sabato 5 settembre 2015

N. PARDINI: "IN MEMORIA DI VITTORIO VETTORI"


                    Vittorio Vettori cenni biografici
                        Vittorio Vettori (1920-2004).

Grande umanista, scrittore, poeta e critico letterario, Vittorio Vettori è stato autore di oltre centocinquanta opere di narrativa, poesia e critica artistica e letteraria, oltre che di studi su 
Vittorio Vettori

Dante e La Divina Commedia, tradotti in numerose lingue. A testimonianza dei fecondi rapporti di scambio intellettuale intrattenuti da Vettori con alcune delle più importanti figure del Novecento, nel 2004 la biblioteca Riccardiana ha acquistato il carteggio Vettori, custodito nel Fondo a lui intitolato e conservato nella Sezione Manoscritti e Rari. Accanto agli scritti sul Sommo poeta, che hanno accompagnato l'intera vita di Vettori, la biblioteca esporrà alcuni tra i suoi codici danteschi più preziosi insieme a rarissimi incunaboli ed edizioni del XVI secolo particolarmente significative nella tradizione della Commedia. Il gesto di liberalità, motivato, spiega una nota, dal grande amore di Vettori per il capoluogo toscano, è stato ‘anticipato’, tempo addietro da una precedente donazione: l’umanista fece omaggio di oltre 36000 volumi alla Biblioteca Rilli-Vettori di Poppi, nel Casentino, sua terra d’origine. 



In ricordo di Vittorio Vettori

Nazario Pardini

 


*A goccia a goccia per le vie del
dolore, l’uomo diventa saggio
attraverso la terribile grazia di Dio.
(Eschilo)

