sabato 6 luglio 2019

ROSSELLA CERNIGLIA, PREFAZIONE A: "I DINTORNI DELL'AMORE..." DI NAZARIO PARDINI



I DINTORNI DELL'AMORE, RICORDANDO CATULLO di Nazario Pardini
Collana di testi letterari Alcyone 2000 – Editore G. Miano

PREFAZIONE

Rossela Cerniglia,
collaboratrice di Lèucade

I dintorni dell'amore, ricordando Catullo, la più recente opera poetica di Nazario Pardini, proposta nella memoria del grande poeta latino, è anch'essa divisa, come la precedente, I dintorni della solitudine,  in tre sezioni; è inoltre preceduta da una Lettera ad un'amica mai conosciuta, testo che ne richiama subito alla memoria un altro, che immagino vicino al sentire e alle intenzioni del nostro autore. Si tratta della poesia di Luis Cernuda, dal titolo A un poeta futuro dove troviamo gli stessi interrogativi, le stesse incognite, lo stesso bisogno di colmare il vuoto e la solitudine interiore e di trovare un senso alla propria vita che rintracciamo nel testo di Nazario Pardini. Vi compare anche l'immagine di uno stesso fiume che porta in Uno vicende ed esperienze umane - metafora dell'esistente da cui precisamente prende l'avvio il testo in prosa del nostro autore. Ma, al di là di questo, un unanime respiro connette le due scritture: un tono epistolare intimo e confidente che con movenze accattivanti ed emblematiche, si innesta in una concezione dell'amore fortemente idealizzata, a testimonianza e suggello di una visione poetica e di un credo artistico che rimane a fondamento della loro opera.
   Il testo di Pardini si apre, come già detto, con una lettera che prende l'avvio dall'immagine di un fiume che trascina, insieme alle sue acque chiare, tutto ciò che incontra sul cammino, fino al mare infinito.
   Ed è, per l'appunto, una metafora della vita: il fiume che porta nell'immensità del mare, ovvero nella totalità dell'Essere, bene e male insieme a tutte le contraddizioni e le antinomie che connotano il contingente: il nostro essere, e quella realtà limitata, parcellare, conclusa che sembra fronteggiarci, ma che ci costituisce nel nostro essere più proprio, essendo una con noi.
    Il poeta, che si interroga intorno a questo “fiume”, si interroga sul senso dell'esistere, e in altri termini si chiede  dove andiamo, a cosa siamo destinati, e che senso abbia la vita umana in quanto costruzione di qualcosa a cui - nel bene o nel male - siamo chiamati.
   Quando “foscolianamente” ci induciamo a pensare nei termini di una nostra eternità laica, dicendo che ci eterniamo nella memoria dei posteri, credo che intendiamo dire anche questo: tutte le esperienze  e conoscenze dell'uomo sono fiumi, rivi, torrenti, che confluiscono nel grande, sconfinato mare della conoscenza che è nuova creazione e nuova vita. Un mare, dunque, che mescola la ricchezza e multiformità delle tante acque che affluiscono in lui, riportandole ad Unità. Riportando il multiforme e difforme ad Unità, cioè a nuova realtà e a nuova vita. Pertanto, l'uomo è parte integrante di un processo che estende l'opera divina, anche in forza del suo “libero arbitrio” - che non è assoluto, ma condizionato, anzi spesso pesantemente condizionato - ma è comunque quella facoltà di scelta che mette in moto il divenire, e che contraddistingue il suo pensare e il suo agire.
   A proposito dell'Amore, un tema che riveste vitale importanza in quest'opera, il poeta afferma che non debba mai allontanarsi dall'ideale della Bellezza, e dunque dalla Poesia. L'Amore, infatti, primo attributo divino, è il principio che informa l'universo. È Pneuma, spirito, energia del cosmo, che costituisce anche la nostra parte divina, la quale, tuttavia, nell'attuale civiltà sembrerebbe messa da parte, dimenticata in qualche oscuro canto di noi stessi. In questo concetto che lega insieme Amore ed  Arte, il Bene e il Bello, possiamo rintracciare quello della Kalokagathia che esprime l'essenza di quello spirito dell'arte greca, da Nietzsche definito apollineo.
