giovedì 17 settembre 2015

CLAUDIO VICARIO: "TRADUZIONE DI TRE SATIRE DI ORAZIO"

Claudio Vicario collaboratore di Lèucade

Nel lontano 1962, studentello liceale diciottenne, tradussi in versi endecasillabi le tre satire più note di Orazio

 

Orazio: “Est modus in rebus”


Per qual motivo avviene, Mecenate,
che nessuno sia pago di quel fare,
che per destino o per sua propria scelta
esercita, lodando invece a torto,
l’altrui mestiere e chi professa altr’arti?
Meglio avrei fatto a fare il mercatante,
dice il soldato afflitto dagli acciacchi,
migliore è la milizia, non ho dubbi,
dice il mercante, quando la tempesta
squassa la nave e rischia d’affondare.
Lui va in battaglia e in breve tempo accade,
che va nell’Ade per cruenta morte
o che di gloria ei cinge la sua fronte.
Quando al cantar del gallo, l’avvocato,
bussare ode il cliente alla sua porta:
meglio sarebbe fare il contadino!
Mentre dalla sua parte il campagnolo,
tratto in città per fare da manleva,
sol chi è nell’Urbe lui felice crede.
Tant’altro potrei dire e dire ancora,
ché tanti sono i casi, ed anche Fabio,
per quanto sia loquace, n’avria troppo.
Per farla breve, ascolta ciò ch’io dico.
Se un giorno un Dio dicesse: “Io sono pronto,
vi voglio accontentare e a ognun di voi,
concedo di cambiare il suo mestiere,
tu, già soldato, ormai sarai mercante,
e tu mercante or diverrai soldato,
tu, valente avvocato, d’ora in poi
andrai pei campi ad allevare i buoi,
suvvia, cambiate impiego, ognun si parta.
Che state a far? Perché non vi muovete?”
Se un Dio così parlasse, ognun di loro,
rinnegherebbe ciò che prima chiese,
eppure ognun potrebbe cambiar sorte.
Forse che Giove non avria ragione
se sbuffasse, adirandosi con loro?
E il Dio dirà: “Non più presterò ascolto,
a ciò che dite, più non domandate”.
Insomma, per non dar agio allo scherzo
(certo non puoi negar che dire il vero
sia lecito anche se lo fai per celia),
bando a ogni ciancia, ché ora parlo serio.
Colui che con l’aratro traccia il solco,
l’oste imbroglione, il milite prestante,
il marinaio che affronta ogn’ora il mare,
vanno dicendo che la lor fatica,
ha un solo scopo: pan per la vecchiaia,
e a procurarsi un placid’ozio poi.
Si prenda a paragone la formica,
a noi d’esempio, che, con gran fatica,
ammucchia le sementi nel suo nido
così che, quando Acquario il mondo attrista,
può trarne nutrimento ed altra vita,
ma lei non pone piede fuor del nido
e l’ammassato grano gode in pace.
Per te non c’è né inverno o solleone;
né il fuoco, il mare, o il ferro ti distoglie
finché di tutti non avrai ragione.
Che gusto provi a sotterrare l’oro,
furtivamente e pieno di terrore?
“Perché così non spendo il mio danaro,
per non trovarmi un dì senz’un sesterzio!”
Ma se tu non lo spendi, a cosa serve
tanta ricchezza posta lì a dormire?
Mettiamo che battuti abbia di grano,
nell’aia tua, di moggi centomila,
non per questo il tuo ventre è più capiente
e può riempirsi più di quanto il mio,
né chi tra i servi porta un più gran peso,
potrà saziarsi con più grande pane.
Poiché noi, di natura entro i confini,
siamo costretti, cosa può cambiare
tra arare mille campi o ararne cento?
Forse dà più piacere attinger grano
da più grande deposito che un cesto?
Perché tu vuoi lodare i tuoi granai,
più di quanto facc’io con la mia gerla?
E’ come se un bel dì, avendo sete,
per tuo volere, l’acqua di in un ruscello,
tu rifiutassi, essendo miglior cosa
attinger l’acqua da più grande sponda.
Così che avvien, chi più del giusto agogna,
travolto con la riva vien dall’onda.
Ma chi vuol solo ciò che a lui fa d’uopo,
