sabato 8 dicembre 2012

P. BALESTRIERE: PROBLEMI LINGUISTICI




Problemi linguistici                                                
LA  (MALA)SORTE DI  “CODESTO”
 
Una deplorevole ingiustizia linguistica è stata messa in atto da chi le parole dovrebbe alimentarle (con l’uso), coltivarle (con il rispetto e l’affetto che meritano), preservarle (dagli incompetenti) e amarle (per le potenzialità che racchiudono).
Che cosa accade invece? Che coloro i quali dovrebbero svolgere questo compito sono incapaci di tenere la schiena dritta, si adattano alla comoda mediocrità oppure palesano la propria inadeguatezza linguistica piegando il capo di fronte a qualche presunto esperto. Sto alludendo agli scrittori e agli studiosi di lingua pron(t)i  -troppo spesso -  a  mode e correnti, pigramente acco(mo)dandosi e abdicando alla loro funzione, che è quella di tutelare  il principale mezzo comunicativo.
Avviene così che l’aggettivo- pronome “codesto”, privo di qualsiasi voce sinonimica,  quindi unico e insostituibile, venga guardato con molto sospetto  o addirittura eliminato del tutto; con la scusa  che si tratta di termine ... burocratico, solo perché - sfortunatamente -  è spesso usato in quest’ambito per domande e richieste ufficiali . Eppure era nato, trionfante e toscanissimo, nel Trecento, adoperato dalle “ tre corone fiorentine” e poi, nel corso del tempo, da egregi scrittori che toscani non erano, come Boiardo, Ariosto, Tasso, Manzoni, Leopardi, Tommaseo, Verga, Pascoli, giusto per citarne alcuni. Ora, persone, le quali a petto di questi giganti sono poco più che pulcini, ci vengono  a pigolare di un “codesto” burocratico, senza peraltro suggerirci alcuna soluzione alternativa  per indicare persona o cosa vicina a chi ascolta. La stessa ( e forse anche peggiore) sorte patiscono i cuginetti di “codesto” e cioè gli avverbi “costí” e “costà”. Sicché, se io volessi chiedere all’amico Nazario Pardini notizie meteorologiche di Arena Metato e non volendo usare la forma “che tempo fa costí” , dovrei dire “che tempo fa lí da te”, espressione anche accettabile, ma che comporta lo spreco di una sillaba e manca dell’immediatezza di “costí”. “Codesto”, il cui uso oggi è limitato alla sola Toscana - e neppure a tutta-   è però  insostituibile. A meno che non si usi una perifrasi, appesantendo il discorso. E pensare che anche il dialetto napoletano (  per molti versi  vera e propria lingua) conserva rigorosamente la distinzione (e l’uso) dei dimostrativi “chistë” (questo), “chissë” (codesto).  “chillë” (quello), senza timori burocratici.
A me pare che privarci di una possibilità espressiva per (e sono garbato) un vezzo o per una quasi masochistica civetteria sia davvero paradossale. Un mutilarsi per niente. Val la pena di ricordare che Saba fece poesia con un linguaggio quotidiano, depurandolo della quotidianità, rinnovandolo, cioè,  nell’uso che ne faceva. Insomma, fuori del contesto burocratico, come fa un “codesto” a serbare traccia di burocrazia?
        E se anche fosse, non basterebbe un impiego più frequente in altri contesti per sgrondar via ogni burocratica traccia?

Cosa ne pensano i lettori del blog “Alla volta di Leucade”?

        
Pasquale Balestriere

 

12 commenti:

  1. Carissimo Pardini , carissimo Balestriere , ma come vuoi che i giovani si ricordino che la espressione corretta è "codesto" , se non sanno manco cosa significa ? La colpa purtroppo è sempre di chi li ha preceduti , i quali hanno perso a mano a mano il ben della "cultura" vera , e degli insegnanti che non si curano affatto della correttezza del linguaggio e a volte cacciano loro stessi degli strafalcioni, che dovrebbero annullare loro la laurea in lettere !
    Oggi imperversano gli SMS , contorsione diabolica della comunicazione interpersonale. Spero soltanto che almeno i "poeti" di nostra conoscenza facciano ancora buon uso della lingua italiana , prendendo esempio dalla bellissima nostra lingua partenopea ! Mille auguri - Antonio Spagnuolo

