"Via Felice" di Angelo
Mancini (Manni Editore 2021)
Presentato l'8 luglio a Monterotondo in Sabina
Conosco Angelo
Mancini si può dire da sempre e credo di avere recensito tutte le sue opere, da
quando lo conobbi nei primi anni Ottanta. Una poetica, la sua, di ascendenze
neodadaiste e pop, dove prende campo
il disagio esistenziale provocato dalla massificazione imperante. Una sorta di
epicedio per il soffocamento dell'anima nell'attuale civiltà. E il poeta è un
mimo sconvolto che sbuca dalle quinte di un teatro deforme e stralunato, dai non sense della cultura postmoderna, con
una poesia anti-lirica, struggente e
beffarda, delirante e caricaturale, teatrale
ed intimistica, introversa ed estroversa nello stesso tempo. Un teatro
dell'assurdo, un reportage impietoso
e sarcastico della demenzialità e della vanità del mondo, dove tutto è
apparenza e finzione, virtualità, spettacolo, narcisismo, ostentazione.
Di contro, un
bisogno quasi infantile di autenticità e di semplicità, di verità e di silenzi
da opporre al veleno ipocrita e ciarliero del mondo. Via Felice è il nuovo lavoro di Angelo Mancini edito da Manni. Gli
ambienti descritti sono immediatamente riconoscibili come provinciali, ma occorre precisare che questa è una
"provincia" sui generis,
lacerata e tragica, seviziata dall’immensa piovra metropolitana circostante,
occupata ad ingoiare interi territori, cosparsi di turriti feudi e agresti
felicità. Una provincia in piena
trasformazione, con un occhio rivolto al passato ed un altro alla modernità.
Un’area metropolitana, per maggiore precisione, dove fluttuano tensioni a non
finire nell'eterno duello dell’apparire e dell’essere, nel rimpianto di perdute
identità.
Ma via Felice è uno zoccolo duro, una
presenza inestinguibile, uno scoglio in mare aperto che resiste all'assalto
delle onde e dei venti. Un'oasi nel deserto, un giardino segreto, un angolo di
insopprimibile umanità nell'oceano della cosiddetta società liquida dei tempi attuali. Un archetipo, in fondo, un luogo
dell'anima contro l'arida robotizzazione esistente. Un rione, un habitat, una dimensione umanissima, un
potentissimo richiamo dell'Essere negli anonimi quartieri del Nulla della
modernità. Siamo a Monterotondo, in terra sabina, ai bordi dell'Urbe, borgo
assalito dalla piovra metropolitana come ogni altro centro che circondi la
Capitale. Un substrato di profonda umanità messo a dura prova dall'uragano
omologante dei moderni paradisi artificiali.
Sulle antiche pietre
si spalmano i veleni del villaggio globale e l'apparire sovrasta di gran lunga l'essere, ma l'inconscio del poeta si ribella con un tuffo nelle
radici, dando vita ad un canto di riappropriazione struggente. Emblematica
l'immagine di copertina del libro, curata da Alessandro Cialli. Vi si vede un
uomo (il protagonista del poema, che immaginiamo possa essere il poeta stesso)
nell'atto di scavalcare una soglia che lo immette nell'antico borgo, a
significare la ricerca di innocenza e autenticità da cui questa poesia è
animata. Ciò che l'uomo cerca, entrando nella mitica via, è un nuovo connubio
con la vita, una ricomposizione del sogno con la realtà, della scrittura con il mondo, dell'anima con la strada.
Il poema, composto
di sessantatre stanze, si apre con i ricordi della prima infanzia di Angelo,
vissuta in Belgio: una piazza, una chiesa, una festa di carnevale, tamburi,
musiche allegre e malinconiche a un tempo, costumi, pupazzi, birra, patatine
fritte... e minatori che sbucano a sera dagli abissi, dove hanno perforato,
spezzato, stritolato "scogli / di antracite nera" durante la giornata.
Poi eccolo, il piccolo Angelo, in treno verso la Sabina, in compagnia del babbo
che stringe la sua manina: viaggio vissuto come una lacerazione dal poeta
bambino. Come un tradimento, come una fuga dall'Eden... Ed eccoci a
Monterotondo, patria degli avi paterni. Qui avviene un nuovo radicamento. Ed è
una coralità, un vivere insieme di uomini, cose e animali avviluppati in un
medesimo progetto di vita.