   Nello stesso testo, inoltre, partendo delle premesse che l'autore va sviluppando, si fa strada l'idea di una poetica ben definita sulla base, non nuova - perché mai risolta e sempre, di epoca in epoca risorgente - di una quaestio a carattere  concettuale e linguistico che contrappone, in ambito letterario, il valore del “Nuovo” a quello dell'“Antico”-
   Pardini opta per una concezione in cui l'“antico” si innesti sul “nuovo” per dare nuovi germogli, nuovo frutto, nuova vita all'arte. Ma anche dove l'antico possa intendersi come il terreno, l'humus, il sostrato, la base feconda e intatta (eterna) della poesia che verrà dopo: una poetica che pienamente condivido.
  
   La prima sezione del libro, quella che dà anche il titolo all'intera silloge, sembrerebbe una rivisitazione dello schema amoroso catulliano delle Nugae, che costituiscono la prima parte di quel Liber di 116 componimenti poetici a noi pervenuto.
    Nelle Nugae vivono le alterne vicende della passione amorosa del poeta latino per una donna cantata col  nome di Lesbia - nel riecheggiamento del mito e del fascino della poetessa di Lesbo, Saffo.
   Anche nella prima sezione della silloge pardiniana trovano posto le vicissitudini di un amore nel dispiegarsi di momenti e tappe che in qualche modo richiamano ed intersecano il paradigma catulliano che procede dalla passionalità e fedeltà amorosa fino alla tragica constatazione del disamore e dell'abbandono finale. I componimenti di questa prima sezione non hanno titolo e sono separati tra loro da un asterisco.
   Questo attraversamento di momenti e di stati d'animo dispiega, anche nel nostro autore, un corollario di sentimenti ed emozioni, finemente elaborati, che stempera, tuttavia, e ammorbidisce i toni della passionalità più accesa di certi carmi catulliani.
   Le liriche pardiniane hanno lo stesso andamento tematico, e tutto è rivissuto e rivisitato nello spirito e - per certi versi - nello stile catulliano che è quello amoroso per eccellenza - anche se di un amore che ha i connotati e le sfumature peculiari dell'anima del poeta: connotati e sfumature che indicano una consonanza spirituale che attraversa il tempo per divenire nei due autori, afflato, visione, emblema  di uno stile che è misura di vita e immagine di una realtà.
   I componimenti sono brevi e, come i carmi catulliani delle Nugae con continui riferimenti alle personali vicende amorose. Si innestano nel tessuto dell'opera richiami più puntuali, e parziali rifacimenti di alcuni dei testi più rappresentativi del poeta latino, come è nelle pagg. 33, 45, 47, 48, e forse in qualche altra ancora.
   L'incipit di questa prima sezione è dato da versi pregni di amara dolcezza e del senso di ogni fatale declino che - sempre all'insegna dell'amore - conduce alla ricerca di una vita che sia più vera ed essenziale. I paesaggi sono un riflesso dell'anima, un esempio è fornito dalla pag.38: mare e spiaggia, pensieri e immensità che recano connotazioni dell'anima “...e un'aria grigia / ricopre i miei pensieri. (…) brusio di poca gente / ma tutto è vuoto /non mi consola niente.” 
   Natura  e  paesaggio  sono,  del  resto,  lo  sfondo  costante  dell'opera,  che  i  versi dispiegano   in ampia e variegata fenomenologia. Vivono sovente della dimensione del ricordo, e aprono a scene in cui si mescolano note passionali che vagheggiano sogni lontani (pagg. 37 e 39).
