Nazario
Pardini e il mistero della parola
di Francesco Casuscelli
LA MIA
ISOLA
Dopo un lungo viaggio è là che io vivo
la tanto sospirata verità.
Spiagge lucenti,
dune di mirti, cisti e di ginepri,
carezzati da mani trasparenti,
foci di fiumi puri e cristallini
dove si aggirano uomini cólti
di nudità di spirito con donne
amanti dell’amore. E sguardi e amplessi,
e gioia di coloro che giunsero alla meta.
Lì, accompagnano orizzonti diamantini
le melodie più belle del creato:
di Beethoven, Vivaldi, di Bellini,
di Mozart, Rossini, di Mascagni,
di Verdi… voglio dire; e di Puccini
il coro a bocca chiusa sopra l’acque
di un lago che lo vide meditare.
Ho respirato qui la verità
che hanno cercato sempre i pensatori
nei secoli dei secoli. In terra,
da mire contagiata di ricchezze,
da materialità senza confini,
da impulsi di potere senza freni,
si è sempre prolungata in vesti nuove
per allungare il tiro e allontanarsi
da realtà corrotte. Su quest’isola
le campagne rigurgitano fiori,
si estendono infinite assieme al cielo;
i voli non sanno della morte,
nemmeno la conoscono gli umani:
è sorella la morte; e dal bello
trae la sua linfa, prende nutrimento,
e nel bello finisce e si confonde.
Io sono qui. E a sera
sento il richiamo della mia certezza,
fuggo col cuore zeppo di quell’aria,
coll’anima immortale dei suoi venti,
coll’alito lucente del suo sole.
È questa la mia isola. Lontana
dai rumori di terra, dai frastuoni
che inondano le strade, dagli odori
che marciscono dentro, si rannicchia
in mezzo a un mare vasto che protegge
i suoi confini. Come ci arrivai?
Sopra una barca effimera e precaria
contro venti nemici che la spinsero
su scogli crudi e aguzzi. Mi aggrappai
ad un asse scampato al naufragio:
una tavola rósa dai salmastri.
Mi fu amico l’urlo tramontano
che la volle alle sponde verdeggianti
dell’isola del vero. Là trovai
da subito una quiete, libero dai tramagli
del mio lungo viaggio. Donavano i sentieri
il loro corso a intrichi rigogliosi
che mai vide interessi industriali.
Spiagge silenti e gravide di pesci
per morte naturale. E corsi d’acqua,
lussureggianti cime, cieli zeppi
di ali svolazzanti; solo suoni
di canti di ruscelli e onde di mare.
È questa la mia isola. Da là torno
per incontrare il figlio, la mia donna,
per sbrigare le solite incombenze…
Ma la sera, quando il sole riporta
colori e ricordanze, prendo il mare,
mi affido ad un delfino,
e via verso le spiagge solitarie
della mia verità. Melanconia,
sentimento, passione, memoriale,
natura fresca d’immagini procaci
mi fanno compagnia. Mi si ammucchiano
in un capanno al suono del silenzio,
fra i tremiti dei giunchi: là riposo
assieme ai miei pensieri, meditando
sulle vicende umane e sugli umani
che razzolano a terra. E non capisco,
da questo mio capanno, il loro fare,
il loro incespicare sulle pietre
che aguzzano i sentieri della vita.
L’ARATRO
Non gli è rimasto che il vomere. I legni,
rosicchiati dai topi e dalle tarme,
sono ormai consumati. È lì che adocchia
lo spiraglio di luce nella stalla
con la speranza che il vecchio padrone
lo tolga da quell’angolo nascosto;
gli rifaccia le membra e lo riporti
alla vita dei campi: “Che profumi
respiravo quando la mia lama
solcava la terra a primavera!
Ho sempre dentro l’anima l’afrore,
accompagnato dal canto dei merli,
e dalle serenate dei fringuelli.
Quando uscivo fuori a riposare,
i miei occhi allungavano lo sguardo
a un orizzonte vasto a dismisura.
Ora son qui che vivo di ricordi,
e mi fa male questa solitudine.
E se qualcuno viene ad annaspare
in questo luogo lasciato all’abbandono,
nemmeno mi rivolge la parola.
Sono un aratro stanco, malandato,
ma più delle ferite corporali
mi dolgono i risvolti della vita:
questa fine fra aggeggi logorati,
fra attrezzi arrugginiti dall’età.
Vorrei che qualcuno ricordasse
l’aratro che un giorno sorrideva
nel preparare il campo per le semine;
nel lucidare il vomere all’attrito
col solco affratellato con il sole.
Sono l’aratro. Anzi fui l’aratro.
Vorrei la mano calda di qualcuno.
Vorrei tanto il ventre di mia madre.”.