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  2. Caro Pardini, non essendo io un poeta laureato (per dirla con Montale), sono la persona meno indicata a prendere le difese della buona scrittura e del purismo linguistico. Io approdo all’espressione letteraria non provenendo da studi accademici, ma dall’esigenza di comunicare quanto mi urge dentro. Conosco pertanto le difficoltà della comunicazione scritta e per questo mi associo al pensiero di chi sostiene la necessità di acquisire i migliori strumenti per potersi esprimere correttamente. Essendo io, in fondo, un barbaro che tenta di educarsi, non riesco francamente a comprendere chi, essendo già educato, fa del tutto per imbarbarirsi. Ancora una volta dobbiamo prendere atto di vivere nel tempo delle tenebre (non soltanto linguistiche): una decadenza da accettare, in fondo (sia pure combattivamente), nella speranza (per me certezza) che l’oscurità ha il compito di condurre verso la luce (ma è pur vero il contrario, indubbiamente). In fondo, senza l’imbarbarimento del volgare, non avremmo avuto il fulgore di Dante, né della lingua italiana successivamente. Una stretta di mano
    Franco Campegiani

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  3. Uno scrittore, e tanto più un poeta, non può non prendere le difese della lingua: sarebbe come dire ad un agricoltore di non curarsi della semina o - che so - ad un allevatore delle provviste di fieno. Ciò nonostante, ritengo che prendere a cuore tutto quello che ci permette di esprimere il nostro amore in quanto facciamo e creiamo (per inciso, ricordo il significato del verbo greco poiein) non può e non deve prescindere da quella libertà che ci viene concessa, in fondo, dallo stesso linguaggio. Mi spiego: se le parole non fossero libere di sgorgare, come potremmo rappresentare ciò che sentiamo nel profondo? Dunque - mi permetto di dire - non è poi così fondamentale che una locuzione avverbiale prenda il posto di un avverbio, oppure un "vecchio" pronome sia sostituito da uno "nuovo", e - mi spingo ad asserire -
    il processo inverso; purché di autentica comunicazione si tratti.
    Per evitare malintesi, tuttavia, tengo a precisare che sono decisamente contrario alla mancanza di tutela della nostra lingua: riferendomi, con questo, non tanto agli studi (peraltro di dubbia provenienza) di cui si parla nell'articolo, quanto piuttosto all'assuefazione a quelle mode dettate da interessi particolaristici e materialistici che nulla hanno a che vedere con il tipo di linguaggio del quale - credo - si stia parlando. Questo si, è un problema che mi preoccupa, perché appiattisce, rende degli automi coloro che non hanno i mezzi per contrastarlo, e impoverisce prima la lingua e, poi, molto più pericolosamente l'uomo (si pensi ai termini "televisivi").
    Ringraziando Balestriere per la stimolante occasione di confronto e Nazario per l'ospitalità, auguro a tutti i frequentatori del blog BUONE FESTE.

    Sandro Angelucci

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  4. Non posso che associarmi agli amici che hanno testimoniato a favore del termine "codesto" Per me che vivo immerso nella parlata fiorentina l'uso di "codesto" o di "costì", "costà", è pane quotidiano . E se è vero come poi è vero quello che dice l'amico Pasquale a proposito di Saba che il linguaggio letterario deve attingere nella quotidianità allora non vedo quale sia il motivo per non utilizzarlo con la piena dignità che dimostra. E poi sa di buono, familiare, diretto a chi ascolta , come brevi ed incisivi sono i vari "costì", "costà", accompagnati dalla punta del dito, nella fulminea comprensione di chi li riceve. A pieno diritto appartengono alla bella nostra madre lingua ed è propio un peccato non farne uso. Ti ho mandato la risposta per e-mail in quanto non riesco stamani a postare un commento. I miei più sentiti auguri per il Natale e le festività. Carmelo

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  5. Maria Ebe Argenti – 11 dicembre 2012

