GERARD DE NERVAL
Viaggio attraverso la follia
Dafne
conosci questa romanza antica
ai
piedi del sicomoro…e sotto i gelsi bianchi
sotto
il lamentoso olivo o il salice piangente
la
canzone d’amore che sempre ricomincia?
…
A
J y Colonna – trad. di Walter Nesti
In
un articolo di Nicola Petruzzellis da “L’Osservatore Romano” del 12 maggio
1984, facendo riferimento all’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam, si
opera una distinzione; vi sono due specie di follia: una viene dal fondo
dell’averno ed è portata sulla terra dalle furie. Ad essa appartengono la
guerra, la cupidigia, la turpe passionalità erotica, il sacrilegio, l’incesto,
lo strazio della coscienza; l’altra, invece, libera l’anima da ogni molestia e
v’infonde i più soavi diletti e potrebbe, ma non può dirsi con certezza, fare
riferimento al vagabondaggio intellettuale dell’uomo di molte letture che si
estrania dalle molestie quotidiane, oppure ad una sapienza riposta che ha
parvenze di follia agli occhi degli stolti; ma è la sapientia Dei – di
cui parlava San Paolo – un riferimento quindi allo spegnimento delle passioni
del copro e risorgere a una nuova vita. “L’eterna felicità” riservata da Dio a
coloro che la amano. Fede e cultura integrate in una reciproca armonia…
Questa
premessa può servire per introdurci in parte alla complessa personalità di
Gerard De Nerval.
Nacque a Parigi il 22 maggio 1808. Il
padre Étienne Labrumie, medico, dovette, nello stesso anno, lasciare la Francia
per raggiungere l’Armata del Reno in Slesia, nel servizio di Sanità. La madre,
Marie-Marguerite-Antoinette Laurent segue il marito nella campagna d’Austria.
Il 7 aprile 1810 i coniugi raggiunsero
la grande armata; il dott. Labrumie è destinato all’ospedale di Hannover. Poco
dopo dirigerà il nosocomio di Glogau. Qui, la moglie appena venticinquenne
contrae una febbre delirante mentre attraversava un ponte disseminato di
cadaveri, e muore il 29 di novembre. Gerard fu trasferito nella casa di un
prozio materno (il padre era prigioniero a Smolensk), nella zona del Valois
fino ai sette anni. Una vita condizionata da isolate campagne al limitare dei
boschi. La sua condizione di bambino in un ambiente intriso di leggende, dove
si levavano antichi canti, circolavano credenze inquietanti. Una vita campestre
tra pioppi folti e bui, specchi di acque avvolti dalle nebbie al sorgere di
pallide albe. Dopo sette anni andò a vivere col padre a Parigi dove studiò, ma,
nelle vacanze, tornava nel Valois. Lì, i suoi più lontani ricordi di bambino
dalle gourmes tendres (le tenere gengive dei dentini di latte) e intorno
a lui paesaggi infiniti intrisi di magia. Nella soffitta della casa dello zio,
polverosa e abbandonata, trovò libri di scienze occulte, cabale, mitologia
orientale. Un mondo, ai suoi occhi, irreale ma avvincente che in parte lo
compensava della mancanza della madre della quale non conosceva il volto. Le
foto, andate sperse o forse rubate. La fascinazione dell’ignoto era sempre
presente nei suoi sogni. Molte immagini femminili prima vicine e presenti, poi,
dissolte. Molte letture illuminate e iniziatiche: L’Asino d’oro, i pitagorici,
le Diable Amoureux. Libri in cui si ritrovavano riti mistici. Il tutto
accresceva le conoscenze e le fantasie di Gerard.
L’ambiente con i suoi immobili spazi e
i suoi silenzi, lo esaltava; in lui il bisogno di esplorare le anime.
Prima dei viaggi reali lui viaggiava
nei sogni e, nei sogni, immagini femminili idealizzate, sicuramente collegate
alla figura materna precocemente scomparsa. Il suo volto ignoto. Gli fu detto
che assomigliava a una incisione tratta da Proud’hon o Fragomard chiamata
modestia, sua “fixation maternelle”. Donna amante, donna madre, donna
che a lui si nega. La sua instabilità emotiva, unita a una certa curiosità, lo
hanno portato a lunghi viaggi. Europa, Egitto, Oriente; poi i ritorni e mai
completamente appagato. Sempre presente in lui, la fascinazione dell’ignoto che
mal si rassegnava alle realtà quotidiane, sinonimo di morte. Il suo avventuroso
itinerario verso l’Assoluto alla fine di tutti i sogni e dopo la discesa agli Inferi,
è luce.
