sabato 13 marzo 2021

FRANCO CAMPEGIANI: "UNA STRANA PULSAZIONE"


Una strana pulsazione

Benessere e salute morale

Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade 


Porto sempre con me un ricordo di vicoli e torri, di piazzette e tetti a sghimbescio sotto cieli d’un azzurro intenso. E quante corse fra le penombre diafane delle case, dove asini e muli sostavano, mentre un coro armonioso di stornelli, di ragli e nitriti giungeva dalla valle, accompagnato dal ticchettio degli scalpellini nelle cave! Lune medioevali sgocciolavano miele dorato sui campanili e sui platani, riflettendosi nelle fontane, negli specchi delle botti messe in piedi, all’aperto, a stagnare.

La mia infanzia è trascorsa fra quei vicoli odorosi di mosto e di pane: Piazza Farini (la Piazzetta di Sotto) e Via Santa Lucia, con le viuzze di collegamento che davano sulle Coste, i cui balconcini fioriti, a strapiombo sulla vallata ferentina, erano protesi verso le rondini, a catturare i profumi del bosco insieme ai canti delle lavandaie che frequentavano il Fontanile D’ammonte. Ricordo con emozione la voce rauca e pacata del vecchio fabbro, gli occhiali ingialliti del vecchio fornaio, le mani ossute del vecchio bottaio ed il paonazzo faccione del calzolaio che sempre borbottava.

E quante macchiette di paese affiorano alla memoria, quante sagome, quante figure singolari! Il popolo accoglieva nel suo grembo una vivacissima gamma di personalità individuali. Omologazione e massificazione non erano neppure parole, ed è forse lì, in quel passato tribale e contadino, che occorrerebbe cercare le diversità che i filosofi della différence s’illudono di poter trovare nello standardizzato mondo contemporaneo. Dove a sproposito si parla di relativismo, di trionfo della mutevolezza, della molteplicità, se a farla da padrona è la globalizzazione, forma molto sofisticata di imperialismo e di univocità.

Gli Ominidi scolpiti magistralmente dalla penna del conterraneo Aldo Onorati, soggiornavano anche qui, nei vicoli, nelle fraschette e nelle piazzette citate. Ricordo anch’io i loro strepiti, la loro voglia rumorosa di vivere, la loro dolorosa e sanguinante ironia. Non ricordo i facocchia, fabbricatori antichi di carri (di cocchi), abilissimi nella costruzione dei famosi carretti a vino, che a quei tempi erano passati di moda per far posto ai tubi di scappamento dei motori a benzina.

Ricordo però, perfettamente, la fila interminabile di muli che durante la vendemmia s’arrampicavano con some pesantissime dalle vigne verso il paesello, entrandovi dai quattro punti cardinali. Altri tubi di scappamento sporcavano le strade ed ammorbavano l’aria, senza però inquinare. Giunti a destinazione, davanti ai tinelli, i facchini sgravavano le bestie del loro carico e gettavano nei tini le uve guizzanti di sole. Su queste i pistatori danzavano a piedi nudi, ricavandone il sublime rosolio.

Le mamme preparavano ciambelle di mosto per la delizia di noi ragazzini, scodinzolanti nelle piazzette e lungo le vie, fra le bigonce messe anch’esse a stagnare. Noi monellacci, infatuati da ataviche gesta di eroi, eravamo organizzati in bande di quartiere, anzi in bandacce sempre in lite tra di loro. Le sassaiole volteggiavano fitte e pericolose nei vicoli, retaggio di antiche ritualità, di giuochi o tornei militari.

Quello dei facchini era un mestiere prezioso, ricercato, importante. Non solo durante la vendemmia occorrevano, ma anche durante l’anno, per ingrottare il vino e per tirarlo fuori a barili, quando lo si vendeva agli osti e ai sensali. Non erano, essi, dei semplici uomini di fatica, ma erano quello che oggi diremmo personale specializzato. E che dire dei filtratori? che dei potatori, degli innestatori? Quanti mestieri, in pochi decenni, superati! Oggi, è vero, le specializzazioni si sono moltiplicate, ma si lavora meccanicamente nell’immensa catena di montaggio che abbiamo creato. Sembriamo fatti con lo stampo, fotocopie l’uno dell’altro, macchine robotizzate nella cultura di massa e senz’anima con cui abbiamo sostituito la vecchia cultura popolare.