    Carissimo Pasquale,
    “codesto” tuo tema, che in realtà è un problema, lo hai svolto (o risolto?) da vero professore di lettere, trattandosi di un “problema linguistico”, subito decollato alla volta di Leucade per la gioia dell’amico Nazario Pardini. L’ho letto più volte fino a diventare succuba (o “succube”, come riporta il Dizionario della Lingua Italiana SABATINI-COLETTI) della tua tesi così esplicita che a fronte della quale non è possibile opporre antitesi alcuna.
    Non mi rimane che complimentarmi per le tue preziose argomentazioni mentre vado ad accodarmi ad un trenino con la bandiera italiana, i cui vagoni sono QUESTO-CODESTO-QUELLO-COSTI’-COSTA’-CHISTE-CHISSE-CHILLE.
    Tanti auguri di buone feste !

    Maria Ebe

    A proposito, che tempo fa lì da te?

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    1. Carissima Maria Ebe,
      qui, ieri, freddo secco di tramontana e sole; oggi libeccio, con frequenti rovesci. Spero che da te
      (o, se vuoi, costì) vada meglio e che non sia anche tu "succuba" della pioggia.
      A proposito, dal verbo latino "sub-cubo"(dormo sotto) si forma la voce femminile "succuba" ("che giace - o dorme- sotto"), cioè concubina (da cum-cubo = giaccio con), ed anche un termine maschile "succubus", cinedo.
      Perciò l'italiano, figlio del latino, ha per questo aggettivo quattro desinenze: "succubo, succuba" per il singolare maschile e femminile, "succubi, succube" per il plurale. Da evitare (nonostante il Sabatini) la forma "succube" per il singolare perché di manifesta (e inutile) derivazione francese.
      Affettuosi auguri anche a te
      Pasquale

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  6. Che brutta cosa l'imbarbarimento della lingua, rispecchia fedelmente un degrado più generale ed esteso, e purtroppo non esistono argini e le possibilità di contrasto sono minime, è l'uso che determina le regole della lingua, e in questo campo vige il potere della democrazia, decide la maggioranza, per cui se un errore è condiviso a maggioranza, diviene la nuova regola; il termine diàtriba ne è un esempio, ormai tutti dicono diatrìba ed è questo che determina la regola; nella mia città, dove vige una maestosa ignoranza e una pedissequa gregarietà, la maggioranza ormai dice, sbagliando, nocciòlo per indicare il nòcciolo, e quando l'errore si sarà esteso costituirà la nuova norma. La poesia, la letteratura, sono meravigliosi frullatori della lingua, la ravvivano e ne conservano la freschezza e l'autorità, tuttavia diventano sempre più marginali e prodotto ahimé di nicchia. La vera autorità ormai è la televisione, e in misura minore i giornali, che utilizzano il linguaggio del consumismo intellettuale. L'unica speranza è che cadano nelle mani giuste, ma ci vorranno molte preghiere e molte invocazioni, e la dea della lingua non guarda dalla parte della poesia.

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    1. Caro Paolo,
      condivido completamente il tuo pensiero, anche se sono certo che sul suolo italico il "nòcciolo" mai diventerà "nocciòlo" se non per indicare la pianta. Da noi trionfano le parole sdrucciole e, semmai, c'è il rischio che accada il contrario, cioè che il nocciòlo (pianta) diventi nòcciolo, cioè l'endocarpio (o l'osso) che contiene il seme. Così è accaduto, anticamente, agli aggettivi "gratùito" e "fortùito", al sostantivo "circùito" e, recentemente, al verbo "vàluto" e a decine d'altre parole. Prima piani, poi sdruccioli.
      A questo malcostume linguistico dovrebbero opporsi, come facevano una volta, i mezzi di comunicazione di massa. E invece proprio lì s'annida il fior fiore dell'ignoranza.
      Ritengo, infatti,che trasgredire troppo spesso la regola ne limiti o annulli l'importanza. Dopo di che c'è solo il caos (linguistico).
      Un cordiale saluto
      Pasquale

