lunedì 4 aprile 2016

VITO LOLLI: "L'INIZIO CHE FU LA FINE"



Vito Lolli collaboratore di Lèucade





L'inizio che fu la fine 

Con la coscienza dell'oblìo dell'essere si conclude il ciclo del pensiero occidentale: abbiamo cioè scoperto di aver perduto ciò che faceva di noi degli esseri umani e di ritrovarci ad essere ciò che di volta in volta diventiamo, fino all’odierna “liquidità” senza più approdi stabili di Bauman. Questa sentenza coinvolge in un unico percorso, come scintille dello stesso olocausto, gli ultimi poeti e gli ultimi filosofi della nostra parte di mondo. Così ci siamo rappresentati i circa 2500 anni della nostra storia di pensiero e di vita, e mentre crediamo di attendere il sorgere di una nuova stella (poetica, nel caso del popolo della Lèucade pardiniana..) dimentichiamo di avere spento la memoria di quelle che avevamo.                                 
Ma ora si deve aggiungere un'altra necessaria considerazione, che accresce lo spessore della domanda: non fu forse proprio l'insorgenza dell'”essere” come parola-che-dice a determinare, pur senza rendersene conto, l’inizio del percorso di quell'oblìo? Qualche sapiente si chiese se la mistica fosse destinata al magico isolamento sprezzante della condizione umana o se, invece, potesse assurgere al ruolo guida del sociale; e il tentativo di politicizzazione che rispondeva al bisogno di fare dell'ineffabile principio cosmico il fondamento etico della pòlis, non è esso stesso la chiave di tale oblìo?                         Ma se "essere" è anch'esso una di queste parole prime, non dovremmo arrivare a "superare" perfino Heidegger, ultimo filosofo perché capace di intuire ciò che accadde all'inizio della filosofia, quando afferma l'oblìo come "dimenticanza della verità dell'essere nella sua equivocazione all'ente"? Il parlare della poesia non usa forse le modificazioni dell’essere per tessere il suo dire?                          
Questo superamento rimanda la questione al momento in cui la silenziosa semantica dell'immagine mitica, col suo potere evocativo-invocativo del Profondo, venne fatta parola-che-dice. Allora l’oblìo da superare è quello del silenzio del Mito e non quello dell’essere, che fa già parte dell’oblìo. E lo stesso Heidegger indica la poesia capace di accogliere Hoelderlin come luogo di tale superamento.  Ma voi, cari logonauti, riuscite a pensare una poetica non onto-logica perché post onto-logica? Questo presuppone un sentimento della realtà in cui non è più il limite percettivo a decidere il senso delle cose (è questo, è quello, così o cosà..), in cui le apparenze sono determinate proprio dal riflesso mentale e sensoriale di una conformazione neurale: la poesia è sempre metanoia, è sempre post e neo linguistica, se no è altro. Usa le parole, ma le rimanda oltre sé stesse.                                 
Solo la poesia, animata dall’Immagine mitica, può evocare-invocare la verità senza nominarla, perché nominarla è perderla; la parola-che-dice, in cui si vide il “trionfo” della ragione astrattiva, rese astratta, relegandola nel dimenticatoio, l’esperienza rimemorativa profonda di una “verità” messa in opera dall’interiorizzazione dell’immagine mitica, trasmutativa dell’interiore in una coscienza superiore, ed efficace per questo anche al livello politico.                                                        L’operazione con cui si credette di politicizzare la verità, la sua verbalizzazione concettuale, fu probabilmente quella con cui se ne alienò l’esperienza e il potenziale reale. L'essere stesso, e l'ontologia che ne derivò, è già frutto della ragione errabonda. Le stesse celebri "parole prime", di cui l'"essere" fa parte, frutto del tentativo di politicizzazione della sapienza, sono già l'incipit della razionalizzazione obliante del mistero e del suo manifestarsi, il mito.                                                                   E qui trovo il momento per una considerazione da rivolgere a Sandro Angelucci, relativa al passo finale del suo sentito commento al mio precedente articolo: vedi, Sandro caro, c’è e come un problema di sterilità della parola – e il nichilismo di Gorgia già riflette questa condizione. In questo mi sento costretto a non perdere di vista l’ammonimento di Gesù di Nazareth sull’abisso che separa “parola vivente” e “lettera morta”. Se si perde il contatto interiore con il mistero che genera e vivifica la parola, è qui che non sappiamo più cosa diciamo e facciamo. Il caos parolaio nel quale è annegata da tempo la nostra “pubblicistica” non ci avvisa di questo errare nel nulla? Solo i poeti e i profeti, abitati dal dio, possono creare parole vere e vive; ma quando accade questo? Come possiamo accorgercene?                                                                            
