venerdì 7 dicembre 2012

Marisa Cecchetti su "Alla volta di Leucade"

Nazario Pardini, Alla volta di Leucade

 

Mauro Baroni editore, 1999
poesia
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Interessante scoperta quella della silloge di Nazario Pardini, Alla volta di Leucade. La formazione di Pardini è presente nei suoi versi -un ritmo regolare e musicale prevalentemente di endecasillabi- dove i classici, dai Greci fino ai nostri autori più importanti, offrono elementi di interpretazione della vita, o vengono recuperati per analogia o per contrapposizione.
La figura di Ulisse si staglia sulle altre, nella sua incessante ricerca, in un ritorno al passato che “non solo amore/ significa ma voglie e nostalgie/che trovano le vie le più nascoste/ e avanti a noi si levano. La ciurma/è lì che attende”. Pronto a tutto per “tornare nuovi. O superbi spegnerci per via”. Ma a questo ardore giovanile si affianca una nuova è più profonda consapevolezza che riporta verso casa: “Quello che scriverò, miei cari amici/ è il poema di Ulisse al suo ritorno/ o una canzone di un piovoso giorno/d’autunno”.
L’autunno è infatti l’elemento trasversale della raccolta, carico di colori, di odori muschiati, di suoni. Una stagione prediletta in cui Pardini si rispecchia: “E’ questa l’ora/ in cui tiriamo somme e meditiamo/sulla vita passata”. Allora il passato emerge con tutta la sua forza, fino a recuperare i giochi dell’infanzia lungo il Serchio e nei canneti, le stanze modeste e dignitose e le premure della madre, ma anche la “canzone di una giovane donna che mi penetra/ a quest’ora del giorno”. Settembre è una stagione della vita, che regala un’illusione di tarda primavera, quando, nonostante l’arco di tempo sia sempre più breve, “s’indora la foglia e si arricchiscono/ le vene color sangue, che la vita/si fa tanto preziosa da sforare/pepite d’oro prima di finire”. Allora i sogni del ragazzino che era “sempre primo/colla bici coperta di fanghiglia/ e i gancetti alle balze”sembrano volare più in alto: “Che lanciavamo sassi ti ricordi?...E pensare, ricordi, che riuscivo/ a silurare il cielo colle pietre/convinto di bucare anche le nubi”.
La malinconia è trasversale insieme allo strisciare silenzioso del termine della vita. E insieme un’ansia di afferrare “quel senso di un eterno che ci sfugge”, nel mistero che oppone eterno e finito. Tributi a Dante, Foscolo, Leopardi, Montale e i poeti liguri sono costanti, ma nei cicli eterni della natura che il poeta osserva e ascolta nella sua campagna, torna la forza di Lucrezio nascosta nelle cose.
Il Serchio amico, con i canneti e le cannelle, con i muggini o le tinche sfuggevoli, le penombre e l’odore di marina che arriva nel vento dalla foce, rimane simbolo di giovinezza e audacia, ma anche lo sfondo di un quadro che si continua dipingere fino all’ultimo giorno, simbolo del tempo che scorre: “Il Serchio a quanto pare/porta settembre sopra il lingueggiare/di tutte le mie storie”.
Pardini avvicina il registro aulico al linguaggio comune di carattere gergale, con un contrasto che dà un trasalimento lieve al lettore, e lascia come una sensazione di luce - ombra. Accanto a “frale, pelago, ferale, adusto, spiro, onusto, murmure” compaiono infatti “butti, buiore, scancìo, steccolito, sbilenchi”, che evocano il parlato del paese, quello che affiora all’improvviso in chi ho vissuto una parte della sua vita a contatto con la cultura contadina, che viene in aiuto quando nessun altro significante può avere la stessa forza e lo stesso colore.
La ricerca del senso del percorso, a consolazione della fragilità umana e della breve durata di ogni vita terrena, sta nel foscoliano valore della poesia che rende eterni, che compare in Da Saffo a Anacreonte: “Moriranno gli eroi, le bellezze/di cortigiane effimere e procaci,/ma un cantico se eccelso volerà/oltre gli spazi frali degli umani”.

Marisa Cecchetti

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