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  7. Stamani è accaduta una cosa assai strana. Sembra proprio che il blog anticipi i tempi (mi sono detto) e che Balestriere sia degno dell’attenzione di così tanto personaggio. Ho acceso il televisore e mi è apparso sul programma Unomattina (Rai 1) il Prof. Francesco Sabatini, membro dell’Accademia della Crusca. Stava puntualizzando - cosa strana, ripeto, considerando che la questione linguistica era stata postata appena la sera prima - stava puntualizzando, dico, il significato, l'origine e l'impiego dei termini presi in considerazione, proprio, dallo scrittore di Barano d’Ischia nel saggio qui trattato. Ma quello che più conta è che Sabatini abbia ricordato che tanti termini storici della nostra lingua piano piano vengono messi fuori uso non si sa come, né perché, né per quale preciso motivo. Mentre, al contrario, si continua a infarcire di forestierismi, non sempre necessari, il nostro tessuto linguistico. Non si vuole, certo, apparire come puristi, considerando anche il fatto che la nostra storia è la risultante dell’apporto di tanti nessi etimo-verbali di altre storie, come l’arabo, il tedesco, il francese, lo spagnolo…, e non solo un derivato neolatino. Ma è anche bene portare un po’ più di rispetto, un po’ più d’attenzione, secondo me, e, magari, volere un po’ più di bene ai meriti letterari che certi termini si sono conquistati nell’arco dei secoli. Non è certamente giusto mandarli in pensione, soprattutto quando possono ancora dare dei precisi e insostituibili supporti a certe precisazioni. Non è forse la lingua il fulcro delle nostre radici culturali? Quanto è bello dire sì invece di ok.
    Comunque ci lascia un po’ di stucco, questo volevo soprattutto dire, la celerità con cui la questione sia andata a finire in sfere così alte. Sabato sera veniva pubblicata e domenica mattina discussa in RAI. I casi della vita… "A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina.". (G. Andreotti)

    Nazario Pardini



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  8. Mi accodo, da “non addetta ai lavori”, come ritengo doveroso precisare sempre, ai pareri autorevoli di coloro che mi hanno preceduto, perché ho molto a cuore il problema della “snaturalizzazione della lingua italiana” e, conseguentemente, della necessità di tutelarla. Pertanto, prendo spunto dalla “(mala) sorte di codesto”, per esprimere il mio parere, non tanto come poeta e scrittore (non penso di esserne all’altezza!) ma come ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche nel campo della biologia marina, correlatore di moltissime tesi di laurea, costretta, ahimè, a leggerle e a correggerle, non soltanto dal punto di vista scientifico.
    Moltissime parole della lingua italiana sono scomparse; moltissime vengono sostituite con i termini equivalenti inglesi, anche quando essi non sono “termini tecnici” e, quindi, propri del lessico scientifico, in una trattazione peraltro scritta completamente in italiano. Ho avuto la possibilità di rendermi conto di come e quanto la lingua italiana si stia impoverendo e “imbarbarendo”, dove con questo termine, intendo l’uso, a sproposito e assolutamente non necessario, di parole di lingue straniere. Il fenomeno dilaga tra i giovani che, spesso, tendono a contrarre il loro pensiero e, di conseguenza, il loro “scritto”, così come fanno quando “mandano gli sms”. Poiché stiamo parlando di problemi linguistici, sorvolo sugli errori (gravissimi per un laureando!) di ortografia e sintassi, per non parlare, poi, del congiuntivo, che è “una specie in via di estinzione”!
    A mio avviso, il problema è grave; ritengo, infatti, che la lingua parlata e quella scritta debbano essere differenti. E’ un problema, questo, irrisolvibile senza la “collaborazione” degli insegnanti, di quelli di lettere in primis ma non soltanto. Ricordo che il mio professore di matematica del liceo (scientifico) assegnò 4 ad un compito perfetto perché l’alunno nella risposta aveva commesso un gravissimo errore di ortografia!
    Come madre, cerco di fare capire ai miei figli (peraltro bravi, non posso lamentarmi davvero!) la necessità e l’opportunità di usare linguaggi diversi a seconda dei “mezzi di comunicazione” che si scelgono e delle situazioni in cui si usano; pertanto, non ho nulla da ridire se, inviando un sms, usano “cmq” in luogo di “comunque” e “nn” al posto di “non”. Faccio loro notare, tuttavia, che quando svolgono un tema di letteratura o redigono una tesina universitaria, devono ricordarsi di “essere italiani”!

