Credo,
semplicemente, come autore ma soprattutto come uomo in una parola e in un
ascolto che sia al centro delle cose e del mondo, a partire dunque dalle
dinamiche che ci determinano a noi stessi e agli altri. Soli non siamo nulla,
mi ripeto e avverto continuamente. Soli non ci salviamo. E se la verità
dell’uomo è nella condivisione, la natura e la forza di ogni vera poesia è dare
dignità e racconto a questo vincolo fatto del medesimo respiro e del medesimo
tormento. Io provo a muovermi in questa direzione, conscio della cura e
dell’amore ma soprattutto della responsabilità che abbiamo negli accenti che
andiamo a riporre nel percorso. Nessuna parola è neutra, e la parola poetica ce
lo ricorda ogni giorno traendo proprio da qui il suo germoglio principe. Lo
sguardo nuovo che andiamo ad aprire, infatti, non deve incrinare la fede del
mondo ma rinsaldarla, farla tornare alla luce proprio dove manca: nella carità
e nella prossimità, là dove davvero noi solo siamo. Fede nell'altro e nel mondo
la cui misura nell'aderenza alle sofferenze del quotidiano personalmente nasce,
va alimentandosi e si interroga all'interno di una Parola più alta. In quella
radice di sé che ha nella creaturalità il suo riconoscimento, persona e parole
allora figlie stesse di una incarnazione che non cessa di interrogarci, di
metterci in crisi nelle nostre risonanze di perdita. È proprio all'interno di questa crisi però
, resto convinto, la possibilità più forte per quanto di umano ci è dato per
una risposta senza infingimenti- senza vie di fuga- per un racconto di un tempo
che procede per cancellazioni e negazioni quando non per conflitti. Una misura
che se di qui pertiene- e avviene- non può per quanto mi riguarda non muoversi
per sottrazione nell'affondo scarno a levigare, a scrostare dal peso di tutto
ciò che della terra ne comprime il respiro, la sacralità come detto nella
direzione della vita. La mia attenzione tra l'altro a porre maggiore attenzione
ai timbri etici e civili della poesia (sempre nella sua sottolineatura-
purtroppo non ricordo di chi- di nostalgia di Dio della terra). Incisioni-
preghiere- queste che hanno dei luoghi e dei cuori specifici, naturalmente, e
che nei miei versi sono per lo più quelli di Roma, la mia città, oltre che del
mio paese certo in accostamento alle dinamiche ora incalzanti ora sfuggenti che
vanno risucchiandoci. Ed allora la mia, anche per questo richiamo a una
continua spoliazione ad essere prima che autore un uomo migliore, oltre che
innamorata (prendendo a prestito il termine dalla nota antologia di Pontiggia e
Di Mauro) posso e voglio definirla una parola grata, e viva proprio là dove è
possibile, insieme, il rinominarsi e il ricominciare sempre.
Gian Piero Stefanoni
La costanza del cielo di
Gian Piero Stefanoni, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024
I
versi di Gian Piero Stefanoni si susseguono tenui in filigrana alla trama
segreta dei silenzi, sottratti alla frenetica giostra dei giorni, sussurrati
come sospiri che affiorano sull’orlo degli abissi: “Sacro perché ti guarda, /
perché è guardato il silenzio / che è in te dalle cose.” (Sabato); “Nella
costanza dei morti, / nel loto tornare e aggiungerti al numero, / giunge poi al
tempo del sogno degli altri, / della spinta che il mondo ti chiede, / dell’alba
dispersa nei mondi ormai muti. / Giunge poi il tempo infestato dalle scimmie, /
della casa bendata, delle mura bagnate. / Giunge poi il tempo in cui finalmente
ti trovi.” (Il sogno degli altri). Ora sono lutti non mai sopiti che galleggiano in
superficie: “La rosa dello spoglio dolore / non s’incurva, non recita / nel
buio la propria iconoclastasi. / Ma crede – come io credo - / nel ferito
splendore che dà luogo / alla forma, al ritorno d’impasto / che s’infibra nello
stelo. / Abbiamo braccia, abbiamo mani / nel patire e morire insieme del padre.”
