giovedì 6 giugno 2013

DEBORAH CORON: INEDITI


Qui c’è memoria, c’è evocazione, c’è storia; ci sono quelle fughe e quei  ritorni che traducono in poesia l’avventura, l’azzardata avventura  della vicissitudine umana. E quello che c’è, ed è importante per l’ars poetandi, quello che c’è è la parola. Quella giusta, lavorata, ampliata; quella che va oltre l’etimo per accostare l’intensità dell’animo; quella uscita dalla  creatività di un nobile artigiano che lavora, inventa e intaglia per declinare il suo essere in corpo. Qui c’è tutto il fatto di esistere. Ci sono quei nessi giusti, quegli slanci allusivi (metafore, sinestesie, enjambements…) che si arrampicano verso l’alto per catturare il cielo e rendere le piccole cose degne della parola: “traccio sul ventre  le antiche fiabe/ della prima neve”;  “Poi indietro, per tutto il corpo gridano/ le unghie e i polsi, solchi di terre arate/ e gloria di Scirocco africano!”. Nel Dono si raggiungono vette di spiritualità attraverso sentieri di travaglio e di rinascita, che fanno dell’uomo un perpetuo e inquieto essere gettato negli abissi fra cielo e terra: “Trovatore[1] di voci replicate e ladro di sèmi/ [2] mimetico falsario e coniatore di parabole:[3]/ il poeta sconta la povertà della parola/ logora moneta ipotecata da immemorabile scambio”. La grazia di queste pièces è tutta nel saper trasmettere la complessità del mondo e del pensiero, la complessità degli stadi emotivi con un linguaggio “sano”, arrivante, culturalmente e intellettivamente propositivo.
  
Nazario Pardini

Mani cantastorie


Lascia che le mie mani ti parlino
senza voce dopo quest’ora scossa;
spogliati e ascolta: la tua pelle
ha atteso già a lungo memoria di me.
Non ho ereditato carezze
solo mani cantastorie instancabili
per inventare un alfabeto di tocchi
e svelarti occhi di bimbi sul viso;
mormorano le paure, gli urti
lungo la gola e sulla nuca.
Concorrono i lemmi tra le dita
che raccolgo sulla curva delle spalle
nel racconto dell’età felice: piantavo
ossi di pesca, ciliegia e melagrana;
canto lenti labirinti di petali profondi
frutti rossi, dolci, carnali…
Sostano le palme sul petto
a sanare strappi d’ali
e la schiena è diario aperto
di quotidiane rese e resistenze.
Traccio sul ventre le antiche fiabe
della prima neve: mappe del tesoro
e sentieri di molliche sui fianchi
per il ballo del re sulla rocca
e solletico i piedi di scherzi e giochi!
Poi indietro, per tutto il corpo gridano
le unghie e i polsi, solchi di terre arate
e gloria di Scirocco africano!
E ti narro ancora di me, azzurra
per farti mare e poi cielo. E pace.






Il dono


L’ergastolo delle Muse all’innocente
eletto all’effimera dignità dell’Inutile?[1]
È colpevole dello sguardo che fruga licenzioso
la Terra Promessa della Bellezza
l’intride col sale e il sangue dell’immaginazione
dissoda grumi di dolore, lacera memorie
estirpa, brucia Roveti Ardenti[2] di passioni
impasta ed alita, soffia invano nella creta
e ne rivendica ogni forma![3]
È condannato a sentire la musica del cosmo
nella metamorfica pace della crisalide
nel lamicare[4] della rugiada lungo lo stelo
perfetto nel disegno di un’equazione algebrica;
e a gettarsi in note concentriche nello specchio[5]
incognito delle proprie ombre: il peso
dello scandalo[6] non concede l’immacolato valicare
ad orbite corali, alla ricerca d’una Luce
che non ha nomi in alcuna lingua.
Trovatore[7] di voci replicate e ladro di sèmi[8]
mimetico falsario e coniatore di parabole:[9]
il poeta sconta la povertà della parola
logora moneta ipotecata da immemorabile scambio.
Architetto dei paradossi dell’anima
crea ciò che scopre, ma scopre ciò che crea;
ne resta incompiuta e sempre sorgente[10]
la Rivelazione che non è ancora e che non sarà:
la sola libertà del dubbio plasma l’assenza[11]
altri tradurranno[12] ogni possibilità.[13]
Come può cantare ancora? Invoca nuova manna
in un deserto arido di doni.





[1] L’Arte non dà pane.
[2] Identifica Dio e la Creazione col proprio sentire umano.
[3] Vorrebbe (ri)creare il mondo col suo poièin.
[4] Scivolare lasciando una scia lucente.
[5] Superficie riflettente e lago.
[6] Da skàndalon: pietra d’inciampo, per cui anche: ostacolo, cattivo esempio, peccato.
[7] Poeta-musico e chi trova/inventore.
[8] Da sèma: segno, per cui: minimo elemento significante.
   [9] Da parabàllein: mettere accanto parallelamente, confrontare, per cui: (ciò che è) messo in parallelo, paragone;
      parola/espressione; curva algebrica (fig.); breve racconto allegorico.
  [10] Il testo contiene le versioni  preliminari e la fonte subliminale dell’idea generatrice d’ogni intuizione successiva.
  [11] C’è il mistero di tutto ciò che avrebbe potuto essere, comprese le soluzioni alternative o scartate.
  [12] Da: tra-dùcere: condurre di là, per cui: (tras)portare oltre e volgere in altro linguaggio.
  [13] Ogni lettore è coinvolto nella genesi poetica dando le proprie interpretazioni.

2 commenti:

  1. Caro Professore,
    sono perfettamente d'accordo con Lei. Deborah è schiva e nasconde nei cassetti le sue liriche. Privandoci di grandi, arricchenti ricchezze!
    Per Lei ha fatto una meravigliosa eccezione e ne sono profondamente felice.
    Vi abbraccio entrambi! Maria Rizzi

    RispondiElimina
  2. Intensamente evocativa, "Mani cantastorie", e intellettivamente propositiva,"Il dono",-parafrasando Nazario-,
    queste due poesie di Deborah mi danno l'opportunità di apprezzare profondamente doti poetiche che non conoscevo.
    In modo particolare, le sue mani delicate, parlando, hanno saputo raccontarmi di quando "piantav(a)/ossi di pesca, ciliegia e melagrana" del maturare al Sole di quei "frutti rossi, dolci, carnali". Si, modellano amore quelle dita-parole, amore "a sanare strappi d'ali". E "poi indietro", lungo il corpo,indietro nel tempo e nello spazio "di terre arate / e gloria di Scirocco africano!".
    Ti vogliono nudo. E silente, ad ascoltare, mentre nella conca ti portano l'acqua per dissetare la tua voglia di pace.

    Sandro Angelucci

    RispondiElimina