   In alcuni componimenti di questa prima sezione incontriamo una dolcezza che sconfina, a volte, nel gesto voglioso e irruento come pure avviene in qualche testo del poeta latino. Il personaggio centrale, è una Delia/Lesbia che ci riporta alla donna amata da Catullo, e che, come la Lesbia catulliana, si mostra a noi di riflesso, attraverso i sentimenti che suscita nel nostro poeta. Gli stessi versi aprono talora a suggestioni e vagheggiamenti di un passato arcaico in cui l'immagine femminile era accostata a quella della divinità, e vi si effonde una malinconica dolcezza che pare emanare dalla natura e dal paesaggio ed irradiarsi in palpito e in levità che si fanno canto di delicata elegia.
   Così la nostra Delia/Lesbia, trasfigurata, diviene ninfa vagante per i boschi, che ci appaiono intramati di elementi vegetali e umani: “ ...tingevano i capelli / i raggi rossi / penetranti tra i rami / e i butti smossi. / Olezzava il salmastro e  la tua  pelle...” E poco più avanti,  in un altro componimento: “(…) Forse non giungi, Delia, / ché più non mi ami? (...) Ma dal fondo del bosco, / ninfa vagante, / dal fondo del viale / verso i miei dubbi / muovi le tue grazie (...) ed io respiro / il tuo dolce profumo, / il tuo sospiro.” Una mescolanza visionaria in cui la bellezza femminile compenetra e anima la natura. E questa, a sua volta, si mostra come la degna cornice entro cui cantare la donna amata. Ma in essi si insinua il dubbio della fedeltà amorosa della donna, che ci riporta alla parabola catulliana, prima ascendente, poi declinante, di un amore che ci appare, nel suo incedere, fatalmente segnato.
  Comunque - al di là delle affinità che accomunano i versi dei due poeti - le vicende amorose sono, nelle loro opere, diversamente contestualizzate e il sentimento che le anima dipende dall'apporto complessivo delle singole esperienze di arte e di vita. 
    L'immagine della donna amata riflette, in ognuna delle due opere, atmosfere che appaiono consone al suo tempo, così la vicenda dell'amore tenero e appassionato del poeta latino riceve l'impronta nuova della realtà che vive nel nuovo poeta: e l'”Antico” trova un prezioso innesto nel “Nuovo” che avanza.
   Nella seconda sezione del libro Di vita, di mare di amore, i temi affrontati sono esplicitati nel titolo. E il primo componimento sembrerebbe, appunto, un inno alla vita e alla natura, tradite e devastate dall'uomo. Delle quattro strofe che lo compongono, le prime tre presentano l'anafora del verso iniziale “E noi ti demmo morte” a ribadire con enfasi e immagini di brutalità, lo scempio operato su di esse dall'uomo. D'ora in avanti, infatti, anche in considerazione dell'opera nefasta dell'uomo su di esse, percepiremo il sentimento dell'autore mutare, e i paesaggi e la vita intera ci appariranno, nei versi, disabitati, inquieti, silenti...  “(...) Mi prende il largo spazio: / sono il nulla e il nulla si dilegua / nel vento salmastro dell'immenso./ Non odo più la bàttima né provo / sogni e tristezze in questo diluirsi / del cuore nel mio mare.”
   Anche nei versi di Chissà per quali mete, troviamo lo stesso abbandono, lo stesso senso di vuoto e dismissione che si riflette nello sguardo che si allarga alla campagna “ Spentisi i girasoli, ammorbiditisi / i colori della mia campagna / resta un canto che accompagna / i rintocchi di una campana funebre. / Questo rimane di un'intera stagione: / un suono lento e peso /che rinnova un trasporto; / seccumi senza scricchi / per assenza si sole; / viti disabitate; / uccelli che svolazzano nel vuoto, / immemori di nidi.” Il senso di una morte incombente emana da questo lento sfiorire della natura, dallo spegnersi dei colori accesi dell'estate: cenni che divengono segni e simbolo dell'inesorabile fine di ogni cosa.