La storia ha visto avvicendarsi molteplici forme di cultura e di potere, nessuna delle quali era mai riuscita a cancellare il substrato popolare, l’archetipo e il sangue contadino. Ci siamo riusciti noi, uomini moderni, smaliziati (questo per lo meno crediamo), in nome di un’omologazione smodata con cui abbiamo creduto di poterci liberare di ogni schiavitù. Il risultato? Ne abbiamo creata una probabilmente peggiore. Nel corso dei millenni non era mai stato stravolto il cuore profondo dei borghi, immersi nella vita naturale. I villaggi originari erano senza recinti, aperti ai venti della natura e del cosmo: altro che il moderno villaggio globale! Per trentamila anni o più, su quell’humus fertilissimo si sono avvicendate le più svariate culture, sempre rispettandone la ricchezza inestimabile di valori.

Il mio paese è un esempio. Non c’è solo Medioevo a Marino. C’è anche tanta grazia barocca e tanta magniloquenza rinascimentale. Ci sono chiese sfarzose e palazzi baronali. Ci sono ville, parchi e giardini principeschi dove fiorì la delicata e tormentata vicenda di Vittoria Colonna, poetessa rinascimentale. Per non dire di Marcantonio, trionfatore di Lepanto e personaggio chiave nella vita politica e sociale di quel tempo. Costui fu anche il promotore di un nuovo, pacifico clima culturale per il Castello di Marino, che iniziò a rinnovarsi nel tessuto urbanistico, nell’arredo monumentale e nell’assetto viario, secondo canoni estetici sconosciuti all’età medioevale.

Quando, sul finire del diciottesimo secolo, i venti della Rivoluzione francese giunsero nei feudi dello Stato Pontificio, dando vita alla breve parentesi della Prima Repubblica Romana, le truppe napoleoniche si acquartierarono a Marino, lasciando tracce della loro presenza in un nomignolo assegnato ad una via suggestiva: la Rua, tracciato medioevale che collega il polo alto con quello basso della Città. Il Risorgimento incise più profondamente, determinando, con l’Unità d’Italia, quei grandi cambiamenti che prepararono lo straordinario progresso economico e sociale del secolo successivo.

Fu il nonno di mio padre, Cesare Campegiani, il primo Sindaco di Marino. Garibaldino noto nei circoli risorgimentali, imprenditore, titolare di una fiorente cava di lapis albanus, il pregiato peperino noto fin dall’antichità, venne nominato Sindaco in via provvisoria dal Prefetto nel 1870 e poi confermato nel ruolo elettoralmente, fino al 1874. Nei primi lustri, a cavallo del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, ci fu un notevole sviluppo urbanistico, con lavori pubblici di vario genere e riassetto viario. Fu tutto un fiorire di iniziative tese a dare impulso alla vita civile. Si promosse la nascita di nuove scuole, come la Scuola Tecnica di Formazione Professionale, e l’insediamento della Società Enologica Italiana per la Colonizzazione dell’Agro Romano.

Si dette avvio alle Feste Castromenie (1904), antecedente della ben più nota Sagra dell’Uva, per dare impulso alla economia rurale cittadina, scossa da forti grandinate. Al 1907 risale la vicenda dell’Abate Pandozi, parroco invaghitosi di idee anarchiche e ribelle alla gerarchia ecclesiastica, del cui caso si interessò la stampa nazionale e alla cui figura dedicò attenzioni perfino Trilussa con un paio di ironici sonetti. Fu questo il precedente che determinò l’arrivo a Marino di un prete particolare, Mons. Guglielmo Grassi, con il fine di riportare ordine nel marasma imperante, aggravato da fortissime tensioni politico-sociali.

Il nuovo Parroco si adoperò per l’elevazione economica e materiale, oltre che spirituale, della Città e a lui si deve il primo generoso impulso per la fondazione della Cassa Cattolica di Credito Cooperativo Agrario di Marino”, attuale Banca di Credito Cooperativo “San Barnaba”. Nel 1914, allo spirare dei venti di guerra, nel mezzo del dibattito tra neutralità ed interventismo, accadde un fatto storico rilevante: tre anarchici di Marino (Arturo Reali insieme a Cesare e a Ugo Colizza), unitamente ad un manipolo di altri garibaldini dei Castelli Romani, ruppero gli indugi e si recarono come volontari in Serbia per combattere al fianco dei separatisti.