né attinge l’acqua immonda da gran fiume,
né a rischio alcuno la sua vita pone.
Ma da gran cupidigia una gran parte
di noi si lascia prendere la mano:
“Nulla è di troppo”, dice, “Ognuno vale
per quanto egli ha, non c’è nulla da fare.
Lascialo far, se il poco l’accontenta”.
Ci fu in Atene un tal spilorcio e ricco,
sprezzante e sordo ai fischi delle genti,
né mai lui si curò dei lor commenti,
essendo conveniente, per suo dire,
godersi i sui tesori nel forziere.
Se Tàntalo assetato anela l’acqua
che fugge via dalle assetate labbra,
ché ridi? Sol perché cambiato è il nome?
La favola è per te, ti sta a pennello:
tu dormi a bocca aperta su quei sacchi,
né ardisci di tastarli con le mani,
qual mostri sacri o gran quadri d’autore
da mirar da lontano e non toccare.
Forse non hai capito qual sia l’uso
e a cosa serva tutto quel denaro?
Compraci pane e vino, la verdura
e tutto quanto occorrere a te possa,
cos’altro per natura è d’uopo avere?
Forse che miglior cosa è stare insonne
notte e giorno a vegliare il tuo tesoro,
temendo i ladri, il fuoco od altri eventi
o che i tuoi servi prendano i tuoi scrigni
e fuggano lontano coi tuoi ori?
Ad un tal prezzo vivere non vale.
Ma io ti dico: Se gran febbre assale,
o un grave male ti costringe a letto,
hai chi t’assista ed i fomenti appresti,
che al medico ricorra affinché sano
tu possa ritornare alla famiglia?
Ma né la moglie né tuo figlio brama
che tu ti salvi. A tutti inviso sei:
ai vicini, alle serve e alle fantesche.
Non ti meravigliare, se a ogni cosa,
anteponi il denaro, se nessuno
per te si dà pensiero oppure ha affetto.
Forse ritieni perdere il tuo tempo
se cerchi di tener stretti i parenti
che natura ti ha dato e farli amici,
al pari di chi dà lezione a un ciuco
perché galoppi ed ubbidisca al freno?
Quando avrà fine l’ingordigia tua?
Sebbene tu abbia tanto, ancora temi
la tua miseria? Or basta! Ch’abbia fine
la tua avarizia, più non c’è motivo
che l’indigenza assilli i tuoi pensieri,
non fare come fece un certo Ummidio,
breve è il racconto: egli, tanto ricco,
da contare i suoi soldi con la pala,
fu così gretto che vestiva meglio,
l’ultimo schiavo, e fino alla sua morte
temette di ridursi in gran miseria,
fin quando, una liberta coraggiosa
Tindaride, ne fece grande scempio
e con la scure in due divise il corpo.
“Qual consiglio mi dai? Forse che Nevio
o Nomentano siano a me d’esempio?
Tu associ cose che sono discordi,
s’io dico di non essere più avaro,
con ciò non voglio dire spreca il tutto,
tra Tanai ed il suocero Visellio,
c’è una strada di mezzo, ed io ti dico:
est modus in rebus, c’è un confine
oltre il quale non puoi trovare il giusto.
Or là, d’onde partii, faccio ritorno.
Per qual motivo avviene che nessuno
è pago del suo aver, guarda l’avaro,
e loda invece chi segue altra via
e una struggente invidia lo divora
se la capretta del vicino suo
ha le mammelle gonfie e dà più latte,
né si fa paragone alla gran massa
dei meno facoltosi e questo e quello
invidia, ché fann’ombra ai suoi forzieri?
Come l’auriga, quando scalpitando
i cavalli si lanciano coi cocchi,
incalza quelli che gli son davanti
e non cura chi è dietro e a gran fatica
cerca di superarlo, così a lui
sempre si para innanzi uno più ricco.
Ecco perché di rado odi qualcuno
dire ch’è soddisfatto della vita,
che quando, giunto al fin dei giorni suoi,
sen vada come un sazio commensale.
Ora basta, non voglio che tu pensi,
che ai ben forniti scrigni di Crispino,
detto il cisposo, io abbia messo mano.
Ora mi fermo qui, non vo’ più avanti.


