Cinzia Baldazzi e Omar
Ungaretti
NATALE
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
Giuseppe Ungaretti
Natale, che
bello! Lasciarsi immergere tra la folla nel «gomitolo / di strade» romane,
illuminate a giorno tra piazza Esedra e l’Esquilino, fino a viale Manzoni dove
siamo stati accolti con stelle raggianti e festoni nel locale dell’amico
egiziano Omar Ibrahim, con insegne natalizie esibite a lato dello schermo sintonizzato
su un’emittente de Il Cairo.
Tra le luci chiare
del passato, prevalgono i guizzi del camino incorniciato di marmo rosato nella
casa paterna: a mezzanotte, aspettando Babbo Natale, lo abbiamo acceso, così le
«capriole di fumo» hanno discretamente occupato il salone con un «caldo buono» adeguato
a evocare il tepore suggerito da Giuseppe Ungaretti (nato nonché cresciuto ad
Alessandria d’Egitto) quando, ospite a Napoli nel vasto appartamento dell’amico
avvocato, critico e ispanista Gherardo Marone, scrisse la poesia. Era la sera
di Santo Stefano del 1916, a circa un anno dall’inizio della sua esperienza bellica:
«Il primo giorno della mia vita in trincea: e quel giorno era l’alba di Natale
del 1915, e io ero nel Carso, sul Monte San Michele».
La festa dedicata
al Bambinello, preferita in assoluto da molti di noi cristiani, nulla sottrae
alla felicità attinente la Pasqua (in ebraico pesah, in aramaico-giudaico
pisḥā) di Resurrezione: ciò nonostante, il 25 dicembre del 1965, da fanciulla
di dieci anni, lo ricordo meglio degli altri poiché, per cattiva sorte, lo
festeggiavo senza la mamma, scomparsa da alcuni mesi. Del resto, il secondo Natale
di Gesù (Hamolad, מולד, in ebraico) attuale nella memoria l’ho vissuto ormai
da adulta, insieme alla famiglia, nell’occasione in cui abbiamo addobbato con il
tradizionale impegno l’albero scintillante. Ma mio padre era mancato da appena
una settimana.
Mentre nel
microcosmo infantile elaboravo un grave lutto personale, magari penserete, intorno
regnava un contesto pacifico, di condivisione del dolore privato e, sebbene
colpita duramente in quanto divenuta orfana di madre, non conoscevo la guerra a
causa della quale, lo afferma il re Creso nelle Storie di Erodoto, sono
i genitori a seppellire i figlioli, non il contrario: come toccherà, benché in un
periodo di pace, al nostro poeta nel 1939 con il piccolo Antonietto annientato,
nella sofferenza, da un’appendicite mal curata. Dunque, ancora oggi, alla Nativitas
Domini, per chi soffre è opportuno celebrare la nascita di un figlio che
non morirà, anzi, sussisterà in eterno essendo «della stessa sostanza del Padre»
creatore del tutto, pertanto anche della fatidica vita-morte.
Ungaretti, in
ogni caso, sarà sempre espressione suprema dell’amore, e lo scatto dei sensi, forse
in virtù dell’adolescenza trascorsa nella mediterranea Alessandria, persisterà nel
ruolo di traccia costante nella sua potente partecipazione spirituale all’hic
et nunc immanente, come pietas religiosa, trasporto sentimentale, eventuale
rinuncia a un ambito dal quale non vorremmo allontanarci: un’autentica pax,
ovvero tranquillità totale, ai limiti dell’inamovibile, analoga a quella tipica
di «una / cosa /posata / in un / angolo / e
dimenticata», priva di affanno, accanto a lui, con «tanta / stanchezza/ sulle
spalle».
Nel 1925,
distante dal conflitto mondiale, nella raccolta Sentimento del tempo
l’attaccamento di Giuseppe Ungaretti a una simile cosalità instancabile,
separata dal male, persino dall’odio fraterno, si ripropone nella
manifestazione della fatica, dello sfinimento, nella terzina conclusiva di Ogni
grigio: «Come una fronte stanca / è riapparsa la notte / nel cavo di una
mano».
In breve, è di
nuovo “notte”, con le sue tenebre buie e ghiacciate, destinate ad assistere all’esordio
terreno di un pargoletto temuto nella misura che, allo scopo di eliminarlo, vengono
uccisi centinaia di neonati compianti da madri disperate, e non collocati in un
«angolo», dimenticati, al pari di giovanissimi commilitoni
del poeta, gettati al freddo nel fango della trincea, lasciati a morire in un
penoso anonimato.
