sabato 15 ottobre 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "LA LUCE DELLE CREPE" DI LUCIANO NOTA



Poesia nuova, fresca, generosa, audace,  che lavora sulla parola con scalpello e  temperino graffiandola e limandola per sincronizzarla alla materia, alle piccole cose, alle quotidiane occasioni, e farne, con accorgimenti di plurale misura, simbologia di meditazione e riflessione.  
Un lavoro certosino che non è certamente solo frutto di un richiamo calliopeo ma di accorgimenti tecnici, di esperienze e di lavoro continuo sul verbo e i suoi marchingegni. Sarebbe lungo ripercorrere tutto il tragitto letterario del Nostro per ricavarne una netta comparazione. Ma uno come me, che ha avuto l’onore e il piacere di leggere quasi tutta la sua produzione, di scrivere recensioni e note critiche sui suoi lavori, può notare come la sua penna si sia sempre più affinata, ontologicamente, graficamente, sintatticamente e retoricamente. I suoi messaggi umani sono qui affidati ad una versificazione concreta, fatta di simboli e allusioni, ma circoscritti ad un ambito reale, minimo, con l’urgente preoccupazione di tenerli sotto controllo; sotto il continuo sguardo di un poeta che vuol fare delle cose la memoria, l’evocazione, la rappresentazione delle vicende non sempre serene ma piuttosto inquiete, direi,  come inquieto risulta un qualsiasi   cammino umano senza sbocchi precisi, sicuri. Sta qui l’irrequietezza di Nota uomo, della sua poesia; ed è in questo subbuglio che si fa terreno anche se nella sua intenzione non di rado c’è un tentativo di escatologico miraggio, di impennata verticale:

(…)
Le scale
questi penosi tabernacoli bianchi
dalle antiche radici di ferro
che non danno colore
non spargono odore
a chi stringe più in alto lo scettro (Le scale).

 D’altronde ognuno di noi ambisce a toccare con le dita la coda dell’eccelso ma sa, ognuno di noi, e ne è cosciente, che il nostro destino è quello di soffrire della nostra collocazione fra cielo e terra; della nostra pochezza di fronte al tutto:

(…)
Vedi, è troppo il mare, la sua grandezza
fa male, bisogna ridurre.
Il detrito è un corpo stabile,
nessun colpo potrà dividerlo.
Vieni, osiamo farci falda,
resa armonica oltre la porta.
Muoviamoci in quella pila d’acqua (Pila d’acqua).

E della terra Nota fa un dettagliato racconto, una implacabile descrizione; una relazione puntuale sull’esistenza, la sua precarietà, sugli intimi travagli dell’essere, e su ogni fatto che possa servire a mitigare o a provocare l’insoddisfazione di essere terreni. E questa sua silloge azzarda arrampicate in cerca d’aria nuova; nuove scalate  verso montagne scabre o mura di città o di paese che nascondono crepe di annose scomposizioni, di polivalenti sussulti.
Questo è Nota e questa la sua poesia: una simbiotica fusione fra anima e versificazione; una attenta ricerca verbale che tende a superare la realtà partendo dai suoi appostamenti; da fatti contingenti per farne un trampolino di lancio verso l’oltre della parola. Sì, non è sufficiente il termine comune, la grammatica tradizionale, il soggetto e il predicato, per concretizzare le spinte di un Autore che cerca di trasferire l’oggetto nel mondo delle idee. Forse è proprio lo spiraglio di luce a fare capolino dalle crepe per significare quella insaziabile voglia di estendere lo sguardo oltre la siepe; di affrancare lo spirito a ché anche a noi poveri umani possa toccare uno squarcio di cielo o un’inerzia tanto simile a un’atarassica quietudine dell’anima.

LA SCALA

Non sono fatto d’azzurro
neppure di rosa.
Sono ancora legato a una scala
fatta di pioli e di vuoti
un insieme di solchi
che cremano l’atrio
il puntello.
Di continuo sento
il crepitio stordito del legno
del cibo ammassato
sul terreno. Mi chiedo quale vento
possa io inalare
nel lanciare il mio corpo
oltre l’oro del vuoto
lasciandomi stendere
nel gorgo dell’inerte


Nazario Pardini

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