lunedì 4 luglio 2022

MARIA RIZZI: "IL CANTO DELL'EFFIMERO"

 Maria Rizzi su “Canto dell’effimero” di Eugenia Serafini – Edizioni ARTECOM

 

Ho ricevuto un testo che equivale a un pacco - dono dall’amica Eugenia Serafini. Si tratta del “Canto dell’effimero” edito da ARTECOM. Il nostro rapporto è nato per caso e cresciuto a dismisura. Sono onorata di sfogliare quest’Opera prefata da Elio Pecora, tradotta in rumeno da George Popescu, e con postfazione del marito della Nostra, Nicolò Giuseppe Brancato. L’Autrice è stata per dieci anni docente presso l’Università della Calabria, all’Accademia di Belle Arti di Carrara e all’Accademia dell’illustrazione e della comunicazione visiva di Roma. Il volume è presentato in modo superbo da Elio Pecora, che nella chiusa asserisce: “L’epigrafe di Peter Handke, posta ad apertura del libro, dichiara: “La durata è il mio riscatto, mi lascia andare ed essere”. Dunque questo durare è fuori delle misure conclamate, fuori delle pretese e delle paure; e l’effimero, vacillante sul baratro, s’apre sul vuoto e respira”. Credo che non potessero esistere parole migliori per definire  un Poemetto, concepito anche graficamente, per dare volto a un termine che etimologicamente deriva dal greco - ephemeros - e significa ‘di un solo giorno’. Induce ad andare col pensiero alla rosa, alla farfalla, a ogni miracolo poetico del creato soggetto a un tempo transitorio, fuggevole. Eugenia Serafini ricorre ad accorgimenti che fanno tremare le fronde del cuore. L’effimero ripetuto più volte per intitolare le pagine, è messo in luce dall’espediente di sfumare alcuni versi; incontriamo anche termini scritti in grassetto, talvolta ingranditi, spesso cancellati: tutto riporta al concetto che ‘umana cosa picciol tempo dura’  - Giacomo Leopardi -. Eppure l’istinto mi spinge a rincorrere questo Canto, a rinvenire quanto può essere caro alla nostra Artista e agli uomini in genere ciò che esiste e presto scompare. Mi dico che, in fondo, non siamo fatti per restare. La Poetessa recita:  “effimero / mi fece sentire / leggera”e trasmette la sensazione che nulla sia più duraturo di un’esperienza provvisoria. Ella tende a ripetere nel suo viaggio d’amore e dolore attraverso le emozioni: “cercai leggerezza / nel vivere / nel muovermi e / agire” e mi sollecita a vedere questa apparente inconsistenza come un colore in moto, una contemplazione senza parole, una corrente che porta in un mondo diverso. Forse è appagante essere leggeri come rondini, non come piume. E cambia di colpo la musica del Cantico quando Eugenia Serafini scrive: “fu così aspro /il vivere /che fu meglio / il mOrire”. Un unicum il nerbo poetico presente in questo Poemetto che possiede un corpo e un’anima straordinari, originali, ricchi dell’estro creativo di un’Artista figurativa dal talento versatile, proteiforme. I fogli ‘aspri fanno da contraltare alla levità, ai passi dolci degli angeli, raccontano l’insostenibile pesantezza del vivere, i momenti di sconforto, le paure, i dubbi, ‘la ricerca di sopravvivenza’ - con il titolo cancellato -, le ondate di ricordi. La leggerezza, seppur scolorita, a stento leggibile, cuce gli strappi, ricorda che il passato è ricchezza e il futuro non si pensa, viene da solo. I territori della memoria giocano un ruolo importante nel viaggio dell’Artista e non potrebbe essere altrimenti. Dal pozzo dei ricordi distilliamo linfa vitale per affrontare l’oggi e la Nostra canta: “uscivano / gorghi e spirali / s’infrangevano / specchi lontani / sfocati da / anniluce d’infanzia / e / adolescente distrazione”. Le pagine rappresentano un continuum, sono legate tra loro in un unico Canto, e chiedo venia se non ricreo la stupenda atmosfera del testo. Il passato riaffiora con ‘i suoi appigli effimeri’ e, nel caso dell’adolescenza, è raro rammentarla come una volata verso l’esistenza; è un periodo nel quale l’esperienza si conquista a morsi. Non la si può definire soltanto una stagione del nostro tempo terreno, ma piuttosto una modalità ricorsiva dove i tratti dell’incertezza, l’ansia per il futuro, l’irruzione delle istanze pulsionali, il bisogno di rassicurazioni e di libertà, celebrano in una sola fase tutte le possibili espressioni in cui può cadenzarsi la vita. Elio Pecora attribuisce al Poemetto la definizione di ‘gioco tipografico’ e i versi che volano altrove, tornano sui passi iniziali, rendono più che verosimile quest’asserzione, anche se, nel mio piccolo, ho visto tra le pagine anche qualcosa di diverso, di profetico e magico. “conoscevo già / intuivo / inizio e fine / del gioco / supposto /…pure… / conoscevo il / nuovo inizio / ed il ritorno” - tre pagine -. Sembra di poter evincere che Eugenia Serafini sia stata consapevole di cose che si sanno e le prove hanno avuto solo il valore di conferma. Eppure sono certa che una donna e un’Artista della levatura della Nostra sia cosciente che l’abitudine rubi la meraviglia, il sapere sia ladro d’innocenza; il desiderio possa impedire la pace, troppe partenze carpiscano gli’arrivi e gli arrivi possano precludere i percorsi. Sono altrettanto certa che nel suo viaggio tra le emozioni ‘si cerchi’, ‘si interroghi’ sui tempi del lampo meraviglioso dello stupore, “in questi paesaggi / maremmani che / sgusciano via tra / campi / grano/biada e / colline inverdite al primo turgore di marzo”, legati all’empatia con madre - natura, e ai comportamenti rimasti allo stato inconscio, che impediscono la comprensione totale dei momenti, ma consentono lo stato di magico surplace. L’effimero è la culla di conoscenza, il riparo dai ‘varchi’ arditi dell’eros, e il rifugio dal passato che può ferire. Talvolta Ella preferisce ‘la non memoria’ e in molte pagine del Canto sceglie il ‘sentimento di fuga’ / che viaggia con lei” (questo verso è cassato come i successivi ) e invoca l’effimero di non travolgerla, “non così/non ora”. L’Autrice, acuta lettrice e ascoltatrice del viaggio dell’esistenza, si affanna nella sua melodia a declinare i tempi giusti: “ascolta / ora canteremo / effimeri / volti d’amore /virgole di desiderio / grumi dell’erOs / nel caldo ri// / chiamo d’agOsto”. E nel comporre il Poemetto lascia che lo sguardo di noi lettori colga la complicità tra segno (parola scritta) e suono (emissione vocale della stessa). Il significante, ovvero l’aspetto grafico o fonico della parola scritta diventa così importante da suggerire il significato. Si tratta di un gioco grafico che dà luogo al rapporto tra poesia e comunicazione visiva. Nulla di legato agli avanguardismi, nel caso di Eugenia Serafini credo che la sua disposizione delle lettere tenda a fondersi con l’arte che le è più cara, a realizzare una composizione figurativa, e le consenta di creare un alfabeto altamente espressivo, che non a caso sembra ispirarsi alle scritture orientali, e che è caratterizzato da incandescente libertà. “lascia / che salga / su lune d’argento / fra stelle rubini / volando su code/comete” Il termine ‘effimero’ è posto in basso, esige che l’occhio si posi su di esso, e nell’archeologia del Poemetto l’Autrice non pretende di esibire una ricerca di curiosità, ma di prescindere dalle regole mantenendo vivo, caldo, pulsante lo stile del lirismo. Vi è una pagina scritta dalla stessa Eugenia Serafini nella quale afferma che:“Canto dell’effimero è completo in se stesso: il verso si configura ormai come espressione grafica significante nella porzione d’infinito che è il foglio bianco, o altro: il rotolo di carta o cartone da me tanto amato in altre occasioni, l’istallazione”. La ricerca spazio/ segno evoca Gaston Bachelard, infatti gli elementi suggestivi del filoso francese contemporaneo ricordano l’importanza di una presa di coscienza spaziale in un’epoca in cui ogni tipo di coordinata si sta dissolvendo negli specchi virtuali della quotidianità. L’ultima parte di questo volume, e la dedica d’amore del marito Nicolò Giuseppe Brancato alla moglie. Descrive i luoghi dove l’Artista trascorre i vari periodi dell’anno: Castiglione della Garfagnana, bellissima zona, ricca di storia, in provincia di Lucca, Roma e Tolfa, il ridente luogo natale di Eugenia. Racconti corredati da foto e da descrizioni particolareggiate. Chiudo il volume, consapevole che i libri, certi libri, sono vascelli veloci che portano in terre lontane e vicinissime, e canto l’effimero come la carezza della sera di mia madre, le corse sulla battigia, il vagito di un figlio,. il sogno candido di una bolla di sapone, senza chiedermi del domani.

 

Maria Rizzi

 

 

2 commenti:

  1. Bellissima recensione, profonda, sensibile e colta. Grazie Maria Rizzi per questo tuo dono e grazie a Nazario PARDINI per averla ospitata. Molto caramente.
    Eugenia Serafini
    www.eugeniaserafini.org

    RispondiElimina
  2. Ricevo e inserisco: Cara Maria, grazie dal profondo del cuore a te e a Nazario per la vostra attenzione preziosa.
    Senza persone come voi, la poesia morirebbe soffocata dall'indifferenza delle grandi case editrici, dale lobbies, dalla troppo vasta produzione insignificante.
    Grazie ancora.
    Vi abbraccio con affetto e stima.
    Eugenia Serafini

    RispondiElimina