Quando un'operazione di recupero rinnovante si impone necessaria, una componente fondamentale è il togliere di mezzo i luoghi comuni, pantano di ristagno dell'acqua corrente. Forse uno di quelli più perpetuati è quello che attribuisce ufficialmente a Talete di Mileto l'inizio della filosofia. L’affermazione è di Aristotele, con l’aggiunta che secondo Talete il principio delle cose è l’acqua. Da sempre si è tentato di capire perché tale sentenza dovesse dare inizio alla filosofia, ma oggi l’ipotesi più sostenuta è che essa non appartenga a Talete ma sia un’interpretazione fisicista di Aristotele.  Cadrebbe pure la paternità, perché la prospettiva dei princìpi fisico-materiali venne estesa anche ai successori del milesio, appunto i “fisici”. La stessa dottrina “ilozoista” sembra rifarsi ad una lettura hegeliana che sovrappose il parametro dialettico per inquadrarvi in un sistema il periodo del pensiero greco, perché non ci sono fonti che attribuiscono chiaramente a Talete tale argomentazione. Si è giunti così ad una radicale contestazione di merito sull’etichetta materialista che Aristotele pose sull’epoca sapienziale, perché i sapienti, tanto i mitici più antichi quanto i “presocratici” che crearono le parole prime,  non erano “fisici” se non in riferimento all’interrogativo sulla Physis. Si indaga sulla possibile lettura di un rapporto di Talete con la figura di Apollo Delfinio, dio marino venerato a Mileto sin da epoca arcaica, e sulla possibile derivazione dall’Egitto dell’identificazione tra Osiride e l’elemento acqueo.
Non è possibile accertare, a quanto pare, le dottrine di Talete o l’articolazione tra i suoi pensieri: la documentazione è stravagante, inconciliabile, fantastica, e questa contraddittorietà delle fonti biografiche testimonia,anche in questo caso, un personaggio inafferrabile. Come Socrate, anche su di lui non ci sono dati certi, perché il fascino della loro personalità era così potente da dissolvere la cronaca e far perdere di vista ciò che essi nascondevano nelle loro parole. La conoscenza, che stava loro più a cuore, rimase inavvertita, sopraffatta dalla magia della loro presenza. Questa, per Talete, è ancora un’ipotesi, ma che egli non abbia lasciato opera alcuna sembrerebbe invece, oltre che lo stato dell’arte, un fatto probabile.                          
Qualche sua dottrina può però essere accertata, anche se in modo molto generale. Prima di tutto, l’affermazione che tutte le cose sono piene di dèi. Anche questa testimonianza è di Aristotele, ma appare più attendibile di quella dell’acqua: se uno dice che la materialità dell’acqua è principio di tutte le cose, come può poi dire che queste sono tutte piene di dèi? Tale dottrina compare anche in un passo di Platone, e Aristotele la cita come esempio della tesi che l’anima sia diffusa nell’universo: questo significa che, qui, anima e divinità sono termini equivalenti. Più fonti attribuiscono questa dottrina a Talete: la prima formulazione dell’immortalità delle anime è l’affermazione che anima e divinità sono la stessa cosa. Quale esperienza dell’interiore porta a tale espressione? Ricordiamo che in punto di morte Henri Bergson bisbigliò che “… L’universo è una macchina che produce degli dèi …”                    
La portata di tale argomento è grandiosa, e l’influsso su Eraclito ed Empedocle è chiaro: l’esaltazione dell’interiore, la vibrazione e il pathos del nascosto, muovono da questo sfondo, sfondo che si identifica con il cuore dell’induismo, l’identità divina di atman (l’anima umana) e brahman (l’anima cosmica).    
Nell’immagine del magnete, fisso ed immobile all’apparenza esterna ma con un’anima nascosta, il misticismo orfico che esplodeva nella poesia e nei miti multicolori subisce, in Talete, una variazione: si ritrae in un’interiorità senza volto, staccandosi dalle raffigurazioni sensibili. Perché?              Questo richiama direttamente Ferecide, che concentra il mito in una sola immagine culminante, istantanea, e che, più che altro, porta il discorso sull’anima fuori dalla sfera misterica, ma non si può dimostrare un influsso di Ferecide su Talete o viceversa. Già si manifesta, comunque, la rottura completa: l’istante di Ferecide era pur sempre un’immagine mitica, mentre l’enunciato di Talete è una formula che non può dare luogo al processo di interiorizzazione dinamica, proprio del mito.  Resta l’interrogativo di un’interpretazione che potrebbe aver tradotto il pensiero di Talete in una formula tipica di un tempo successivo, ma che forse Talete stesso potrebbe non aver usato, anche se è proprio questa, la “conquista razionale” del lògos astratto, la sua fama di “iniziatore” della filosofia. Ma anche questa è solo un’ipotesi.   