Vittorio Vettori si è spento il dieci febbraio del 2004. Questo il mio telegramma: Le condoglianze più sentite per un amico che lascerà un vuoto incolmabile. La prima volta che lo incontrai fu ad un Premio Letterario in cui ero membro di giuria: al Santa Maria in Castello, città di Vecchiano. Vinse con una poesia inedita. Era l’anno 1994. Mi disse: “Dammi del tu, poeta!” Aveva questa facilità, da buon toscano, nel rapportarsi con gli altri. E la parola. Sì, proprio la parola era il suo forte. Scelta, filtrata, accalorata, immediata e gettata d’impeto sulla platea come può fare un grande attore nel pieno della sua forza recitativa e interpretativa. Amava scrivere Vittorio. Su tutto e con tutti i mezzi. Grande dantista, fine ed attento critico, eccellente poeta, filologo nel trattare il verbo. Per lui la poesia doveva scorrere nelle vene con fluidità come caldo scorre il sangue fino al cuore. Non accettava in certi poeti il dire prosastico, il versificare in prosa. “La poesia è poesia e basta! e non chiedere altro. La si deve sentire, non ha bisogna di essere spiegata”. La ricchezza del lessico, permeata da un flusso d’immensità cristiana, rendeva il suo stile pregno di valori umani e sovrumani. Ciò senza togliere niente al carattere esistenziale di un dubbio che dilata l’anima al senso dell’essere e dell’esistere. Dice Giorgio Luti di lui: “... la tensione verso lo spazio metafisico non è la sola chiave di lettura di questi versi che per molti aspetti chiedono una diretta implicazione nella concretezza dei giorni, o quantomeno l’accettazione di una continua dialettica tra “cielo” e “terra”, tra il “paradiso” della speranza e l’“inferno” della contingenza. Tra questi due termini estremi si snoda, con una misura di controllata classicità e con una sperimentata sapienza ritmica, il discorso poetico di Vettori secondo un disegno organico che affida alla presenza del mito classico un ruolo determinante”. E Luti si riferisce soprattutto ai testi del libro dal titolo Ultrasera di cui riporto alcuni versi. “Unito con Dio e nell’essenza/ munito di Dio. Non più io/ se in me da sempre c’è Dio/ che dice il silenzio. Presenza/ dolcissima eppure tremenda/ quando l’io che fui si discioglie/ nel vento del Nulla e alle foglie/ cadute assomiglia” (Allunghi sua ombra la sera); “La tua immagine vera m’era accanto/ l’altro giorno alla Verna quando a un tratto/ il grande Paul Claudel che tu m’hai fatto/ comprendere più e meglio di quel tanto/ che si può col cervello e non col cuore,/ mi si fece presente dal profondo/ di un assiduo pensare accline al mondo,/ simile a lampo acceso nel buiore,/ mentre mi domandavo quale Musa/ salverà l’uomo dalla sua rovina./ “Quale Musa?”, mi disse, “E tu indovina,/ ripensando a quel luogo di una chiusa/ mia canzone ove dico esattamente:/ “La Muse qui est la Grâce”: quella sola/ che scende fra di noi e poi rivola/ nella beata luce trascendente...” (L’altro giorno alla Verna); “Mi dici che ti dolgono le ossa./ Dunque il bel corpo germogliato vivo/ dal seme mio gettato nella dolce/ terra carnale dell’amata sposa/ si regge su quest’ossa che ti dolgono./ ... / Eppure prego/ quell’altro Padre che ad entrambi è padre/ di soccorrerti sempre, figlia: e prego/ l’angelo che ti veglia di scortarti/ col suo lume segreto fino al giorno/ della seconda nascita futura” (Momento paterno). Poesia robusta, di struttura classicheggiante, metri che denotano una spontaneità, frutto di una grande impalcatura culturale; era quello che Vettori amava, quello a cui si sentiva più vicino: l’impiego di un endecasillabo rivisitato, lavorato in corrispondenze e punti fermi a metà del verso, creando finezze metriche quali i ripetuti enjenbements per frangere l’ordine versificatorio; e non scendo nel particolare delle figure, su cui troppo sarebbe da dire. Sapeva schiodare dalle piccole e dalle grandi questioni la stessa cifra poetica, riflesso di una grande penna. Per anni ho lavorato con lui e Luti nel Premio Tanzi di S. Mauro a Signa, discutendo sul valore di certi scritti: per ore ci siamo confrontati su quelli che sono gli schemi e i contenuti della poesia. Per lui era sempre chiaro il discorso: poesia concreta, fatta di impegno forte e sorretta da uno spessore stilistico meditato e calcolato pur nella sua spontaneità. Da lui ho imparato a penetrare nei reconditi del linguaggio, e soprattutto ho derivato quella grande carica di umanità senza cui scrivere si fa sostanzialmente routine formale. Forse Vittorio si sarebbe meritato qualcosa di più. Non so da cosa sia dipeso, il fatto sta che la grande portata e del personaggio e della quantità e qualità dei suoi scritti (oltre centocinquanta le pubblicazioni) lo avrebbero dovuto collocare su un piedistallo ben più elevato nel panorama letterario nazionale. Quello a cui lui forse nemmeno ambiva. Fra i vari scritti, sue sono le prefazioni a due miei testi: Alla volta di Lèucade e Si aggirava nei boschi una fanciulla. Quando decisi di presentargli le bozze della mia Lèucade l’andai a trovare nel suo studio di via Delle Ruote 31 a Firenze. Uno studio zeppo di libri, di fogli che traboccavano da ogni parte. Nemmeno ci si girava. Mi fece sedere, si parlò del più e del meno e mi disse: “Intanto diamo un’occhiata veloce”. Sbirciò le pagine in qua e in là, leggicchiò e “Mi piace la forma compatta, misurata, frutto di studio e di pensamento. Ma soprattutto l’attualizzazione di certi argomenti, quali la poesia di poeti arcaici e il mito, quasi una sfida a certa poesia contemporanea”. Io credo che una parte di questa prefazione, in cui parla di sé, della figlia Cristina e soprattutto di un certo pensiero sul rapporto tra pisanità e impero (idea ripresa dal testo di Rudolf Borchardt Solitudine di un Impero, qui citato) contribuisca ad arricchire la conoscenza del personaggio. “ ... Su Pisa, sulla sua multipla poesia e verità di Pisae Pisarum esistono innumerevoli referenze e testimonianze non solo classiche e antiche ma anche moderne e contemporanee. Ma nessuna, credo, né tra le prime né tra le seconde, ha quel valore ultimativo e supremo di “giorno del giudizio” che dobbiamo riconoscere al grande libro pisano di Rudolf Borchardt Solitudine di un Impero. Borchardt è stato uno scrittore novecentesco europeo di lingua germanica, goethianamente legato al suo popolo e nello stesso tempo innamorato non meno di Goethe dell’Italia, da lui considerata e rivisitata soprattutto nello specchio imperiale di Pisa, dove le suggestioni drammatiche della scultura di Giovanni Pisano trovano eco e riscontro nella “mirabile visione” di Dante. Si aggiunga il peculiare talento narrativo dello scrittore tedesco, autore tra l’altro di uno straordinario romanzo uscito in anni recenti anche in Italia presso le Edizioni Adelphi e intitolato L’ospite indegno: e si potrà meglio capire come e perché Solitudine di un Impero abbia l’andamento romanzesco di un archetipo labirinto, con tanto di filo d’Arianna internamente innestato nell’aria di una dimensione enigmatica, equivalente praticamente alla reversibilità del bellissimo titolo che potrebbe pertanto essere pronunciato e risolto come “Impero di una solitudine”. Solitudine di un Impero e impero di una solitudine: tale è la realtà bipolare in cui, ho trascorso quasi trent’anni della mia vita (esattamente ventotto, dal 1949 al 1977), abitando prima in Lungarno Mediceo e poi in via Consoli del Mare non lontano da Piazza dei Cavalieri, dove adesso abitano mia figlia Cristina e i miei nipoti Sergio e Lucio impegnati, non diversamente dalla loro mamma e dal loro babbo Massimo Bontempelli, sul duplice fronte del pensiero e della scrittura. ...l’afflato rurale della poesia del Pardini travalica ogni limite di provincia, ricollegandosi in qualche modo, nel segno catartico di quella solitudine che ha in sé la forza catartica della comunione, all’ideologia metafisica dell’Impero. Che, se vogliamo usare il termine “ideologia” nel senso più nobile e puro della parola, è propriamente ideologia pisana per eccellenza, in quanto fa coincidere la perfezione del Cerchio, inteso come curvatura assoluta (oh, la curvatura dolcissima dei Lungarni) nella cui gratificante armonia tutte le differenze si conciliano e si compensano, con la necessità normativa del Centro, rappresentato in Pisa sia dalle spoglie di Arrigo VII custodite in Duomo, che dell’incredibile equidistanza della città tra le altre civiche realtà e tradizioni di Lucca, Livorno e Viareggio, sia dal primato educativo della Normale che dalla primogenitura euro-romantica incarnata “a ripa d’Arno” da Byron e da Leopardi non meno che da Shelley nel suo prossimo rogo tirrenico...”. L’ultimo scritto su una mia silloge non ce l’ha fatta a finirlo Vittorio. Doveva essere una prefazione all’inedito dal titolo Dal lago al fiume. Forse pensare che abbia portato in cielo una parte di me, contribuisce senz’altro a rafforzare quel legame che in terra, anche se forte, non riesci mai a percepire completamente.