Finita la guerra si tornò alla normalità, e furono gli anni che videro fiorire Ciampino, con il progetto della cosiddetta “Città-Giardino”. A quegli stessi anni (gli anni Venti) risale la fondazione della Scuola Professionale “Paolo Mercuri”, per l’educazione artistica, e la ristrutturazione dell’Ospedale “San Giuseppe”. Nel 1925 nacque la famosissima Sagra dell’Uva per opera del poeta e drammaturgo dialettale Leone Ciprelli, mentre L’Enopolio di Ciampino, con annessa Distilleria, da cui successivamente nacque l’attuale Cooperativa “Gotto d’Oro”, venne inaugurato nel 1939 da Benito Mussolini in persona. 

La prima metà del Novecento, a livello nazionale ed internazionale, fu un periodo di grandi innovazioni e di sviluppo in ogni campo. Purtroppo, come spesso accade, si procede per scelte unilaterali, abbagliati dai nuovi orizzonti e tralasciando il bagaglio di conoscenze ancestrali, non meno preziose e irrinunciabili. Pur progredendo, non si dovrebbero dimenticare le origini. Non certo per passatismo nostalgico, come si potrebbe sospettare, bensì in quanto non c’è fioritura senza radici. Peculiarità delle radici, infatti, è di sapersi rinnovare, laddove l’esasperato modernismo, che le rifiuta, perde la spinta verso il nuovo, precipitando nella stasi di un arido declino. Solo le radici possiedono la forza di andare avanti, dando gemme nuove e nuovi frutti.

Nessuno pensa di frenare il progresso. Sarebbe sciocco programmare delle rinunce, ma è indispensabile oggi compensare l’aridità delle macchine con un pari, ed anzi superiore grado di sviluppo spirituale, che è come dire di consapevolezza delle origini, delle radici appunto, del mistero. Ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno, per reggere l’urto del vuoto imperante, è l’arricchimento interiore, la conoscenza del profondo e l’alleanza con il mistero, con la realtà della natura e del cosmo di cui erano dotate le antiche culture, sicuramente meno vuote e vanesie di quella attuale.

Nessun rimpianto per le condizioni materiali del vivere, immensamente più ardue, a quei tempi, di quelle attuali. Ciò che è in discussione è la grinta, il vigore morale e vitale di donne e uomini che oggi definiamo ingenui, ma che al nostro confronto erano di un realismo sconcertante, abituati com'erano ad una lotta per la sopravvivenza che noi oggi, rintanati nei nostri paradisi di plastica, abbiamo dimenticato. Quelle donne e quegli uomini avevano sette marce in più rispetto al quieto vivere e al conformismo dei tempi attuali. Un declino morale che si sbaglia a collegare con il progresso materiale e tecnologico, totalmente scisso, a mio parere, dall'equilibrio e dalla salute morale.

Le donne e gli uomini di quei tempi credevano, lottavano, avevano fede. Non ha importanza in cosa credessero, nei valori religiosi o in qualsiasi alra cosa, sia pure... nella Befana. Ciò che conta è che quel credo li portava a credere in se stessi, a tirar fuori le proprie risorse interiori. Li portava a scendere continuamente dentro se stessi per attingere al proprio bagaglio spirituale. Che neppure quello fosse il Paradiso terrestre, d'accordo, ma che ci fosse più equilibrio e buon senso è fuori discussione. Si sbaglia a credere che il Paradiso terrestre possa essere direttamente connesso con il progresso materiale, ma su di esso non può neppure ricadere la responsabilità della decadenza morale. La salute o il declino morale non sono legati al conto in banca, ma unicamente alla volontà e alle scelte esistenziali dell'essere umano.

Magari il progresso civile potesse porci al riparo delle flessioni morali! Da questo punto di vista, ignoranti ed evoluti sono sempre esistiti, a prescindere dal livello di cultura e civiltà. Critichiamo sempre i secoli bui, i secoli della crassa ignoranza, ma oggi, con tanta tecnologia e tanto disincanto, pensiamo davvero di essere meno ignoranti? Ci sentiamo padroni dell’universo perché siamo approdati sulla luna e non siamo neppure in grado di svitare una lampadina. Però ci sentiamo sapienti, conoscitori. Di che cosa? Di malattie psicosomatiche, di inquinamenti morali e fisici, di guerre autodistruttive! Questo non certo per dire che il passato era migliore dell’oggi (ci mancherebbe altro!), ma per dire che l’umanità è sempre ignorante, oggi come ieri, e che le vere possibilità evolutive sono individuali, affidate all’uomo che abbia il coraggio di dare ascolto alle proprie profondità.