Ha ragione
Ungaretti: il «caldo» all’humanitas sembra ovunque «buono», poiché, al
di fuori del chiasso e dei bagliori sgargianti, proviamo il bisogno di
protezione, di tiepidezza, in grado di favorire la coscienza di vivere, con il cuore
mentre batte, le mani strette ad altre. Purtroppo, l’epilogo del brano offre
solo un tepore di fiamma, in un interno domestico, capace di confortare il
soldato in licenza, condotto comunque a riflettere sul gelo sopportato sulle cime
del Carso e su quanto ancora ne patirà nell’inverno da poco iniziato.
Una tale consapevolezza
permette di proseguire il leitmotiv autobiografico passando alla seconda
ricorrenza del Χριστούγεννα (Cristughènna) impressa nell’anima. Era il
dicembre del 1995, quando papà morì: allora sapevo in cosa consistesse la
guerra, oltre al terrorismo, e la pace legata alla Natività ispirava una cognizione
specifica. Benché fosse lontano il dramma degli attentati su scala globale dell’estremismo
islamico e medio-orientale, ero immersa, ripetutamente turbata dagli eccidi compiuti
nel paese natìo di Ἰησοῦς-Iēsoûs (in greco biblico; in aramaico: יֵשׁוּעַ-Yeshu’a),
nella Palestina di Betlemme dove Maria e Giuseppe erano in viaggio per
adempiere al censimento indetto dal governatore romano.
Nel Vangelo di
Luca compare l’inospitale “mangiatoia” ma, dal IV secolo in poi, negli
affreschi medievali o nelle vetrate delle chiese, ecco scaturire il «caldo
buono», intento a mantenere in vita il Messia, proveniente dal respiro di un bue,
di un asino. Per alcuni studiosi, il simbolismo degli animali nella capanna trasmette
un segnale dell’incarnazione di Dio, anteriore all’arrivo dei sovrani
Melchiorre, Gaspare, Baldassarre e ai pastori: costoro, impegnati nel pascolo
di pecore e capre, di rado mucche, rappresentano la gente comune. Ai ποιμένες-poimènes,
in Luca, l’angelo aveva annunciato in tono solenne: «Oggi,
nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore»
(2,11). Ai pastori sono offerte notizie che conosciamo: il che cosa (è nato),
il quando (oggi), il chi (Salvatore, Cristo, Signore), il dove (nella città di
Davide). Senz’altro avrebbero potuto trascurare il messaggio, invece l’hanno
ascoltato e divulgato, e chissà, anche da lì discende l’associazione a considerare
i “pastori evangelici” incaricati, oltre ad altre funzioni, di predicare.
Da parte mia (all’epoca
quarantenne) ricordo quanto, insieme a tanti, nelle luci-ombre delle luminarie,
le statuette dei mitici re Magi consentissero la speranza in una tregua
duratura del conflitto medio-orientale: infatti, nel Vangelo di Matteo, in
seguito nella tradizione cristiana, tre sovrani giunti dall’Asia, Europa e
Africa resero omaggio al neonato ciascuno recando in dono gli emblemi di potere
del popolo di appartenenza.
Certo, Giuseppe Ungaretti
immaginava che quel fulgore di gloria, di un protettivo calore mansueto,
sarebbe ben presto svanito perché, proprio a causa della visita dei Magi, Erode
venne informato sul luogo di nascita del “re dei Giudei” (βασιλεὺς τῶν Ιουδαίων,
basileus tōn ioudaiōn): avvertito in sogno da un angelo, Giuseppe, padre
putativo di Χριστός (Cristòs), riuscì però a mettere in salvo la
famiglia entrando in Egitto da Pelusio, percorrendo la costa a partire da Gaza.
Nel riprendere il
discorso su Ungaretti volontario nell’ostilità tra l’Italia e l’Austria-Ungheria,
a ventisette anni fu assegnato al 19o Reggimento di Fanteria della
Brigata “Brescia”, di stanza sul fronte del Carso, uno dei simboli della Grande
Guerra. Nel 1921, il governo italiano decise di affidare il compito di
scegliere tra undici caduti il corpo del Milite Ignoto a Maria Bergamas, madre
di un volontario irredentista di Gradisca d’Isonzo, e dal Carso la salma intraprese
il cammino verso la Capitale.