Orazio: Iter Brundisinum   


Partii da Roma e mi fermai ad Ariccia,

poco ospitale, ed era mio compagno
il retore Eliodoro, il più sapiente
tra i saggi Greci, ed al For’ Appio poi,
ch’è pieno d’ imbroglioni e marinai.
Questo tratto di strada, essendo pigri,
dividemmo in due tappe, ma, chi ha fretta,
fa questo tratto in una tappa sola.
L’acqua inquinata qui mi sciolse il corpo
e per prudenza non mangiai la sera
guardando, con invidia e gelosia,
Eliodoro cenare in compagnia.
Quando il sole calò, ombre alla terra,
stelle al ciel diffondendo, alla buon’ora,
gli schiavi e i barcaroli, tutti in coro,
si lanciarono insulti tra di loro:
“Accosta qua”; “Ma siete fuor di senno?
La barca è colma, andiamo tutti a fondo!”
Per pagare il pedaggio ed alle mule
legar le funi, passa più d’un’ora.
La palude Pontina fu un tormento,
con tanto di zanzare, rospi e rane,
che escono di notte dalle tane,
se poi ci metti il canto di un viandante,
ebbro di vino, e di quei marinai,
ch’esaltano postriboli e puttane,
capirai che il dormire fu un problema,
col corpo sciolto ed anche senza cena.
Quindi facemmo sosta e il marinaio
legò le mule a farle pascolare,
poi in braccio al Dio Morfeo, lui fu beato,
ed io stordito e mezzo addormentato.
Quando poi venne il giorno, ci s’accorse
che il barcone era fermo e ognun dormiva,
il comandante, preso il suo scudiscio,
spianò le terga ai muli ed ai suoi servi.
Alla quart’ora poi fummo sbarcati.
Laviamo la tua bocca e la tua mano,
Feronia, ché il mio dire poco casto,
recar potrebbe offesa al tuo sentire.
Auxùr, poi ci accolse, che fu eretta
sopra rupi che s’ergon verso il cielo
e là aspettammo il grande Mecenate
e Cocceio ed insieme Capitone,
grande amico di Antonio e confidente.
Per ingannare il tempo e nell’attesa,
spalmai sugli occhi miei cisposi e stanchi,
nero collirio, insieme ad altri unguenti.
Lasciammo Fondi molto volentieri,
dov’era gran Pretore Aufidio Lusco,
misero scribacchino e gran vanesio,
e per fargli dispetto, e a noi piacere,
bruciammo le sue insegne in un braciere.
A Formia pernottammo, essendo stanchi,
ospiti di Murena e Capitone.
Gratissimo fu invero il dì seguente:
Vario, Virgilio e Plozio, tutti insieme,
vennero incontro a noi a Sinuessa,
anime eccelse, né di più sincere,
generò mai la Terra e il cui rispetto
diffuso è pel sapere e per l’aspetto.
Oh quanti abbracci! Quanto fu il piacere!
Una villetta, là, vicino al ponte
detto Campano, ci ospitò la notte,
e gli anfitrioni, sì come conviene,
di legna ci fornirono e anche sale.
Partiti poi di lì, ad ora tarda,
a Capua si arrivò verso il tramonto,
e mentre Mecenate va a giocare,
Virgilio ed io andiamo a riposare,
giocare a palla infatti è un po’ dannoso
al corpo sciolto e a me che son cisposo.
Ripartiti da Capua poi ci accolse
la villa di Cocceio, ch’è ben fornita
d’ogni cosa che dà gioia alla vita.
Ora, o Musa, vorrei ci ricordassi,
l’alterco tra Sarmento e il buon Cicirro:
Primo Sarmento disse: “ Sei un cavallo,
avendone il sembiante e il portamento”.
E mentre noi si ride, il buon Cicirro:
“Sono un cavallo?” E scuote a lungo il capo.
“Ma tu, con la tua fronte deturpata,
priva di un corno, cosa mi faresti
se il corno sulla fronte ancora avessi?
Sei brutto come un fauno, hai un occhio solo,
perché non balli come il gran Ciclope?
Forse il morbo campano tolse il senno
a te, così deforme e senza ingegno?”
Cicirro molte cose a lui rispose:
“Hai fatto offerte ai Lari? E la catena
di schiavo hai forse offerto ai sacri Numi?”
Così piacevolmente e con diletto
passò la sera e poscia tutti a letto.
Da lì arrivammo quindi a Benevento,
ove un oste zelante più d’ogni altro,
nel far l’arrosto con i magri tordi,
la taverna per poco mandò a fuoco.
La fiamma s’innalzò sino al soffitto,
e bello fu vedere i commensali
uniti ai servi per salvare i tordi.
Da lì potei vedere gli alti monti
oltre i quali s’estende la pianura
di quella Puglia ricca ed ubertosa,
ma devo dire prima un’altra cosa:
ci fermammo a Trevico in un locale
pieno di fumo, ché, nel suo camino,
bruciavan rami verdi insieme a foglie.
Quanto aspettai una giovane fanciulla
che venisse a trovarmi! A mezzanotte
m’addormentai deluso nel mio letto
ché la promessa sua fu sol per celia.
Un erotico sogno fu carogna,
ché mai il mio membro fu sì duro e teso,
e tale il segno fu di quel tormento,
che se ne bagnò il letto e l’indumento.
Da lì arrivammo a Ruvo, molto stanchi,
la strada dissestata fu severa
e piovve da mattina fino a sera.
Il giorno dopo il tempo fu migliore,
ed alla vista apparve in lontananza
Bari con le sue mura e i suoi palazzi.
E dopo Bari si arrivò ad Egnazia,
non gradita alle Ninfe, ove si dice
sia l’incenso a bruciare senza fiamma
sulla soglia del tempio, sol menzogna,
ci creda pure Apella ch’è giudeo,
non io,  perché ciò avviene per natura,
e gli Dei se ne stanno senza affanni
su, nell’alto dei cieli, e senza inganni.
A Brindisi arrivammo dopo un giorno.