La tradizione attribuisce a Talete strane prove divinatorie e questo ne fa un personaggio apollineo. Ma Apollo, ben al di là di quello Delfinio, manifesta per la prima volta in Talete un passaggio decisivo: la conquista razionale, l’elaborazione del lògos astratto. Forse non per quanto riguarda le scoperte astronomiche un po’ da favola a lui attribuite – che presupporrebbero comunque l’utilizzo di osservazioni egizie e babilonesi – ma per le stupefacenti intuizioni e dimostrazioni geometriche che fonti attendibili gli riconoscono. Fu qualcosa di nuovo nella scena del mondo: la freccia di Apollo ha colpito al di là, cominciando l’enigmatico allontanamento dalla visione dell’immagine. Anche qui si può pensare a Ferecide, visto che il suo discepolo Pitagora coglierà risultati del lògos simili nelle lontane citta occidentali.            
Certo, queste forme astratte di un’anima senza passioni né colori sembrano aprire lo scenario di un distacco interiore, cioè un’anima pensata e non esperita viene dichiarata immortale e identificata col divino. Ma è così? Anche qui forse, e ovviamente senza testimonianza, c’è un’allusione fredda e distaccata al rituale misterico orfico-eleusino?
E’ forse questo modo di mantenere il segreto su ciò che non poteva essere divulgato ciò che consideriamo come il misticismo apollineo di Talete, da cui sorge il lògos? Non è forse qui, dunque, che si coglie l’enigma del lògos come silenzio sull’essenziale, la freccia di Apollo che attraverso la parola ci allontana dalla visione,  occultandola?                                        L’anima ha un’origine dionisiaca, perché la poesia misterica dice “… non appena l’anima abbandona la luce del sole…”, ma ha anche un’origine apollinea, perché Aristea, sciamano legato ad Apollo Iperboreo, “… asseriva che la sua anima, abbandonando il corpo e volando via direttamente verso l’etere, attraversava la terra…”. Il misticismo apollineo di Talete, che origina il lògos, ha anche un’ascendenza dionisiaca, e forse è proprio l’acqua a simboleggiare l’unione dei due dèi: Apollo Delfinio Didimeo, venerato dai marinai di Mileto, e l’acqueo Dioniso-Osiride. E se l’acqua di Talete è un simbolo, allora ci troviamo di fronte di nuovo un sapiente che vuole restituire, cioè re-istituire (può essere questa, Franco, la valenza del recuperare-rinnovare), il mito fondamentale di Dioniso-Apollo-Ade, e il relativo culto misterico fatto di esperienza reale dell’anima. Il silenzio assoluto e la segretezza che regnavano intorno ad esso possono spiegare anche qui il carattere criptico, allusivo di un simbolo e la fredda cristallizzazione del mito nel lògos che, dicendo, nasconde.                                          
Il sottotitolo del nietzscheano “Ecce homo”, “Come si diventa ciò che si è”, può essere davvero l’allusione diretta ad una questione che fu, per il filosofo tedesco come per chiunque, il calvario di un peso impossibile da scrollare. Se siamo diventati l’oblìo dell’essere e l’oblìo di tale oblìo, c’è una fine da scavalcare nella rimemorazione dell’inizio, oltre e prima dell’inizio della fine. E questo è uno stato interiore. Questa uscita dal “sapere”, Carmelo Consoli, è l’urgenza della Bellezza.                                    Sì, Maria Rizzi, bisogna interrare semi di sapienza, ma ti rimando a Gesù e alla sua immagine della semina.   Mi rivolgo anche a te, Giusy Frisina, proponendoti Gesù , “adultero” nel senso nascosto di “ad-ulterior”, come il più possente evento dionisiaco-apollineo-adoneo che l’umanità abbia sperimentato. Qual è la “terra” giusta per la semina della sapienza?                    Ho proposto la possibilità di un luogo comune da superare proprio lì dove abbiamo collocato l’inizio della storia del nostro pensiero; invito tutti a divertirci insieme, cercandone degli altri per smontare il castello di sabbia del nostro sapere. Chi vuole giocare?   