Una mamma,
dunque, come Maria di Nazareth, la mia e soprattutto quella del nostro autore, Maria
Lunardini, alla quale in Sentimento del tempo è riservata un’elegia per
celebrarne la morte risalente al 1926. Nella terza strofa, a mostrare
stanchezza questa volta sono, tremanti, le «vecchie braccia» alzate dalla donna
prima di spirare. Perfino lei gode di un’immobilità cultuale: appare «una statua
davanti all’Eterno», di conseguenza un oggetto (di matrice superiore:
artistica), una «cosa» refrattaria al deperimento umano, al punto che solo se il
Signore avrà perdonato il figlio, lei vorrà guardarlo. D’altronde, nell’iconico
abbraccio liberatorio trapela lampante la presenza di una percezione del tempo
lungo e doloroso da trascorrere, nonostante tutto “umanamente” subìto: «Ricorderai
d’avermi atteso tanto, / E avrai negli occhi un rapido sospiro».
Sarà il caso di aspettare insieme un futuro Natale di pace.
Grazie, gentile professor Pardini, per l'ospitalità.
RispondiEliminaOmar Ibrahim
Complimenti a tutti voi!!!!
RispondiEliminaBellissima lettura e commento, bravissima , superlativa come sempre la cara Cinzia Baldazzi. 👏
RispondiEliminaTrovo che la poesia di Ungaretti sia molto bella, dai significati profondi che tu hai sapientemente saputo commentare e spiegare.❤️🎄
BRAVISSIMA UNA BELLISSIMA LETTURA.
RispondiEliminaBellissima poesia! Stupendo articolo! Complimenti vivissimi!
RispondiEliminaMagnifico articolo che unisce i propri ricordi ad un erudito commento storico e letterario, citando il grande Ungaretti. Complimenti e auguri di cuore!
RispondiEliminaAdoro Ungaretti❣️
RispondiEliminaGrande Cinzia Baldanzi. Articolo interessantissimo, colto e raffinato. Come suo solito, del resto.
Bravissima 👏👏👏👏 👏
Congratulazioni a tutti e sereno Natale🎄
Natale di Ungaretti, l'ho letta e la leggo e sempre mi stupisce quel tono pacato, quasi rassegnato impresso nei versi dall'autore. Penso che in questo Natale 2024, tristemente illuminato da guerre e soprusi, la dr.ssa Baldazzi non poteva fare scelta migliore che proporre e commentare il Natale di Ungaretti. Natale, festa dell'amore, della nascita e della rinascita, Natale, dono gratuito di vita, bacio d'amore di Dio agli uomini, Natale, festa, però, anche di magia di luci e colori, festa, di un dicembre che nel tempo è diventato santo e commerciante. Al divino si associa il consumismo. Per i bimbi, l'incanto di babbo Natale, per i grandi, a volte, regali superflui che donano gioia e, forse, erroneamente fanno credere di essere amati. Sicuramente, nel 1916, in piena guerra, vuoi per mancanza di mezzi economici, vuoi per il dolore di avere mariti, figli, fratelli al fronte, doni e leccornie, per i più erano miraggio e pianto. Cinzia, specifica “Era l'alba di Natale del 1915, e io ero nel Carso sul monte San Michele”. Nella ricorrenza della nascita del Bambinello, Ungaretti, era su un monte. Nelle sacre scritture, Mosè, dopo un lungo peregrinare, sul monte Sinai è solo ad ascoltare la voce di Dio; sull'Ararat, Noè approda dopo aver affrontato il grande diluvio; Cinzia, a 10 anni, senza la madre, festeggia, forse, il dolore? Ecco, che, “Quel lasciatemi stare in un angolo come una cosa dimenticata”, non è solo di Ungaretti. Nei momenti tristi, ognuno di noi vorrebbe essere dimenticato, vorrebbe starsene nel caldo del suo dolore. Sì, perché il dolore ha un tepore tutto particolare che annienta e arde, che consuma piano proprio come legna nel focolare. E l'aggrovigliarsi di quel filo dei pensieri, dei perché proprio a me, odia il brillio, scansa la confusione; ti fa sentire cosa, cosa da posare lì in un angolo, angolo dal quale uscire poi rinnovato. Anche MARIA e GIUSEPPE, erano considerati come cose inutili. Approdano a Betlemme e là in una mangiatoia dall'”Inutilità” nasce il Miracolo d'amore per eccellenza, scaldato da capriole di fumo non di camino, ma di narici d'animali. Ecco, che la cosa, lo stare da solo di Ungaretti non si esaurisce nei versi, ma per molti versi è simbolo, sinonimo di vita che nonostante tutto, costi quel che costi, va vissuta e amata fino in fondo. Sempre dal fronte “Non ho mai amato tanto la vita” e, il Natale cos'è se non l'amore per la vita? MARIA, affronta deserto e guerre per amore del FIGLIO, la madre di Ungaretti, come statua (ancora la cosa) davanti all'ETERNO implorerà miracolo d'amore per il figlio perché sa quanta amara solitudine e quanta vita c'erano tra quelle mura insieme alle “quattro capriole di fumo”. Cinzia, ben conosce la solitudine del dolore, ben sa quanta morte c'è nelle 56 guerre in atto; Cinzia, però, sa che il Natale rinnova e vivifica i sensi, riaccende la speranza per un mondo migliore. Grazie, Cinzia. In questa vigilia di attesa, insieme a te rileggo e rifletto su questo eccelso Natale di Ungaretti. Auguri a te e al prof. Pardini. Possiamo sembrare cose inanimate, a volte ci mettiamo o ci mettono in un angolo, ma, allo scoccare della mezzanotte santa, però, sempre rinasciamo.
