domenica 12 ottobre 2014

VITTORIO LOCCHI: "LA SAGRA DI SANTA GORIZIA"









Nacque a Figline Valdarno (Firenze) nel 1889 e morì nel mare Egeo, per il siluramento della nave sulla quale era imbarcato col suo reggimento, nel 1917. Aveva pubblicato nel 1914 un primo volume di versi,  Le canzoni di Giacchio, fervidi di vita gioiosa, anche se venati qua e là di melanconie crepuscolari. Ma la sua fama di poeta è legata al poemetto: La Sagra di Santa Gorizia, che celebrò uno degli episodi più sanguinosi e gloriosi della Grande Guerra e che fu pubblicato soltanto dopo la sua morte. Altre opere postume sono: Il Testamento, e I sonetti della melanconia nei quali il poeta, con una grande profondità, ascende dalle riflessioni soggettive, alla visione dei problemi e degli affanni che toccano tutta l’umanità.   



La Sagra di Santa Gorizia 


Era tutto un arcobaleno
la cupola d'aria del Carso.
Brillavano le petraie
come ossami calcinati;
lontano l'Alpi Giulie
parevano domi incantanti.
Tutti i monti più alti
si levavano il mantello bianco
e si scaldavano al sole,
mentre il vento co' i semi
passava per seminare.
Laggiù, nel piano, distante,
bianco e lucente il mare
era come una lancia
caduta a un lanciere gigante,
come ci son nelle fiabe.
E se il Calvario
non fioriva, se non fioriva
il Carso, sempre in tormento
sotto la furia dei colpi,
ci fiorivano tutti i cuori
seminati dalla speranza.
Si diceva: « Si va:
questa volta si va davvero!
Salteremo l'Isonzo
come caprioli;
chi ci terrà
quando sarà l'ora?
Tutti vogliamo esser primi
a baciare il manto celeste
di Santa Gorizia...

Chi dette il segnale?
Tutti i settori tacevano...
ed ecco suonare lo stormo.
Cominciarono le bombarde
con abbai, con rugli, con schianti.
Sbucavano dappertutto
coll'ali sui torsi pesanti;
traballavano in aria,
e poi giù, strepitando,
a divorar le trincee;
a stritolare i sassi,
a fondere i reticolati.
Uomini e melma,
ferri e pietre,
tutto tritavano, urlando,
tutto rimescolavano,
sfrangendo e pestando
come dentro le madie
gigantesche delle doline
impastassero il pane
della vittoria
per la fame del fante.
E il fante aveva fame:
fame di terra del Carso
più buona della pagnotta,
impastata di sangue,
cotta dalle granate,
benedetta dai fratelli
caduti colla bocca avanti
per baciarla morendo.

Notte del 7 agosto
chi ti dimenticherà?
Che numero aveva il reggimento
fra cui passai nella notte
balenante, lungo la strada
bianca di Gorizia?
Tutti cantavano, i fanti,
stesi lungo i due cigli,
come ragazzi presi
da un'indicibile gioia.
Passò uno squadrone
al trotto, colle lance basse
basse, e tutti tra risa
e grida gli cantarono,
facendogli ala,
colle mani per trombe,
la fanfara,
come matti ragazzi
che uscissero da scuola.

E venne l'ordine di avanzare.
L'ombre nere si levarono
dai lati della strada,
i lampi illuminarono
la selva dei fucili;
e il reggimento si sparse
pei campi come un volo
d'uccelli
verso l'aurora.




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