Vastissima la sua opera letteraria
oggetto di studio e traduzione da parte di eminenti critici[1].
Nel tentativo di delineare la figura di
Gerard De Nerval, conviene soffermarci su le figlie del fuoco. Vi
troviamo varie figure femminili e le canzoni e leggende del Valois. Dai ricordi
del Valois è scaturita la sua poetica che si è poi evoluta e persa negli incubi
allucinanti del progressivo aggravarsi della sua follia.
Riporto qualche frammento delle
leggende e canti da lui citati.
Se
fossi una piccola rondine!
se
io potessi volare
sul
vostro seno, mia bella
andrei
a riposare.
Il
fiore dell’olivo
da
voi amato
bellezza
che incanta
e
i vostri begli occhi leggiadri
che
tanto ama il mio cuore
bisognerà
lasciarli?
Eccomi,
alfine,
mia
bella sposa
eccovi
alfine legata al vostro sposo,
con
un lungo filo d’oro.
Solo
la morte potrà romperlo.
Sono ingenui matrigali di cui si è
smarrita la melodia ma che ben si inseriscono nella sognante terra del Valois,
tra gente semplice che, al fuoco, la sera si racconta. Le arie perdute erano
particolarmente belle. Spesso canti di chiesa inframezzati da canti di guerra.
Si potrebbero evocare con la fantasia. Altre canzoni sono crudeli e ricordano
le leggende nordiche: Odino, i Druidi, La regina dei pesci… Possiamo solo
immaginare le feste paesane: compagni che passano con lunghe mazze ornate di
nastri, marinai in cammino verso il fiume, bevitori dei tempi andati,
lavandaie, contadine che gettano al vento frammenti di canti delle loro nonne.
Il racconto dei suoi coinvolgimenti
emotivi, è un crescendo temporale che poi sconfina nella follia più completa e
dolorosa.
Partendo dai ricordi del Valois, lui
parla di un’attrice a Parigi che gli infondeva con la sua voce una beatitudine
sconfinata. Un anno di muta adorazione, senza conoscerne il nome. Ebbro di un
amore vissuto soltanto nel suo intimo. Inseguire un’immagine. Sul giornale, la
notizia di una “festa dei fiori in provincia”. Da questo, i ricordi della terra
del Valois. Una fanciullina, Silvia, portata a danzare. Lì un’altra donna,
Adriana, e, nella danza, un bacio. Lui le cinge la testa con dei rami d’alloro.
Ma niente succede.
Adriana sarà consacrata alla vita
monastica e in lui la visione del dolore di Silvia. L’amore per Adriana lontano
nel tempo, si era acceso per la donna sconosciuta del teatro. Vaghezze d’amore
che s’impadronivano di lui ogni sera allo spettacolo per poi svanire col sonno.
Ancora lo scorrere del tempo; lui nuovamente a Loisy nel Valois. La festa, col
cesto dei fiori e il barcone che lo trasportava. L’incontro con Silvia adulta.
In lei il ricordo del passato dolore e il diniego a un bacio di Nerval. Un
amore che non era mai stato vissuto. Sogni inseguiti senza realizzarsi. I due
volti, di Adriana e Silvia, ideale e realtà ma niente di concretizzato.
Poi il viaggio in Italia e in battello
verso Napoli; incontro con una donna un po’ fattucchiera, un po’ indovina. Su
un tavolo un Trattato della divinazione dei Sogni. La donna inizia a parlare
con sillabe sonore, gutturali gorgheggi che infondono incanto… Poi sembra tutto
svanire. Sogno o realtà? Si delinea un’altra figura: Ottavia, lontana nel tempo
e nello spazio. Poi, le descrizioni di Nerval di feste allestite all’interno di
Pompei. La casa delle vestali con le sue danzatrici. L’incenso odoroso che
fumava sugli altari…
Ancora viaggi. Vienna e lì la bella
Pandora: “Né uomo, né donna, né androgino, né fanciulla, né giovane, né
vecchia, né casta, né folle, né pudica ma tutto questo insieme”[2].