     

11 commenti:

  1. C'è stato un equivoco. Il caro Nazario ha pubblicato nello stesso giorno (4 aprile) il mio articolo intitolato "La scuola del Due" e questo nuovo articolo di Vito ("L'inizio che fu la fine"), presentando il mio come risposta alle nuove argomentazioni dell'amico, che io in realtà non conoscevo. Il mio intento era di rispondere al precedente articolo di Vito ("Il Sapiente di poche parole") pubblicato nel blog l'11 marzo scorso, mentre il nuovo studio meriterebbe altri approfondimenti. In senso lato, tuttavia, il pensiero che esprimo ne "La scuola del Due" può anche valere come risposta alle tesi sostenute nel presente studio, come sviluppo di quello straordinario scavo antropologico in cui l'amico è coerentemente impegnato da tempo. In parte io condivido la sua ricerca. La nostra civiltà è giunta al capolinea e occorre ripercorrere le tappe del percorso svolto, per tentare di individuare la radice e l'origine dei nostri esiziali errori. "L'inizio che fu la fine" è un titolo che riassume benissimo tali intenzioni. L'inizio di cui si parla è l'avvento del razionalismo che ci ha portato dove oggi siamo giunti, mentre la fine è la morte della cultura mitico-sapienziale degli antichi. In quello strappo s'annida l'errore, che è poi l'errore commesso da sempre dalla nobile stirpe di Adamo, bene al di là degli orizzonti greci e occidentali della cultura. Il razionalismo è quella tendenza della mente umana a schematizzare, a semplificare, a ridurre ciò che è complesso ad un solo elemento, ad un Principio che in realtà non può essere pensato al di fuori di uno Svolgimento (come è vero anche il contrario). L'uno occorre all'altro, ed è l'orizzonte dell'armonia dei contrari, unico vero habitat del Mito e della Sapienza universali. Il percorso razionalistico della cultura occidentale non ha fatto altro che infrangere quell'armonia, separando i contrari tra di loro e ponendoli l'uno contro l'altro armati. L'ha fatto in tantissimi modi, ivi compreso, a mio parere, quello che inquina le acque stesse del Mito e della Sapienza, uccidendo la sana Ragione, che invece vorrebbe lasciarsi abbracciare dal Mistero. Il razionalismo è il vero nemico della Ragione, così come è il vero nemico del Mistero. Questo i Sapienti d'ogni luogo e tempo, e con essi gli analfabeti plurilaureati alla scuola della vita, l'hanno sempre saputo, e continueranno a saperlo, a dispetto di ogni monismo o dogmatismo culturale.
    Franco Campegiani

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    1. Tutto questo collima in toto, Franco. Osiride e Dioniso, come Gesù, sono stati fatti a pezzi. Nel nostro piccolo, cerchiamo di contribuire a riunificarli..
      Vito

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    2. Tornare all'Unità del Due significa tornare alla Dualità dell'Uno. Altrimenti incolleremo i pezzi senza riuscire a dar loro la vita.
      Franco

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  2. Caro Vito,
    non mi tiro mai indietro quando si tratta di giocare, ma occorre ricordare che il gioco è una cosa seria, molto seria; non solo, ma bisogna essere totalmente puri per giocare nel migliore dei modi. Converrai che nessuno meglio dei bambini sa farlo. E allora? Cosa ci dice questo? A mio parere, che i castelli di sabbia sono da distruggere quando a costruirli sono gli architetti e gli ingegneri della Sapienza, cioè coloro che sapienti davvero non lo sono mai stati. Di manieri, costruiti dalle mani dei bambini e - ribadisco - dei "pazàni", c'è assoluto, inderogabile bisogno.
    Hai citato Gesù di Nazareth "sull’abisso che separa “parola vivente” e “lettera morta” - ed è quanto mai calzante il riferimento - ma non dimenticare che quella stessa Persona disse a tutti (anche ai sapienti): "lasciate che i bambini vengano a me".
    Grazie, Vito, per il costruttivo dialogo cui, mi piacerebbe,
    anche altri dessero il loro contributo,