La civiltà, nata con l'agricoltura e con il sentimento di appartenenza dell'uomo alla terra, potrà continuare ad esistere fin quando l’agricoltura esisterà. Purtroppo accade che la retorica e l’arroganza s’impossessino della vita civile e culturale, determinando, a fronte dell’indubbio progresso sociale, un pericoloso scollamento dalle origini, che sono e restano la nostra identità. Ad alimentare le chimere furono, nel corso del ventesimo secolo, il Positivismo da un lato e l’Idealismo dall’altro, sia pure con quei contrasti che giunsero alla resa dei conti nel secondo conflitto mondiale. Come sappiamo, a prevalere fu il sogno americano. E fu la fine della civiltà contadina, che sarebbe comunque finita, considerate le mire sempre meno stanziali e sempre più planetarie dell’umanità (1), ignara del fatto che non si può essere universali senza essere locali, e viceversa.

I bombardamenti, che nella mia Città  giunsero il 2 febbraio del ’44, seppellirono definitivamente il mondo rurale sotto un cumulo di macerie, lasciando a noi, insieme al fumo dei calcinacci, l’onere di una faticosa e discutibile ricostruzione. Fra le mura spallate dalla furia delle bombe (di cui personalmente non serbo memoria, essendo nato nel ’46), le fraschette e i grottini hanno continuato per lungo tempo ad essere come gemme preziose: rose tra le spine. Ma si era alla fine. La vicina metropoli impose ben presto i propri stili di vita: urbanizzazione, cementificazione, asfalto, consumismo, disamore per la terra e per le attività tradizionali.

L’identità etnica di queste zone è stata duramente provata nel corso degli ultimi decenni, a partire dall’immediato dopoguerra. L’immigrazione e l’inurbamento delle plebi rurali; la crescita elefantiaca della metropoli e degli stessi centri castellani; la nascita e l’espansione dell’asse industriale Pomezia-Latina, per non parlare dei fenomeni generali di omologazione e livellamento, come la meccanizzazione crescente e lo sviluppo macroscopico delle comunicazioni: tutto ciò ha strapazzato indubbiamente le nostre radici. Se in quest’ultimo settantennio la Capitale si fosse estesa al sud, anziché al nord, così come è avvenuto, già da molto tempo quest’area sarebbe stata inglobata fra i tentacoli della Città. Ma oramai i baluardi sono abbattuti.

La campagna che negli anni Venti-Trenta cantava Leone Ciprelli insieme al gruppo di poeti romaneschi di cui si attorniava (tra questi lo stesso Trilussa), era una culla, un alveo che abbracciava i piccoli centri, fasciando amorevolmente la stessa Capitale. Le aree viticole a quel tempo facevano corona ai piccoli borghi, la cui popolazione era quasi al cento per cento rurale. Oggi i vecchi villaggi sono diventati dei popolosi centri dove abita gente dedita alle più svariate professioni. E molto spesso gli abitanti non gravitano neppure in loco, avendo interessi lavorativi altrove.

I giovani non sono attratti dall’agricoltura, non vi si impiegano e gli anziani giudicano una benedizione poter vendere i propri terreni per scopi edilizi. C’è però da dire che l’attività agricola, pur avendo perso il ruolo di asse portante della vita economica e sociale, è rimasta in qualche modo radicata fra i nativi, che, laddove hanno potuto, hanno continuato ad interessarsene, sia pure in forme non professionali, ovverosia part-time, dando vita ad interessanti forme cooperativistiche per la commercializzazione. Pochi sono, da queste parti, i coltivatori che si dedicano a tempo pieno, o in maniera prevalente e professionale, all’attività vitivinicola, e ciò è dovuto alle modeste dimensioni aziendali che mediamente non superano i diecimila metri quadrati di superficie.