   Alcuni versi, come quelli di Ignoto verso il mare hanno poi un andamento lento e riflessivo, modulato, si direbbe, su una meditazione che proceda sugli stessi passi del poeta “E' febbraio. Non vedi per i campi / traccia di paesani; tutto è fermo. / Persino lo svolare attende l'ora calda...” L'occhio osserva la natura che lo circonda, minuziosamente, in una calma riflessiva che conduce al ricordo di un tempo lontano, di una giovinezza colta nel dolce e amaro sentimento del nostos. Il presente, infatti, non vive più delle grandi speranze di allora: “ (…) “A te mi dono / mese di nostalgie! Di quando a sera / ci si accostava al fuoco con un animo / già pronto ad incontrare primavera: (…)  E ti rivivo, / seppur la mia speranza / non cova rami in fiore”
    In altri momenti, l'interiorizzazione del paesaggio è dovuta a un sentimento di vastità panica che abbraccia il Tutto, tutto il paesaggio in un unico afflato, e la terra in un sentimento filiale: “Nessun pensiero / mi assalirebbe di dolore o di paura / sui sentieri di campo solitari / di papaveri tinti e di ginestre. / Volerei felice tra le reste / scricchiolanti di calura estiva / alla deriva / in possesso dei suoni e degli afrori /della mia madre antica.” E l'uso ottativo del condizionale avverte, appunto, dell'insanabile distacco tra la realtà e il desiderio.
   Ritorna spesso, come in E' l'aria di novembre, il parallelismo tra il trascolorare della natura e il declino della vita umana, già rilevato nei versi di un'altra silloge I dintorni della solitudine: “ (…) Resta / un silenzio che ingloba nel suo manto / la stanchezza del mondo. (…) Qui respiro il riposarsi fragile dell'aria, / lo scorrere caduco di stagioni / che sembravano eterne. (…) E se mi specchio / mi vedo stagione / che lascia alla corrente / l'ultimo verde delle sue memorie.” La consonanza tra immagini e sonorità del verso è di straordinaria bellezza e levità.  E straordinaria, come dicevo, appare la chiusa della poesia dove il pensiero e il sentire umano trovano espressione nel simbolismo universale della natura.
   Il tema dell'amore ricompare evocato dal ricordo di un paesaggio visitato insieme all'amata. E  il personaggio della dolce Delia torna nei versi di Ode, - e in altre pagine - e si mescola a questo tenue rammemorare, al vagheggiamento di momenti estatici che si fondono al paesaggio e lo nutrono di atmosfere vaghe e fluenti come il trascorrere delle stagioni nell'aria. Torna anche, nell'ultima strofa, un riecheggiamento dei versi catulliani del “soles occidere et redire possunt”, a commento di questo dileguarsi di eventi e di visioni che è la vita.
    Nell'Ecfrasi, intitolata il Canto della bellezza, compare il tema dell'idealità amorosa che si dispiega nella sublime immagine di un amore estatico, immortalato fuori dal tempo attraverso la descrizione di un gruppo marmoreo in cui gli amanti non consumano l'acme della loro attrazione, che è magnetica, fatale. E la rappresentazione delle forme è, pertanto, la rappresentazione di questa attrazione che rimane ferma in se stessa, senza trovare un divenire nella materia. Attrazione che  diviene astrattezza e pura idealità nel suo esimersi dalla incarnazione ed oggettivazione nel reale, e dunque dallo scadimento di quel gesto puro in una contaminatio che lo priverebbe di quella assoluta bellezza che lo apparenta al divino: sublime descrizione di un attimo che ferma sulla soglia del divenire un gesto estatico, e lo rende eterno simulacro dell'Amore.