(Non s’incurva); “La povertà della luce senza immagine, / la madre sola
a dare figura. / Ma i portatori di fiori / nella superficie dell’assenza /
restituiscono ciò che il sole nasconde / e resta nel conversare del buio. / Lo
devi sentire, lo devi pensare / l’arrivo, il suo ritorno / nello scioglimento del
ghiaccio. / Noi non vediamo tutto.” (La povertà della luce).
Sono
rêveries amorose appese agli sguardi fugaci, intercettate da divini
misteri: “Ma arrotonda il frammento / al compimento, sfugge alla morte, / all’idea
che ha di sé: sempre / del presente l’amore.” (Campanule); “Comporta un
peso quest’ombra leggera / che si distende nel mare. / La terra, come gli
amanti, non è sola / nella finitudine della forma. / Esclama e riapprende da
una parola non sua. / L’amore il perché dell’amore. / L’amore il mattino dei
corpi.” (Lessico madre).
I
paesaggi sono i naturali sfondi degli stati d’animo, messaggi cifrati che
alludono ad un altrove:
“-
e il mare / non ha confini non accettando più di bussare. / Così, nel sonno,
sei ancora tu l’intruso, / l’occhio lungo la spina di pesce, la notte / senza
riflessi nel giorno che cede alla sete.” (Tutti gli addomesticabili mondi);
“Perché per questa partecipata terra / quest’alito breve, questo profumo / al
termine della salita che apre all’azzurro / nell’immagine scoperta dell’uomo. /
Perché ancora chiede e dà vita / nell’idea dell’acqua la viola del giorno, /
nello stelo la mano rupestre, lo sguardo eretto / che chiama ogni ora nel volto
/ alla ragione dell’altro.” (Salite).
Sono
flebili singulti di dolore che scavano voragini sulla faccia della terra,
rintocchi sommessi dalla notte alle porte dell’aurora: “Ha una doglia lo
sguardo / della luce sulla terra / non rincorre albe / nel volo di notte dell’uccello.”
(Doglie).
Un
furtivo straniamento sradica dalle rassicuranti certezze, mentre si è sospesi
sul confine tra la vita e la morte: “Non è di nessuno questa terra, / questo
battesimo / ma il colpo batte il confine, / il lago sembrando fango / nella
nostra interpretazione del sangue. / All’occhio insiste ancora, / bussa alla
porta / la frattura dell’ombra, / la mai sopita negazione / in nome del padre.”
(La fodera, per Czeslav Misloz).
“Il
cacciator di fede” fruga tra “le ombre del giorno” per scovare “la cellula
versata”, la perla rara deposta dal mare della vita sulla sponda dell’Eternità.
Tuttavia, non riesce a passare il guado, a spiccare il balzo verso l’altra
riva dove arride il sole: “Tu credi ma il vento / in te non può riposare / né
adagiarsi la nuvola / o l’albero finalmente / alla sua maturata infanzia / dare
respiro nel piccolo nido. / Tu credi ma non riesce / a passare / basso allo
sguardo / il sole, l’oriente.” (Tu credi). L’anelito religioso insorge
dal sepolcro del passato: “Perché un inizio questo Dio di pietra, / un inizio
questa visione del tutto / che lentamente nella separazione ci consuma.” (Del
cuore). Il divino tesse l’armonia tra cielo e terra nel canto unanime della
creazione: “Quale parola dice la paura, / quale la nasconde? / Non è umano
questo premere / senza toccare e che chiede l’assenso / nella conta dormiente
degli angeli. / Non è da Dio il tormento, / la divisione della luce, l’impaziente
/ sottrazione delle orme. / È scritto infatti – l’uomo alla fine del cielo, /
il salto alla fine dell’acque.” (Quale parola). Gli oppressi sono gli
interlocutori più vicini a Dio, capaci di schiudersi all’annunzio angelico del Kerigma:
“E li vedi ogni anno / sempre più piegati fino a toccare la terra, / gli occhi fissi,
la bocca aperta al ruminare del cielo. / Ma poi passi / e dimentichi il velo,
dimentichi la veste, / l’odore dell’agnello nella tosatura delle mani.” (Kerigma).
L’anima è lago di luce che affluisce dalla sorgente perenne dell’amore: “Siamo
quasi arrivati / ma abbiamo smesso di andare / mentre scendeva la luce sulla
terra. / Così se non trovi l’infezione / cura lo stesso, bel limite dell’amore,
/ nel tema degli occhi. / Quest’anima sei tu, l’elemento / tagliato, la variante
che nessuno / considera nel compagno lasciato / solo – noi di qua lui di là - /
nel tuo povero tempio.” (Siamo quasi arrivati).