    Ester Cecere

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  9. Caro Nazario,


    Balestriere si riferisce a quegli “scrittori”e “studiosi”che, invece di “tenere la schiena dritta”, piegano la testa di fronte alle argomentazioni di “qualche presunto esperto”
    Di qui Balestriere prende le mosse per una difesa d'ufficio dell'obsoleto aggettivo/pronome “codesto”, che a suo parere andrebbe opportunamente riscoperto e riconsegnato alla piena cittadinanza del parlare corrente. Impresa a dir poco ardua, se non disperata. Ha infatti ragione Antonio Spagnuolo quando, soprattutto a proposito dei giovani, sottolinea non tanto la loro ignoranza e l'inconsapevolezza tecnico-grammaticale rispetto a tale specifica questione, quanto piuttosto (come mi sembra di capire) la loro totale estraneità e distanza da un più generale contesto linguistico-culturale.
    Così, in questo tempo malcerto e assai precario, fatalmente si moltiplicano i sedicenti “specialisti” ed “esperti”, i taumaturghi della comunicazione; basterebbe per questo dare uno sguardo alla TV, alla pubblicità, alla carta stampata, a Internet e alle nuove tecnologie, impuniti (dis)educatori del linguaggio e feroci eversori della grammatica e della sintassi; tutti soggetti che inconsapevolmente fungono anche da “rottamatori”della nostra bella lingua (e il termine “codesto” non rappresenta che una delle tante parole finite nel limbo della dimenticanza e dell'oblio).
    A proposito, infine, di rottamatori e innovatori, penso ovviamente anch'io, come Balestriere, che nel settore della comunicazione andrebbe riscoperto e rivalutato tutto il patrimonio linguistico-espressivo che da San Francesco a Dante, da Manzoni a Leopardi, e poi su su fino al Novecento, ha reso sempre più bello e affascinante il nostro idioma. E anch'io, potendo scegliere, piuttosto che optare per gli inglesismi, i francesismi, le stonature esotico-politico-pubblicitarie, o per i neologismi celtico-barbaro-trogloditi, opterei certamente per “codesto”& C., arnesi certo un po' datati, ma con la preziosissima garanzia dell' “usato sicuro”...

    P.S. Nel più celebre dei suoi Canti, “L'Infinito”, Giacomo Leopardi declina per ben otto volte, in soli sedici versi, gli aggettivi/pronomi dimostrativi questo-quello, ovvero una volta abbondante ogni due versi: una sorta di record mondiale... Manca purtroppo, ahimé, forse per dimenticanza, distrazione (o forse per turn-over?...), il famigerato “codesto”. C'è dunque da chiedersi se anche il nostro Giacomino non si facesse condizionare dai “presunti esperti” evocati dal poeta ischitano...
    Certo è che, stando a L'Infinito, siamo in presenza di un indizio pesante...
    Se poi si aggiunge che il Nostro non aveva una schiena propriamente dritta...

    Ti allego anche uno scherzoso “sonetto continuo caudato” (non sono un virtuoso del settore, ma credo che si tratti di una “roba così”...)


    ODE PER CODESTO
    resurrectio


    C'era una volta un trio di Moschettieri
    estranei a compromessi e a diversivi,
    tre tipi tutt'affatto battaglieri,
    ciascuno co' suoi tratti distintivi:

    Questo, Codesto e Quello. Fino a ieri
    rappresentanti puri ed esclusivi
    del bell'idioma di Dante Alighieri,
    oggi scansati come i congiuntivi,

    specie il Codesto, re dei forestieri,
    sepolto nel girone dei cattivi.
    Ma venne un uomo, un tal de' ...Balestrieri,

    defènsor di pronomi e sostantivi,
    a liberarlo dai suoi carcerieri
    e a ricondurlo qui, tra i Verbi vivi.

    Ora, tra valli e clivi,
    riemerge quel fonema che fu storia
    dell'itala favella e ancor n'è gloria.



    Umberto Vicaretti



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