Scrivere di Nazario Pardini è un grande piacere, poiché la sua arte poetica abbraccia un arco temporale che parte dai classici fino a giungere ai nostri giorni con una freschezza espressiva rara e impregnata sia dalla viva trascendenza immaginifica sia della trascinante musicalità del verso. Ci troviamo sulla sua isola, l’isola di Leucade oggetto di una sua pluripremiata silloge “Alla volta di Leucade” che è divenuta anche il titolo di un seguitissimo blog letterario sul quale la poesia, l’arte di scrivere e l’umanità sono le protagoniste assolute. I versi della chiusa della poesia “Dallo scoglio di Lèucade” servono per entrare subito nel luogo amato, dove il poeta vive la sospirata verità, “E ti rivissi, vita,/con un sentire lieve e tanto amato/che in ogni fatto lieto o meno lieto,/ma scampato, vidi un superbo dono.” Il dono è la poesia ed è la poesia anche la verità, non esiste altra forma espressiva che possa interpretare i gesti dell’uomo, lo ha fatto nell’antichità e lo continua a fare oggi. Forse oggi è ancora più urgente, l’uomo è divenuto sempre più tecnologico ma se manca la poesia l’umanità soccombe alla tecnologia. La poesia è espressione di Humanitas se l’uomo si allontana per essere sempre più cibernetico allora non sentirà più nessun desiderio di ideali e di utopia. Ecco perché sentire e vivere le percezioni sensoriali di sguardi e amplessi linguistici divengono energia che rinvigorisce l’animo e il corpo. L’uomo è sensibile all’arte in ogni sua declinazione, infatti, nella poesia pardiniana le muse sono sempre in azione in particolare la musica con la musicalità dei versi richiamando le romanze di Puccini che si respirano nei luoghi tanto cari al poeta e allietano l’animo ed il cuore. I luoghi sono anche quelli metafisici che diventano oggetto del sogno, della visione olografica che danno una rilevanza narrativa e il poeta li descrive con attenzione scientifica e una animazione panica di grande suggestione, tanto da sentirsi attratti e pervasi dai colori e dai profumi che fanno da sfondo alla narrazione “Su quest’isola/le campagne rigurgitano fiori,/si estendono infinite assieme al cielo”. Anche la morte partecipa al banchetto delle muse, e si nutre dalla bellezza e si confonde nelle pieghe del tempo. “Io sono qui. E a sera” un settenario che interrompe la sequenza di endecasillabi con quel “Io sono qui” con un accento tonico che dichiara la totale immersione del vivere come protagonista in questo luogo che ricolma il suo cuore zeppo dei sentori poetici in fuga con l’immortalità dell’anima. Un luogo dove vive l’animo del poeta e dove incontra tanti altri visitatori con le stesse esigenze di evasione dalla realtà tossica della superficialità, del disfacimento linguistico e di valori verso cui degrada la nostra società. La mia isola non intende essere un’isola come luogo lontano ma come luogo prescelto d’incontro dove esplorare la molteplicità dell’io e dell’altro come afferma in una poesia magistrale il poeta inglese John Donne “Nessun uomo è un’isola/completo in se stesso;/ogni uomo è un pezzo del continente,/una parte del tutto.” Il continente poetico costituito dallo sviluppo del senso linguistico che narra l’esistenza e protende la creatività verso nuove piste e rimescola le mappe antiche che hanno disorientato sguardo e memoria e immerso gli umani in uno stato tra immaginazione e nostalgia. Là dove in ogni istante sono in gioco tutti i tempi e gli spazi del proprio e dell’altrui mondo; dove si è dentro e fuori dal tempo, in un eterno e mutevole viaggio di andata e ritorno tra infanzia e avvenire. Da questo luogo ritorna nel suo nido domestico atteso dal figlio e dalla sua donna ma è una parentesi perché quando il sole arrossa l’orizzonte, l’anima del poeta prende il mare ed è di nuovo in viaggio verso spiagge solitarie dove la parola è verità. In questi luoghi della memoria, della fantasia dove la parola e il linguaggio sono musica, luce, sapori nutrienti e ammalianti. L’uomo nella sua dimensione, nella sua isolitudine meditativa riscopre il suo inconscio, la sua espressività che coniuga i saperi, le leggi della natura, l’immensità della distesa equorea, la magnificenza delle stelle. Isolitudine quindi, come afferma Bufalino, come sensazione di sentirsi circondati e rassicurati dal mare e dall’altro di vivere in un mondo parallelo per ritornare in se stessi, o per rinvigorire i legami famigliari più stretti; e, per contrasto, può esaltare la bellezza di ciò che prima si dava per scontato: le conversazioni con gli amici, le letture, i viaggi metafisici. Difronte a tutto questo l’uomo si interroga sul perché sui sentieri della vita si trovano pietre d’inciampo incomprensibili che distolgono lo sguardo dal creato e l’uomo continua a tenere lo sguardo basso perdendosi la bellezza che lo sovrasta.