Orazio “Lo scocciatore”


Per la via Sacra stavo passeggiando,
come faccio di solito ogni giorno,
ragionando tra me del più e del meno,
assorto, com’è d’uopo, nei pensieri,
quand’incontro un passante a me sol noto
per il suo nome e stringe la mia mano:
“Mio caro, come stai? Quale fortuna
è l’averti incontrato!” Ed io rispondo:
“Sto ben per ora, che non venga peggio,
ed anche a te io quest’augurio faccio.”
Poiché lui mi si affianca e poi mi segue,
gli chiedo: “Posso fare qualche cosa
per te? Perché mi segui?” E lui risponde:
“Non mi conosci? Sono un letterato”.
“Quand’è così, ancor più caro sei”,
io di rimando, e quindi allungo il passo
e poi mi fermo e parlo col mio servo,
mentre un freddo sudor mi bagna il corpo.
Tra me pensai: beato te Bolano,
non hai altro da fare o a cui pensare?
Mentre l’altro cianciava a più non posso
elogiando i rioni e tutta l’Urbe,
io non gli davo corda e allora disse:
“Sembri aver fretta, ma tu sta pur certo,
ch’io ti sarò compagno ovunque vada.
Dove mai sei diretto? Vengo anch’io!”
“Non è il caso tu venga, vo lontano,
vo a trovare un amico ch’é malato,
oltre il Tevere sta, c’è troppa strada,
fa le tue cose, non ti disturbare.”
“Non ho nulla da fare e non son pigro,
t’accompagno fin là, t’ho da parlare”.
Come l’asino abbassa le sue orecchie
pel grave basto imposto sulla groppa,
così mi sento e non so più che fare.
Poi continua: ”Se bene io mi conosco,
tu non avrai più cari Visco e Vario
di me, che nel comporre non ho eguali.
Io so ballar con grazia e so cantare,
anche Ermogene mi dovrà invidiare”.
Era tempo di darci un taglio e dissi:
“Non hai una madre tu o una famiglia
ch’abbia pensiero per la tua salute?”
“Non ho nessuno essendo tutti morti!”
Beati loro, penso, è giunta l’ora!
Un amaro destino su me incombe:
una vecchia Sabina già predisse
che sarei morto non per un veleno,
né trafitto da spada, per pleurite
o per tisi, ma che da un ciarlatano
stessi alla larga e stessi anche in campana.
Era un quarto del giorno già passato,
quando di Vesta noi arrivammo al Tempio
e per fortuna quello scocciatore
doveva comparire in Tribunale
per non perder la lite e in sua manleva.
“Perché non m’accompagni, è sol per poco.”
Così mi dice: “Io salgo in Tribunale,
vado e torno, ché certo non mi vale
perder la lite e farne anche le spese”.
“Mi prenda un colpo s’io so stare in piedi
ad attendere lì, son letterato,
non m’intendo di leggi e di processi
e poi, io devo andare, e tu lo sai.”
“Ho il dubbio se lasciare te o la lite”.
Lui dice. Ed io: “Ma cura i tuoi interessi!
Non sia mai detto!” Ed egli s’incammina
e mi precede ed io, vinto, lo seguo.
“Che fa il tuo Mecenate?” Ed io rispondo:
“Non vuol la confusione o troppa gente,
pochi, ma buoni, son gli amici suoi.”
E quegli a me: ”Hai avuto gran fortuna,
se a quel signore tu mi presentassi,
sarei per certo a te di grande aiuto,
e in poco tempo tu saresti il primo”.
“Guarda che là non è come tu credi
e quella casa ha un suo regolamento,
priva d’intrighi o di favoritismi,
ognuno sta al suo posto, ognun fa il suo,
né invidia o gelosia ho per qualcuno
che più ricco di me sia o più sapiente.”
“E’ incredibile, quasi non ci credo!”
“Io ti dico è così. Stammi a sentire.”
“Questa cosa mi piace e ancor più bramo
di conoscere l’uomo di cui parli.
Certo che a te non mancano quell’arti
per convincerlo a farmi del tuo gruppo,
anche se non è facile l’approccio.
Non mi risparmierò, con delle mance
m’ingrazierò i suoi servi e anche se accade
che mi metta alla porta io non demordo,
cercherò di creare l’occasione,
l’aspetterò per strada con costanza,
non mi darò per vinto in ogni caso.
Nulla si può ottener senza travaglio.”
Mentre lui parla, ecco venirmi incontro
un caro amico, un certo Aristio Fusco
che certo conosceva quel furfante.
Ci fermiamo e diciamo: ”D’onde vieni?
Dove vai?” Sono salvo, io penso, e spero
che mi tragga d’impaccio e mi dia aiuto.
Lo afferro per le braccia e gli fo cenni
perché mi sia d’aiuto, e lui, ridendo
pare che non capisca e fa lo gnorri.
“Se non mi sbaglio un giorno tu m’hai detto
che volevi parlarmi un po’ a quattrocchi.”
“Un’altra volta, ch’io non son disposto.
Oggi c’è il novilunio, non è cosa,
è un sabato solenne, io non profano
dei circoncisi, quando è festa, il giorno.”
“Non son superstizioso”. Gli rispondo.
“Ma io sì, non lo faccio e ti saluto.
Scusami, parleremo un’altra volta.”
Qual nero sole, ebbe a spuntar quel giorno!
Quand’ecco, all’improvviso, da lontano,
inaspettato arriva il suo rivale
che gridava a gran voce: ” Dove scappi,
canaglia?” E a me: ”Tu sei mio testimone!”
Io, manco a dirlo, porgo a lui l’orecchio.
Lo trascina in giudizio con grand’urla
da una parte e dall’altra, accorre gente.
E fui salvato dal divino Apollo.


1 commento:

  1. Egregio Prof. Pardini, il mio professore dell'epoca criticò la mia traduzione perchè non era, a suo dire, "letterale". Per educazione non dissi nulla, erano altri tempi. Avrei voluto chiedergli come si pretendere di tradurre un testo latino in versi endecasillabi senza discostarsi minimamente dall'originale.
    La ringrazio per le Sue parole che qui riporto:
    Carissimo Vicario,
    bel lavoro, veramente, traduzioni originali e ligie al testo. Degne di pubblicazione e di diffusione nelle scuole, ove spesso ci si dimentica delle nostre origini latine e della bella poesia.



    RispondiElimina