    Sandro Angelucci

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    1. Infatti, caro Sandro, non diciamo che la mente dei bambini è "mitica" perché non sono ancora "adulti"? Bene, dimmi se non sei d'accordo (e lo chiedo pure a te, Franco)sull'urgenza di leggere il termine "adulto" nel senso di una fuoriuscita obliante, cioè della PERDITA di qualcosa di fondamentale, di una CADUTA? Allora questo reintegro è la chiave di ogni psicoterapia e di ogni autentico percorso spirituale, no? Ricordi che l'Impronunciabile fu da Eraclito immaginato come "... IL REGNO DI UN FANCIULLO CHE GIOCA..."? Hai ragione in pieno: la purezza, lo stato infantile della creatività, è originario. C'è, e si perde dopo. Non si ritrova, non si ricostruisce con percorsi ragionati, progettati, di "terapia"..
      Vito

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    2. Ti dico la mia. Smarrirsi non significa divenire adulti. Adulto è chi cresce nelle responsabilità sociali rimanendo integro. Può accadere di perdersi, ma lo stampo originario è in noi e solo a noi è dato di ritrovarlo. La cultura non c'entra.
      Franco

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    3. Caro Vito: sono d'accordo sul fatto che il crescere, il diventare adulti corrisponda ad un allontanamento dallo stato originario dell'innocenza ma non parlerei di "caduta" o, peggio, di "fuoriuscita obliante".
      Tutti dimentichiamo di giocare ma il desiderio di farlo - questo è ciò che realmente conta - resta sempre lo stesso: più si riesce a spalare (dalle sovrastrutture) e più s'intravede il fondo, la bellezza, la luce.
      Ma spalare non significa ragionare, progettare (come giustamente affermi); spalare significa vivere il mistero: il nostro e quello della vita. Non serve altro per morire senza rimpianti.

      Sandro

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  3. Miei cari, vi leggo estasiata e prendo atto che il discorso assume dimensioni ampie e complesse. Vito Lolli cita Bergson, a me particolarmente caro, e io mi permetto di aggiungere al suo concetto il fulcro della filosofia dell'artista parigino: il processo attraverso il quale si arriva a comprendere in modo immediato una verità ha sempre distinto e opposto l'intuizione al ragionamento discorsivo. In quanto subitanea illuminazione dello spirito l'intuizione mantiene una forte connotazione misteriosa, e si può, quindi, individuare in essa una delle fonti della creatività. Partendo dalle concezioni di questo filosofo sembrerebbe che l'immediato passato è la sensazione, l'immediato futuro l'azione. Così si creano continuamente anime, e sono soltanto ruscelletti in cui si divide il gran fiume della vita, scorrendo attraverso il corpo dell'umanità. Questo concetto potrebbe legarsi a quello del logos astratto, che cita Lolli. Ma egli cita un logos che 'dicendo nasconde' e ci riporta senz'altro verso le teorie eraclitee care a Franco e tese a mettere in luce quanto la ragione sia funzionale al Mito e alle intuizioni e diventi l'ago della bilancia per dare al Mito i connotati della Sapienza. Mi chiedi qual'è il terreno più adatto alla 'semina della sapienza', Vito e, alla luce della tua disamina, credo esista una sola risposta: la realtà psicologica del presente è la durata del tempo, della parola. Bergson riporterebbe, in fondo, a Bauman, alla società liquida, e a una 'stella poetica' in continuo cambiamento...
    Le idee sono talmente soggettive che creano prati fertili di semi e di illusioni...
    Ringrazio te e Franco e vi auguro giorni di luce.
    Maria Rizzi

    ----- Original Messa

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    1. Cara, Maria. E' proprio di un giorno di Luce che sto trattando, in questo momento, per il prossimo articolo. E il tuo augurio sembra l'eco di questo percorso..Davvero interessante, 'sta cosa..
      Vito