Il mistero della parola pardiniana nella poesia
L’aratro sgorga nel silenzio della carta, una pagina che si apre come la terra
che lo stilo solca e il gesto della scrizione diventa aratura del terreno
rinvenendo i reperti della memoria. Ecco che la parola acquista un significato
che sfidando l’oblio porta in luce i tesori nascosti nei sedimenti dell’anima
del poeta, per donarli alla corrosione del tempo. Ma nella poesia la parola è
un metallo prezioso che resiste alla corrosione e vince il rintocco dell’ora
dematerializzando lo spazio e il tempo. L’aratro diviene metafora dell’uomo che
vittima del progresso ha rivolto lo sguardo verso altre luci accantonando le
origini rurali e le ataviche fatiche dei campi. Ci troviamo in una trascendenza
dell’uomo nell’oggetto, un cuore che si trasforma in vomere e le braccia che
cercano appigli ai fili della memoria. Un canto poetico che ci restituisce il
TEMPO quello di un padre che affida alla terra il suo destino e quello della
famiglia, che vede nella figura curva sotto il sole il custode della sua vita.
Semi di rispetto e d’amore una benedizione divina che ripaga dal sudore. Gli
arnesi abbandonati riacquistano una vita emotiva, si fanno materia dei sogni in
cerca di un riscatto. Come l’uomo che avendo svolto il suo ruolo nella società
del produrre perde l’ossequio del mondo che lo circonda e quindi la scrittura
diviene denuncia. “Vorrei che qualcuno ricordasse/l’aratro che un giorno
sorrideva/nel preparare il campo per le semine;/nel lucidare il vomere
all’attrito/col solco affratellato con il sole”. Qui l’espressività dei
versi si innalza per tendere ad una curvatura del limite della parola che
congiunge il vomere e il solco, come la freccia e la ferita uniti nella
complementarità, quando la freccia si estrae la ferita si dissangua, nella
similitudine invece, il solco diviene fertile di creatività. Il tema della
precarietà del vivere che riprende il solco poetico di un altro poeta toscano
come Mario Luzi è ampiamente presente nella poetica pardiniana, lo ritroviamo
ad esempio nella poesia La Barca “Sono una barca che s’inarca al mare,/sono
un fuscello in balìa del vento/che cerca un porto dove rifugiare/le mie
malinconie. A volte ho visto/una pallida luce di conforto/a indirizzare la
prua. I remi stenti/ […]”. In questa poesia l’uomo si identifica con una barca
che si inarca sulle onde per far fronte alle difficoltà, nella poesia L’Aratro
invece si immedesima nell’oggetto abbandonato. Il messaggio che ci vuole
trasmettere Pardini è anche di carattere ecologico di guardare alla Terra e
all’ambiente con animo sensibile e con atti sostenibili per mantenere il suolo
fertile e avere nutrimento sano dai frutti del lavoro. Ma è anche il messaggio
della lotta dell’uomo nel fronteggiare le difficoltà della vita e di cercare
sempre di comunicare lo stato d’animo attraverso la parola per riuscire a
tramutare i disagi in condivisione e bellezza poetica esaltandone il canto
nostalgico.
Analisi poetica pubblicata nella rubrica Poesia e Poeti sulla rivista letteraria Il Convivio di Angelo Manitta, numero 87, pagine 19-20, ottobre-dicembre 2021.
Complimenti Francesco! Ci hai donato una disamina che solca il vasto mare della poetica del grande Vate e arriva all'orizzonte, ai punti meno conosciuti del suo versificare. Hai preso spunto da due liriche che amo tantissimo . "La mia isola" non può che essere Leucade, 'Spiagge lucenti,/dune di mirti, cisti e di ginepri,/carezzati da mani trasparenti,/foci di fiumi puri e cristallini/ dove si aggirano uomini cólti /di nudità di spirito con donne /amanti dell’amore. E sguardi e amplessi,/e gioia di coloro che giunsero alla meta." Credo che nessun altro abbia scelto un luogo simile per farne il suo blog..e tu sottolinei giustamente:che è divenuta anche uno stato mentale: " Là dove in ogni istante sono in gioco tutti i tempi e gli spazi del proprio e dell’altrui mondo; dove si è dentro e fuori dal tempo, in un eterno e mutevole viaggio di andata e ritorno tra infanzia e avvenire." . Citi Jhon Donne dando luce al concetto che che con "Ogni uomo è un'isola" intendeva esprimere un'allegoria importante, "“Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. Il nostro Maestro si sente esattamente così. Sei di un acume e di un'acribia nell'esegesi degli assunti pardiniani che ho avvertito l'incompiutezza di troppe mie analisi. Su "L'aratro" esponi la tua lettura e mi incanti: " Gli arnesi abbandonati riacquistano una vita emotiva, si fanno materia dei sogni in cerca di un riscatto. Come l’uomo che avendo svolto il suo ruolo nella società del produrre perde l’ossequio del mondo che lo circonda e quindi la scrittura diviene denuncia.". L’aratro è uno dei più antichi strumenti dell’uomo, utilizzato nel corso dei millenni per dissodare e tracciare solchi nel terreno, permettendo così di preparare le condizioni ideali per una nuova lavorazione o semina.... quanto può sentirsi abbandonato nell'era moderna e fungere da elemento di denuncia? Grazie per questa pagina che rende onore a un Poeta immenso e ci induce a profonde riflessioni. Abbraccio te e il nostro Condottiero con immensi affetto e ammirazione!
RispondiElimina