadendo dai sogni, i miei capelli fasciati di silenzio, le vele prive di soffio. Il mare celebra le sue nozze con l’aria nel guscio di silenzio della conchiglia. (p. 40)

 

   Poche parole, una goccia nelle acque profonde di una vita. 

Angela Ambrosini



[1] Maria Cumani, O forse tutto non è stato, Nicolodi Editore, 2003, p. 27

[2] Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, 1996, p. 26.

[3] Op. cit. p. 61

[4] Op. cit. p. 80

[5] Duccio Demetrio, Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, Raffaello Cortina Editore, 2011, p. 108.

[6] Ibid. p. 129

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