Chi ha continuato a coltivare la terra, pertanto, in un mondo che, come dice McLuhan, è sempre più dominato dai modelli del villaggio globale, dovrebbe essere considerato un eroe. O forse un folle destinato al suicidio e all’autodistruzione: dipende dai punti di vista. Tuttavia ci sono flussi e riflussi nella storia, la quale non procede in direzione lineare, come si credeva in passato, bensì in senso circolare e ciclico. Il progresso potrebbe anche essere costante e lineare, ma considerata la nostra immaturità, c’è bisogno, di tanto in tanto, di un corto circuito, di una crisi, di un blackout.

E tuttavia, dopo la notte non può che tornare l’aurora. Ecco che, per andare realmente avanti, bisogna tornare indietro. Non in senso nostalgico, ma innovativo. È successo tante volte nella storia. Le origini sono sempre originanti. Tornare ad esse non significa andare a ritroso, verso il passato, ma significa trovare la spinta, oggi, per un nuovo albeggiamento, e dunque per un nuovo futuro. Il ciclo attuale finirà (sta già finendo) ed il mondo si scoprirà di nuovo contadino, pur facendo tesoro – è evidente – di alcune salutari lezioni della modernità.

Si pensi alle correnti di ripensamento ecologico provenienti dalle stesse aree metropolitane. La crisi in atto può mostrarsi paradossalmente foriera di interessanti novità, ma bisogna avere il coraggio di vedere in ciò che resta della realtà rurale non un residuo d’altri tempi, un reperto archeologico, bensì un sintomo di nuova civiltà. Quel che di rurale ha resistito all’aggressione, potrebbe e dovrebbe esser visto come domanda nuova e imprescindibile della futura società. Non si tratta di tornare al passato, alla civiltà dell’asinello. O della scalarola (2), per usare un termine caro ai miei compaesani.

Si tratta al contrario di inventare una nuova ed inedita cultura della terra, tornando a comprendere, con le modalità di oggi, della cultura contemporanea, una cosa semplicissima, che avevamo dimenticato: noi siamo terrestri, siamo figli della terra, e non possiamo recidere il cordone ombelicale che ci lega alla Madre da cui veniamo. Siamo figli della Terra, e dunque anche del Cielo, visto che non c’è l’una senza l’altro. Apparteniamo al cosmo e non è vero il contrario, che il cosmo appartenga a noi, come con arroganza ci siamo illusi ed ancora ci illudiamo.

La cultura contadina non è morta e sepolta, come potrebbe sembrare. L’umanità non potrà mai fare a meno della sua potente carica spirituale e creativa, direttamente connessa con la spiritualità e con la creatività della Terra Madre. A me piace pensare che la nostra sia un’età di transizione, anziché quell’età di irreversibile degrado descritto dalle Cassandre attuali. All’immagine verdeggiante ed enoica dei Castelli non si può e non si deve rinunciare, costituendone essa il tratto fondamentale da tempi immemorabili. Ci sarà  indubbiamente un prezzo molto duro da pagare, e lo stiamo già pagando, dacché non sembra esserci altro modo che attraversare le tenebre per poter accedere alla luce. Il Caos e l’Ordine sono in fondo fratelli, così come Caino e Abele.

Bisogna attraversare la disgrazia per poter giungere alla grazia. La mente umana sembra avere bisogno di questa strana pulsazione. Deve smarrirsi per potersi ritrovare, e viceversa, ma sta dentro se stessa la chiave che può aprire le porte di un’incredibile città a misura davvero più umana. È la simbologia dell’Eden, la filosofia dell’amore, dell’armonia dei contrari. Quella stessa armonia che, sullo sperone tufaceo della mia città, da ragazzo mi faceva librare, proteso da uno dei tanti balconi fioriti a strapiombo sulla vallata sottostante, dove il ritmato ticchettìo degli scalpellini si effondeva nell’aria, fondendosi al fragore delle rondini impazzite d’azzurro. Per non dire, a sera, dello strepito dei mandolini e delle grida di chi si recava nelle fraschette per bere e cantare… E il bubbolìo dei gufi… e il ritornello di grilli e rane...


Franco Campegiani


1) La civiltà non può non essere stanziale e lo stesso nomadismo va visto in relazione, non in antitesi con la stanzialità.

2) La scalarola era un cancello di legno (castagno) e filo spinato, a forma di scala, posto a chiusura dei fondi agricoli

1) La civiltà non può non essere stanziale e lo stesso nomadismo va visto in relazione, non in antitesi con la stanzialità.


                                                                     

 

 

 

 

                                                  

 

 

 

        

 

 

 

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