Lavoro, svaghi,
vino, osterie, ma soprattutto cucina. E odori nei vicoli, micidiali, primitivi:
"ero affascinato da quegli odori / (ma in verità da ogni odore) / e ne
godevo / mi ci perdevo / e li andavo scovando / dappertutto / istintivamente /
nascondevano / misteri / e profonda umanità / forse / la vera / religiosa /
essenza delle cose...". Il rito fagico è sacro per Angelo Mancini:
"densa polenta profumata sulla spianatoia / tegami di sugo versati /
salsicce guanciale spuntature di maiale"... e via di questo passo. Una
festa pagana che colora la vita, con un desiderio nell'anima di "restare a
tavola all'infinito", come fermi alle origini, ad una pienezza e purezza
di vita primordiali, da cui non ci si può, né ci si vuole separare:
"perché nonna perché dovrò uscire / infine / e per andare / per andare /
dove?...".
C'è da ridere e
piangere al ricordo di nonno Angelino. Mangiava in piedi, non potendosi sedere
per ovvi motivi logistici, divorando "quella montagna / di gnocchi /
ricoperta di carni sugose / dentro un'immensa insalatiera", o quei
"giganteschi supplì / che invadevano / come in un incubo / tutta la cucina
/ (chili di riso / e ore e ore / nonna Gina per prepararli)". "Grandi
/ antichi / mangiatori / ormai / fuori dal tempo". E poi "intere
giornate / in strada / a giocare a pallone / con mille compagni / ... / (e la
Roma sempre nel cuore)". Altri tempi. Tra l'io e il mondo non c'era
dissonanza: "quanto / stavo bene da solo / con quel curioso amico / (me
stesso)"; e "quanto / stavo bene in strada / con mille compagni / a
giocare a pallone".
Ed ecco gli anni
della giovinezza, gli anni del complesso musicale, vissuti con amici
indimenticabili: "solo / adesso / ne comprendo / appieno / l'autentico
senso / e l'irrecuperabile / felicità / che mi hanno / regalato". Tutto
ciò, mentre l'amore s'allontanava crudele e i suoi occhi non lo cercavano più,
bruciando ogni illusione. Da un lato dà e dall'altro toglie la vita, ma il
bilancio infine è deludente, purtroppo sempre negativo. La conclusione è amarissima: "non vedi / non senti /
dunque? / si respira / ormai / solo / egoismo / volgarità / indifferenza / l'aria
/ si fa / sempre / più fredda / e cala / pian piano / la notte / sul
mondo". E si chiede il poeta: "Cosa resterà / infine / di questo /
tragicomico / vivere / di questo nostro / misterioso / assurdo /
passaggio...?".
Nulla si salverà:
"devo capacitarmi / ormai / e ammettere / purtroppo / di essere / (un
uomo) / profondamente / malato / (dissociato) / e forse / (anche per questo) /
di essermi / completamente / irrimediabilmente / consacrato / alla poesia / (e
rifugiato) / nella sua / irrazionale / demenziale / visionarietà".
Un'autocritica, una confessione impietosa, segno incontestabile di una
macerazione, di una crescita interiore sudata e pianta. "La vita è un male
degno di essere vissuto" scriveva Fernando Pessoa (la citazione è riportata
dall'autore in esergo). Perché un male, chiediamoci? perché costituisce uno
strappo dall'Essere, una separazione dall'Uno: così ritiene a ragione il poeta,
sia pure inconsciamente. Ma è paradossalmente un male che fa bene, se durante
il viaggio la memoria delle origini resta viva ed immutata, lancinante e
fiammeggiante al centro dell'anima.
Con quella domanda metafisica, fissa e senza risposta, sia pure messa fra parentesi dall'autore: "(cosa mai cerco / altrove) / ?". Nessuno può rispondere con certezza, ma che il risultato sia una maggiore consapevolezza e maturità è fuori discussione. Il poeta dichiara infine che continuerà a coltivare illusioni, pur sapendo che tali sono e saranno per sempre. Il fatto è che nel fondo di ogni illusione si nasconde sempre un pizzico di verità, e ciò che qui è in ballo si chiama innocenza, autenticità, amore... Se consideriamo tutto questo illusorio, allora c'è decisamente qualcosa che non va nei nostri meccanismi psichici. Così, conclude Angelo (e noi con lui): "E allora... allora / ... / continuare a vivere ancora / a vivere ancora? / ... / si / ancora / e / ancora / fino / in fondo".
Franco Campegiani
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