Nerval accettato da lei solo con un
abito nero da prete e la promessa di un giro in carrozza nel Prater…
Nella parte finale delle Figlie del
fuoco, Nerval parla del sogno, inteso come seconda vita. I primi istanti
sono immagini di morte, bizzarre apparizioni. Il mondo degli spiriti si
spalanca davanti ai suoi occhi. Ha inizio la descrizione della sua lunga
malattia. Ancora una donna, da lui chiamata Aurelia e la descrizione del
dilagare della sua follia. Vibrazioni nel petto, l’anima che pareva sdoppiarsi
tra visione e realtà. Ai suoi occhi figure fantastiche o reali, prima, integre,
poi frantumate in schegge di un enorme specchio.
Tutto intorno a lui mutava forma.
Visioni: un bambino che giocava per terra con cristalli, conchiglie, pietre…
Giovani sconosciuti tutti vestiti di bianco… Voci vibranti, melodiose, della
lontana infanzia. Alternarsi di luci e ombre. Ancora voci che dicevano:
“L’universo è nella notte”. E, a un certo punto, la certezza al risveglio
dall’incubo che qualcosa di terribile era successo: Aurelia era morta[3].
Il ricordare un anello a lei donato.
Troppo grande per il suo dito. Il rumore della sega che lo tagliava, in lui
generò la visione di una colata di sangue. Una serie ininterrotta di strane
visioni. Lui vedeva in sé il suo spirito sdoppiarsi. Il buono e il cattivo
genio. Tutti e due uniti in un medesimo corpo. Nelle sue crescenti
allucinazioni: spiagge ricoperte di canne verdastre, disseccate da un sole che
lui non riesce mai a vedere e poi il riaffiorare del volto di Aurelia ormai
perduta e prigioniera del mondo dei morti. Tutte queste visioni che si
susseguivano nel sonno lo portavano alla disperazione. Le sue parole ad un
amico che gli chiedeva che avesse: “Non lo so, sono perduto”.
Ricoverato alla Maison Dubois. Effimeri
miglioramenti, poi nuovamente visioni e follia. Hospice de la Charité. Delirio,
la camicia di forza. La sua vita in una stanza in fondo a un corridoio abitato
da un lato dai pazzi, dall’altro dai domestici. Solamente una finestra aperta
su un cortile alberato. Dimesso dall’ospedale tornò per l’ultima volta sulla tomba
di sua madre e, pochi mesi dopo, il 26 gennaio 1855 fu trovato impiccato in rue
de La Vieille lanterne a Parigi.
I sonetti della raccolta Les
Chimères, sono considerati i più belli della lingua francese. Il loro
fascino e la loro fortuna è dovuto all’essere oscuri ed ermetici. Fascino,
musicalità, mistero. I critici hanno definito la sua poesia “alchemica”. Penso
di inserirne alcuni. Sono raffinate e coinvolgenti traduzioni dalle Chimere
di Walter Nesti.
EL DESDICHADO
Sono il tenebroso, il vedovo,
l’inconsolato,
il principe d’Aquitania dalla
torre abbattuta
morta è l’unica stella mia e
il mio liuto stellato
diffonde il sole nero
della malinconia.
Tu che nella notte sepolcrale
m’hai consolato
restituiscimi Posillipo e il
mare dell’Italia,
il fiore preferito dal
mio cuore straziato,
e la pergola che attorciglia
il pampino
alla rosa.
Sono Amore o Febo?…Lusignano
o Birone?
Ancora la mia fronte scotta
del bacio della
Regina;
ho sognato nella Grotta dove
nuova la Sirena…
E per due volte vincitore
l’Acheronte ho
guadato
sulla lira d’Orfeo di volta
in volta modulando
i sospiri della Santa e le
grida della Fata.
MIRTO
Mirto a te penso divina
incantatrice,
a Posillipo altero, da mille
fuochi acceso,
alla tua fronte invasa dalla
luce d’Oriente,
all’uve nere avvinte all’oro
delle tue trecce.
Nella tua coppa ancora
l’ebbrezza avevo
attinto,
e nel furtivo lampo
dell’occhio tuo ridente,
quando ai piedi di Giacco
pregare mi vedevi,
ché la Musa mi fece della
Grecia suo figlio.
So perché laggiù il vulcano
si è spalancato…
ieri tu lo sfiorasti con
l’agile tuo piede,
e l’orizzonte di cenere di
colpo s’è oscurato.
Da quando un duca normanno i
tuoi dei
d’argilla infranse,
sempre sotto le fronde del
lauro di Virgilio,
l’esangue ortensia s’unisce
al mirto verde!