Eppure
sottentra anche una vocazione all’abisso, ai fondali sommersi dell’essere: “Su
questa terra dove è stato posto il pozzo / nel punto esatto dove il padre non
ha potuto frenare / come stelle perturbate all’approdo / ruotiamo attorno nell’ignoto
della riserva / dentro a quel grido che a quell’abisso ci chiama. / Danza
finché cade nel sabato, nella rimessa / ogni sette giorni del fango, l’oscurità
rivelata dal volto, / il silenzio delle statue nella bocca dei piccoli.” (Danza
finché cadi).
La
poesia è un respiro che avvolge tutte le cose: “È la politica del gesto / che
fa il frammento, il mondo / che si percepisce al suo passo, / l’ordine della
poesia nella preghiera” (La politica del gesto).
L’autore
rivolge lo sguardo anche alla realtà più cruda, come in Non resti insepolto
Caino, ove forse solo il cuore di un poeta sa indulgere ad uno sguardo di
compassione e intonare un requiem a chi muore sotto il segno dell’estrema
solitudine e maledizione, come Cristo sulla croce: “Chi piangerà adesso questo
ragazzo? / Quale latte di padre o di madre / lo nutrirà, la gola stretta, il
nodo teso? / Quale terra, quale mano lo accompagnerà / finalmente a una pace di
acque e di parola? / Quale luce? / Avvolgetelo, lavatelo, sia per lui carezza.
/ Non ha odi il Dio senza oscurità.” (Per Jabar Al Bakr, rifugiato siriano,
morto suicida nel carcere di Lipsia il 12 ottobre 2016).
La
condizione ontologica dell’uomo è segnata da un’originaria ferita fin dallo “strappo
sanguinoso della nascita” – secondo l’icastica definizione della Morante -: “Svegliato
e bagnato dal sole / al riflesso breve del mistero, / l’Uomo strappato al suo
posto. / Appena nato al corpo denso dell’asfalto / ha il grumo lieve della
madre; / non geme, non ha richieste / nel torpore acceso della ferita.” ((Re)Incarnazioni).
La
bellezza celeste sovrasta con la sua trascendenza divina l’umanità frale: “Ma
il mondo a sé rivolto non muta, / non dà pace, tutto occultando, / tutto
spegnendo nell’ispirazione sorda, / nel desiderio scevro. / Il cielo non è uno
spazio, la rosa / una facile voce nell’ipotesi divina.” (Dorsali); “Prende
bagliore dai corpi / l’inavvertita altezza dell’arca, / il libero azzurrarsi
del tramonto / nel profilo dorato del salmo.” (Non cede bel passo, s’illumina).
Gian
Piero Stefanoni in questi testi si effonde in meditazioni profonde,
raggiungendo esiti di intenso lirismo: “Sanno prima del buio la chiamata nuda,
/ l’offerta dell’azzurro.” (Prima del buio).
La
costanza del cielo è
il permanere del bene sopra la terra, nonostante noi, un seme di luce incastonato
nell’anima che silenziosamente fiorisce “e diventa un albero, tanto che vengono
gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami” (Mt 13,32): “Prepara al
silenzio e al fiume / la parola nel greto che guarda al fiorire / Ancora si
specchia, ancora ci segue: / più forte il dolore screpolato alla terra, / sa
della luce l’esercizio, il cadere dell’ombra.”; “Sa da dove il frutto / è fatto
opera, di quale annuncio, / di quali scaglie l’ombra ora riluce / nello strappo
di vita delle forme. / Sa per femminile trasparenza / la visione dell’ultimo
nato, / sul ramo la costanza del cielo che non cede.”
Flavia
Buldrini
CAMPANULE
Il sole non riesce a vedere,
il sole non riesce a spingere.
Ho freddo dice il corpo
ad un pensiero che non si
basta-
irriflesso e solo- allo
splendore
fermo delle campanule.
Ma arrotonda il frammento
al compimento, sfugge alla
morte,
all'idea che ha di sé: sempre
del presente l'amore.
Nessun commento:
Posta un commento