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  4. Non riesco e non voglio pensare ad un totale oblio dell'"essere" e neppure al dissolvimento completo del mito, nonostante tutte le correnti filosofiche che conducono al razionale e alla perdita della fase onirica e divinatoria dell'uomo. Pur consapevole della inevitabile discesa dell'uomo, attraverso i secoli, nella dispersione della propria interiorità, ossia nella sterilità del pensiero e della razionalizzazione filosofica e post filosofica, complice in questo l'inganno e l'avidità del potere politico e sociale,sono sempre fermamente convinto che sia possibile accedere ad un recupero dell'arcana memoria del nostro" essere" e guai se non fosse così perché avremmo perso totalmente la nostra connotazione di esseri umani. La rimemorazione dell'inizio sapienziale e dello stato di coscienza superiore attraverso l'accesso al divino è possibile, necessaria anzi indispensabile. Ma per compiere questa operazione necessita riprendersi la comprensione profonda della nostra vera identità, quella di persone in cammino verso una meta sovrumana a cui siamo destinati e che ci è stato indicata con l'esempio più alto, incomprensibile, inconcepibile ossia la morte e la resurrezione di Gesù. Naturalmente parlo della nostra anima quale primordiale contenitore, scrigno segreto, entità impercepibile ed aerea che costantemente ci tortura e ci beatifica. Solo l'anima conduce allo stato della "Bellezza" dato che vive all'interno della divinità, ci accompagna alla conquista della sapienza, ci riporta dunque all'inizio mitico prima che questo si avvii alla sua fase discendente e si concluda con la sua fine. Parlo dell'anima non come qualcosa di separato dal corpo e dal sangue, frutto di tesi filosofiche per me astruse, astratte, ma di un tutt'uno costitutivo della nostra umanità concreta. Quindi trovo che tutta la corrente filosofica che nel tempo ha accomunato anima a divinità e immortalità abbia colto nel segno. Quale è dunque la terra giusta per la semina della sapienza?. Io la trovo nella consapevolezza dell'io-superiore, della sua somiglianza -parentela al divino attraverso la rappresentazione della " Bellezza" in tutte le sue forme e anche nel quotidiano svolgersi della vita. Cognizione costante della "Bellezza" che travalichi la fase interiore di semplice ripiegamento introspettivo e porti con la comprensione dell'Assoluto alla esaltazione vitale. Se l'uomo di oggi non riesce a trovare più la propria sfera interiore, avviato come sappiamo verso una sua completa liquidità è compito del segno nobile e alto dell'arte, dei saggi e della parola poetica autentica riportarlo al suo stadio iniziale, a quel mito a cui egli appartiene indissolubilmente,ossia alla sua anima. La poesia, religione delle anime più elette ed elevate spiritualmente, come bene asserisce Ninnj Di Stefano Busà, può e deve adempiere a questo compito dall'alto del suo potenziale stato di Grazia ed in diretta comunicazione con le profondità del mistero esistenziale, con la sua infinita possibilità di modularsi e rapportarsi al linguaggio corrente, alle situazioni anche le più travagliate e sconvolgenti del nostro tempo.
    Carmelo Consoli

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  5. Mi risulta che dalla lettura del vangelo Gesù non abbia mai pronunciato una parola riferibile all'estetica. tutto il suo sforzo era volto a riformare i costumi degli ebrei del suo tempo, questioni politiche e spirituali. La questione del Logos che si posero i greci è una questione complessa che non può essere ridotta semplicisticamente alla soluzione di una poesia mitopoietica come si è fatto in Italia negli anni Novanta. Noi dobbiamo ritrovare il mito nelle linee di forza della nostra civiltà, non possiamo vivere di nostalgia di una età del passato, di nessuna età del passato. e poi, il Logos dell'Oracolo di Delfi parla in modo diverso dal Logos di Mnemosyne, l'ambiguità del linguaggio poetico di cui si è discorso nella modernità, mi sembra un pensierino da professori tipico della nostra incapacità di pensare in grande. La vera questione del Logos va riproposta oggi ma bisognerebbe rimetterla sulle gambe, farla stare dritta, e non piegarla alle esigenze di poetiche strumentali che vogliono piegare ad interessi di parte le questioni di poetica. Oggi, quello che si richiede alla poesia è riformulare il Logos. Ma quale Logos? Per dire che cosa? E in che modo? - Io sono della opinione di George Steiner il quale ha scritto che quando qualcuno parla della Bellezza, vuol dire che è un reazionario.
    Sulla parola di Gesù, non ho niente da dire, non mi sembra che fosse un grande filosofo. Era un riformatore di costumi, un politico. Altra questione è l'interpretazione che di Gesù ne ha fatto quel misogino di Paolo di Tarso, lui sì inventore del cristianesimo ma traditore dello spirito rivoluzionario del messaggio di Gesù.

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