Il ragazzo
che io fui,
di Sergio Zavoli, Mondadori, 2011
di Ninnj
DiStefano Busà
Un viaggio lungo la vita, quello di Sergio Zavoli,
che nel narrare la sua avventura personale ed esistenziale coglie a 360° tutto
il panorama attuale della nostra epoca: ribelle, fatua, dedita all’utile,
all’interesse, contraddittoria, votata all’automazione visionaria di un vivere ai
margini della vita stessa, non più all’interno, non da protagonisti, ma da
controfigure di noi stessi. Il nostro periodo storico riflette molte mancanze,
dà segnali di uno scenario disabitato dalle coscienze, dalle emozioni, dai
sussulti intimi. Tutto è dilacerato e mercificato, ustionato, reso
inagibile da una sorta di ridimensionamento frustrante, passivo, azionato da
conflitti e da contraddizioni ineludibili, che spesso cancellano ogni traccia
di umanità, di intelligenza e di bellezza. Il mondo è in subbuglio, ma è un disorientamento,
uno smarrimento da perdita di contatti reali, da amnesia, da abuso di stravaganze.
Il tempo dell’informatica,
dei canali satellitari, dell’usa e getta,
del superfluo, si è rivelato un “mostro” raccapricciante che ingoia i suoi
cultori. Camuffato da necessità vi è il “nulla”. La vita non
è più irrorata da bellezza, da verità, dal sogno, ma è azionata da una sorta di
idrovora che disattiva ogni ragione di “normalità”
intesa come raziocinante. Tutto è eccesso, esaltazione dell’ego che dà e, in contemporanea, nega
ogni sorta di bene. “Una contraddizione in termini”, quasi letale, ha invaso
le vie della ns. spiritualità, le condizioni morali più qualitative dell’uomo,
quelle che portano all’intelletto e al cuore. Così, l’amarcord di Sergio Zavoli è una riflessione
mirata alla comparazione tra due mondi opposti che appaiono due -epoche- , ma invece si riferiscono a “ieri”.
La vita quotidiana, gli stili, le consuetudini, i sentimenti – tutti annullati
– nel breve volgere di una generazione, la “sua”: uno scempio di ciò che eravamo
e quel che “siamo”. Paradossale la distanza tra i due “modus”, perché
risente di una nostalgia contenuta che riprende l’assenza quasi totale
dell’emozione.
Un primo attacco ci viene dal razionalismo “ante litteram” del secolo scorso nel
quale i valori venivano messi da parte, per dar spazio alla concezione nietzschiana
del super-io. Una forte tendenza a
porre in evidenza l’ego al posto del plurale “noi”. “Il ragazzo
che io fui” è un’opera che dovrebbe essere adottata nelle scuole. Ha il tono didattico, non accademico né sentenziale,
senza indottrinamento, scritta sul filo della continuità logica, si avverte
il senso dell’umanità ferita e dolorante, la quale può mutare col
“ravvedimento” il destino delle cose e del mondo. Pensare con l’obiettivo dell”utile” è stato il modo
meno ontologico e più irresponsabile di vivere. Perciò, Zavoli vi affonda a piene mani e ci dà il
responso del suo parere, che nel riflettere il senso del disordine morale e
sociale ai quali siamo giunti, ci indica una via di riscatto, un ripensamento,
forse una salvezza “possibile”.
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