   Il tema del mare, presente in vario modo nella silloge, si presta ad esprimere, per traslato, più di un aspetto della vicenda umana, e  al tema del mare è da ascrivere La barca, ultima lirica della seconda sezione: qui i versi sono tutti intessuti di metafore – barca, mari indifferenti, onde pellegrine, aspri scogli, porto, faro ecc.– afferenti per lo più a un'area semantica di dominio psicologico-esistenziale, ma anche a quella valoriale delle esperienze umane “ Sono una barca che s'inarca al mare, / sono un fuscello in balia del vento / che cerco un porto (…) I remi stenti / hanno solcato mari indifferenti / verso il chiarore delle mie speranze. (…) Ho navigato incerto in queste acque / sbattuto spesso da onde pellegrine / in scogli aspri e crudi; in rocce scure. (…) Aspetto un porto. Un faro che m'illumini; / una scia che segni la mia rotta (…)”. E i versi chiudono con un desiderio e una ricerca, dentro una quasi disperata speranza.
    La terza sezione della silloge è intitolata Canzoniere pagano; ed è da escludere, naturalmente, che l'attributo, abbia alcun riferimento al significato che esso andò acquistando in relazione alla sopravvivenza degli antichi culti politeistici nelle campagne dopo l'avvento del cristianesimo.
    In questi versi non è implicato alcun rapporto con la religione se non quello con una realtà che, nella sua idealizzazione, conserva tuttavia qualcosa di sacrale – tema anch'esso rilevato nella silloge I dintorni della solitudine - dove è intimamente rivissuto il rapporto con un paesaggio della memoria e con uno stile di vita, che riconducono l'autore alle sue lontane radici, alle ancestrali forme di un mondo dalla bellezza e purezza archetipiche.
   Compaiono, come in precedenza, immagini scelte di luoghi amati - accomunati in un canto intensamente lirico - ma ci si mostrano spesso anche in abbandono: luoghi dove, a volte, una Natura malata, quasi moribonda, parrebbe esalare un ultimo respiro “La zappa è appesa al filo del vitigno / incolto e abbandonato e tra i filari / è cresciuta gramigna (…) filtra quell'aria sana di  campagne /odorose e  feraci che a  frinire /continua  in mezzo a scorze rosicchiate // da talpe o a sibilare alle micragne /rimanenze di vita. (…) Paesaggi, cari alla memoria che rappresentano  per il poeta un richiamo vitale, un amore cui, nel vago, si mescola una incerta malinconica speranza. Così, talvolta, come nei versi di Albeggia, lo sguardo si posa con affetto sulle cose, le osserva vagheggiando un lontano, impossibile ritorno a quel passato, a quel minuscolo paradiso che racchiude gli esseri cari, il senso di un tempo che l'anima custodisce: centro e forza del suo essere stesso, richiamo e voce di cose care e sacre non più presenti, non più raggiungibili come un tempo, e da cui nasce il respiro dolce e amaro di questa poesia.
   L'amore per la bellezza è una costante della continua ricerca che i versi sottendono, dipanandosi in un cammino attraverso un universo reale e, nello stesso tempo, entro il se stesso, nell'interiorità della propria anima che della bellezza fa tesoro, di essa respira. Nella lirica San Rossore, i passi, lo sguardo, lo spirito dell'autore documentano, appunto, questo anelito e ricerca costante della bellezza nelle forme di quel grembo paradisiaco che è la Natura, la grande Madre  che questi tesori ancora elargisce, a dispetto dell'incuria e del degrado cui l'ha condotta l'uomo. L'andamento dei versi, il loro ritmo riposato e lento, ci riportano ancora a un andare “Solo et pensoso per i deserti campi...” -come già, forse più  palesemente alla pagina 49 della prima sezione - ma non per nascondere agli occhi indiscreti l'animo esacerbato da una passione amorosa divorante, bensì in meditazione, per una necessità di ascolto di se stesso in solitudine e di un colloquio col suo essere più intimo e profondo, vale a dire con la sua stessa anima. Gli accenti e le sonorità dei versi, le descrizioni dell'elemento naturale, evocano l'insistente richiamo di questa voce che tutto riporta a un ancestrale mondo di sanità e purezza, ormai in disuso, e a canoni estetici e valoriali che hanno dato un imprinting radicale all'anima del fanciullo e dell'adolescente, in un tempo lontano.