* Citazione riportata da Vettori come introduzione a una sua poesia dal titolo Momento postumo dalla silloge Ultrasera









































3 commenti:

  1. Apprezzo molto quest’intervento dell’amico Nazario, del quale condivido pienamente la posizione. Anche perché più volte io e lui avevamo discusso per telefono sulla possibilità di recuperare alla memoria collettiva figure e opere di scrittori scomparsi. E l’operazione doveva trovare attuazione su questo blog. Così noto con piacere che il magnifico Pardini è passato dalle parole ai fatti, dando voce a chi non ne ha più e soprattutto concedendo giustamente spazio e onore a chi li ha meritati. Anch’io reputo che uno scrittore come Vittorio Vettori meriterebbe ben altro rilievo e maggiore rinomanza. Ma questa è l’epoca, più ancora che del “pensiero debole” teorizzato, tra gli altri, da Gianni Vattimo, di “cervelli deboli”, nel senso molto più banale di cervelli privi di memoria, grevi,consumisti e barbaramente ignoranti. Con la conseguenza che tutto va all’ammasso: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto.
    Chi ha ben operato in vita non deve essere dimenticato. Ha DIRITTO alla memoria, alla riconoscenza (e al riconoscimento) del ricordo. E perciò un bravo a Nazario per questo recupero memoriale di Vettori, letterato finissimo e poeta di spessore.
    Pasquale Balestriere

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  2. Ritornare con la memoria a valorizzare il grande Vittorio Vettori è stato per me un riportarmi ai ricordi di un tempo. Avevo conosciuto Vittorio molti anni prima della sua morte, mi aveva regalata la sua autorevole firma in prefazione, aveva fatto parte del premio letterario "Iniziative Letterarie, fondato da me (giunto alla XX edizione). Mi aveva presentato la sua ultima donna Ruth Cardenas. Egli era un personaggio di grande rilievo, una mente fervida e sincera, un critico di razza. Giusto appunto dice Balestriere che meriterebbe più risonanza, ma tant' è questo è il secolo delle inadempienze, delle dimenticanze: cervelli del "mordi e fuggi"squallore intellettuale e senza acume critico da parte di coloro che dovrebbero ergersi a paladini della cultura. Ma nessuno si assume responsabilità, nessuno vuole essere autonomamente in grado di dare rilievo a CHI veramente e giustamente non ha scritto nell'acqua. Il consumismo e la pseudocultura mercantile, labile e viziata di protagonismo stanno soppiantando e ostruendo memorie che dovrebbero rappresentare la nostra Storia Letteraria. Un plauso va al grande Nazario Pardini che tenta di far riemergere la memoria e di collocarla almeno sul Web al posto giusto. Grazie, caro amico, a te diciamo grazie col cuore.

    Ninnj Di Stefano Busà

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  3. Un ritratto di mio padre denso e fedele al suo spirito di amante delle Poesia e delle Lettere, di lettore e scrittore infaticabile e onnivoro.
    Ringrazio Nazario Pardini di questa bella e affettuosa pagina in ricordo di un Letterato, Umanista, Dantista, Poeta, Scrittore, di cui, come Pardini giustamente nota, non è stato riconosciuto appieno il valore, forse perchè era sempre un po' controcorrente e non perseguiva tanto il successo quanto piuttosto la profonda dedizione all'arte dello scrivere.
    Ancora grazie a Nazario Pardini, con l'augurio di poterlo salutare presto di persona! Cristiana Vettori

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