HORUS
Il dio Knepp tremando
scrollava l’universo:
Iside, la madre, allora dal
giaciglio si erse,
allo sposo brutale inviò un
gesto ostile
e l’ardore d’un tempo
scintillò nei suoi
occhi verdi.
“Guardatelo” lei disse “muore
il vecchio
perverso,
il ghiaccio del mondo intero
passò dalla sua
bocca
incatenate il piede storto,
spegnete l’occhio
losco,
è il dio dei vulcani e degli
inverni il re!”
“L’aquila è già passata,
m’invita il nuovo spirito
la veste di Cibele per lui ho
indossato…
è il figlio tanto amato di
Ermete e di Osiride!”
La dea era fuggita sulla
conca dorata,
il mare rifletteva la sua
immagine adorata
e scintillavano i cieli sotto
la sciarpa d’Iride.
ANTEROS
Tu domandi perché ho tanta
rabbia in cuore
e un’indomita testa sul collo
flessuoso:
è perché discendo dalla razza
d’Anteo,
che i dardi miei invio contro
il dio vincitore.
Sì, appartengo a coloro dal
Vendicatore
ispirati,
la fronte m’ha marcato col
suo labbro irritato,
sotto il pallore d’Abele
ohimè insanguinato,
e di Caino talvolta ho il
rossore implacato!
Geova! L’ultimo dal tuo genio
domato,
che dall’inferno profondo
gridava “Oh
tirannia!”
era l’avo mio Belo o Dagone
mio padre…
Tre volte mi hanno immerso
nell’acque del
Cocito,
e, mia madre Amalecita da
solo proteggendo,
ai suoi piedi risemino i
denti del drago antico.
DELFICA
Ultima Cumaei venit jam carminis aetas.
Dafne, conosci quella romanza
antica
ai piedi del sicomoro… o
sotto i lauri bianchi
sotto l’olivo, il mirto o il
salice piangente
la canzone d’amore che sempre
ricomincia?
Il Tempio riconosci dal
peristilio immenso,
e gli acidi limoni con
l’impronta dei tuoi denti
e la grotta funesta per gli
ospiti imprudenti
dove del vinto drago dorme
l’antica semenza?
Gli Dei ritorneranno, che
sempre tu rimpiangi!
Il tempo riporterà l’ordine
dei giorni antichi,
la terra ha trasalito al
profetico vento…
Frattanto la sibilla dal
latino sembiante
è ancora addormentata sotto
l’arco di
Costantino
e nulla ha disturbato il
portico severo.
ARTEMIDE
La Tredicesima torna… È
ancora la prima;
ed è sempre la Sola, – o è il
momento solo;
poiché Regina sei tu! La
prima o l’ultima?
E tu sei Re, il solo o ultimo
amante?…
Amate chi vi amò dalla culla
alla bara;
colei che sola amai
teneramente ancor mi ama;
è la Morte – o la Morta… O
delizia, o tormento!
La rosa che lei porta è la Malvarosa.
Santa napoletana dalle mani
incendiate,
rosa dal cuore violetto, di
Santa Gudula fiore:
la tua Croce trovasti nel
deserto dei cieli?
Cadete rose bianche! Voi i
nostri Dei
insultate,
bianchi fantasmi cadete, dal
vostro cielo in
fiamme:
–
La santa dell’abisso ai miei occhi è più santa!
TESTI
CONSULTATI:
Le
Figlie del fuoco – La Pandora –
Aurelia – Introduzione di Vincenzo Cerami. Traduzione di Renata Debenedetti –
Garzanti ed. 27 ottobre 1983.
Le
Chimere e altri sonetti. Traduzione
dal francese di Walter Nesti (fondatore e direttore della Rivista Pietra Serena
con cui ho collaborato per diversi anni). Prefazione di Pier Luigi Ligas
(docente di francese presso l’Università di Verona) – Tascabili Bonaccorso –
marzo 2005.
Elogio
della follia di Erasmo da Rotterdam a
cura di Nicola Petruzzellis – Mursia Editore 1966 Milano.
Firenze,
25 aprile 2022
Anna
Vincitorio
[1] Delle sue traduzioni italiane, tra le molte, ricordiamo Le figlie del fuoco trad. e pref. di Oreste Macrì – Modena 1942 e 1979 – Milano – Guanda e i sonetti Le chimere
[2] Riferimento all’enigma inciso sulla pietra di Bologna.
[3] Si trattava di Jenny Colon, sua donna realmente amata che morì il 5 giugno 1842.
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