RispondiEliminaAntonietta Siviero
Cara Cinzia,
RispondiEliminaLa tua lettura di Ungaretti sulla poesia del Natale è stata profondamente toccante e ricca di significato. Hai saputo cogliere l'essenza delle parole e trasmettere la magia e la riflessione che il poeta desiderava comunicare. Attraverso la tua interpretazione, ogni verso è diventato una finestra sul mondo interiore di Ungaretti, rendendo vivi i suoi pensieri e sentimenti.
La delicatezza con cui hai affrontato i temi della speranza, della rinascita e della spiritualità ha illuminato il vero spirito del Natale, invitando tutti noi a guardare oltre le apparenze e a riscoprire la bellezza nei momenti di quiete e contemplazione. Il tuo talento e la tua passione hanno reso questa esperienza memorabile e indimenticabile.
Grazie per aver condiviso con noi questa preziosa interpretazione. Le tue parole resteranno nei nostri cuori, ispirandoci a trovare la pace e la serenità in questo periodo natalizio.
Con affetto,
Giovanna
RispondiEliminaNatale, come magia nella parola intrisa, ricordi, tormenti, sguardi, emozioni, racchiuse in quelle quattro capriole di un fumo che porta verso l'infinito salendo verso un cielo attraverso una canna fumaria sentiero che porterà la Libertà.
Lasciamo raggomitolato l'odio, che la Pace non sia più una "Cosa" messa a tacere in un angolo ma sia per sempre nei nostri cuori.
Sarà così che respireremo quel caldo buono e lo semineremo lungo tutti i sentieri della vita presenti nel mondo.
PACE.
Grazie, Cinzia. Una bella lettura. Un commento ampio, dettagliato, circostanziato. Permettimi di definirlo un "ombrello letterario". Non dimentichiamoci, infatti, che a valle della Parabola Terrena del Salvatore, deposti i Magici pacchi dono, un Yeshua Ha-Nosri cercherà di riscrivere l'estremo sacrificio e il riscatto dell'umanità. L' "ombrello" ripara da Michail Bulgakov e Behemoth che, rinchiusi nella nicchia della follia letteraria, divertiti e grassi, assistono ... Buon Natale, Cinzia.
RispondiEliminaC’è nella lettura che Cinzia fa del Natale di Ungaretti un percorso multiplo che ci porta a ripercorrere la vicenda di Gesù, l’esperienza di guerra del poeta e quella personalissima di Cinzia stessa. Sono cammini che pur diversi per contenuto ed epoca, tuttavia si intrecciano e restano legati in un afflato che li fa diventare parti di un tutto strettamente unito. È certamente il sommarsi di vicende umane che accanto alla gioia ( la nascita di Cristo, l’affetto materno e paterno, il calore di un camino lontano dal gelo della guerra) conoscono l’intensa esperienza del dolore che in Ungaretti e in Cinzia diventa separazione, perdita, dramma personale che segnerà la loro vita profondamente. La lettura, profonda e sentita, che Cinzia fa di questo testo poetico mi sembra essere pertanto il rinvenire qualcosa che accomuna l’umanità intera che provata da esperienze tragiche cerca un angolo di conforto, un calore buono a stemperare il gelo dei ricordi.
RispondiEliminaA ritrovare insomma in un Natale di pace e serenità l’equilibrio che la vita mette spesso in forse.
Emanuela Dalla Libera