    In tutte le poesie di questa sezione, torna, infatti, e trascorre, proprio il ricordo di “quel tempo lontano”: troviamo versi memorabili in All'alcione; e in Giusto figure di un'antica età compare un aspetto di quel mondo che una sacra nicchia conserva nel suo cuore: il ricordo dei pastori transumanti la cui anima sembra vivere, in pienezza, degli spazi smisurati e della purezza dell'essere in una natura ancora incontaminata.
   Troviamo, in alcune poesie, echi e rimembranze di altri testi, per esempio in Il tempio, la memoria va  alle Correspondances  baudeleriane,  mentre  La  casa  del  colle  - ma solo per lievi assonanze -   
vagamente richiama La casa dei doganieri  di montaliana memoria.
    Anche l'amore si lega spesso a queste immagini di paesaggi, e di quel  mondo che lo santifica e lo rende eterno nel ricordo. E nelle descrizioni talora aleggia l'impronta di un passato leggendario, e il mito si frammischia alla realtà e alla storia come è, ad esempio, in Volo pagano: “Lèucade profumata di salina / memoria io ti trovai tale alla spiaggia / dell'ombrata Versilia, ove la pina / rumoreggia con tonfi sulla gaggia / dorata dai suoi tirsi (…) Mi ghermirono  / con violenza gli artigli di possenti / avvoltoi e mi levarono su rade / tanto in alto, che vidi sotto me / il brulicare d'isole affollate / di miti, ninfe, dèi e antichi re. (...)  
   Fedeli alla sostanza delle affermazioni presenti nella prosa iniziale, in cui il poeta ci dava visione del suo modo di intendere e di fare poesia, i versi di questa silloge coniugano in modo alto tradizione e modernità in una sintesi di elementi e valori che procedono naturaliter, come genuino sentire di chi questi valori ha maturato nei lunghi anni di studio e di ricerca, ed elaborato con profonda raffinata sensibilità che investe tutto il portato esperenziale della sua individualità umana, poetica e culturale.
    Ci appare consono, pertanto, trovare nella raccolta, a fare bella mostra di sé, versi che seguono lo schema fisso della tradizione, come i diversi sonetti, finemente elaborati, che punteggiano e impreziosiscono il testo. E una corposa presenza dell'endecasillabo, anche a prescindere da essi.
    Altra peculiarità è il subentrare, e a volte la mescolanza, di livelli linguistici che potrebbero sembrare eterogenei: quello di una lingua aulica, colta e raffinata, e quella di una più dimessa, di matrice bucolico-agreste, con terminologie che partono da un quotidiano che inerisce a quella specifica realtà, verso una parlata che si assottiglia in idioletto come specchio di una realtà in disuso, abbandonata e dismessa.  
    E questo scarto del linguaggio è, naturalmente, lo scarto stesso di una realtà che sempre più si allontana al nostro sguardo. Lo scarto e l'allontanamento di un mondo caro al poeta, e che il poeta torna a rivivere, e a far rivivere con la nostalgia del suo cuore innamorato e devoto.
   Una dissonanza che, al tempo stesso, convive e “consona” nell'unità dell'anima che compendia e condensa ogni diversità e disparità in nuova e unitaria acquisizione, in personale patrimonio di cultura e di vita.
                                                                                                 Rossella Cerniglia 


1 commento:

  1. Grazie, carissimo Nazario, per aver postato sul tuo Blog la mia prefazione al tuo bellissimo libro. Complimenti e auguri infiniti per i tuoi versi che meritano davvero tanto!

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