venerdì 11 gennaio 2013

N. Pardini: Lettura di "Oltre la siepe di sambuco..." di A. Magnavacca





Anna Magnavacca: Oltre la siepe di sambuco e altre poesie. Guerra Edizioni. Perugia. Pp. 70. € 6,00

Qualcosa che rimarrà prima e dopo la traversata del grande fiume

 

Poesia novativa e chiara. Sì!, chiara quella di Anna Magnavacca che non tradisce i suoi intenti sia nel verso che nelle tematiche. E si offre, con tutto il potere di un verbo arroccato sul significante, ad una confessione spontanea e fortemente terrena. Ci si fa poeti davanti ai suoi versi e si soffre, magari, con ritorni montaliani, leggendo le sue arrampicate e le sue discese, le sue iperboli e le sue immissioni nella folta selva delle questioni umane. Nelle sofferenze umane. Si partecipa, si vive intensamente tutto il suo patema esistenziale. Ma si gioisce, anche e soprattutto, con i suoi acuti da soprano in quei recuperi memoriali che sanno strappare, a sfocate lontananze spazio-temporali, sia lembi di esistenze tormentate che rivoli di acqua pura in cui immergersi per refrigerarsi:

Si ballava – il sabato sera – nel salone del partito

sui mattoni rossi levigati e sbrecciati.

S’arrampicava la musica – come edera –

sulla mia finestra chiusa al sonno adolescenziale

che tardava arrivare.

(…)

E nel sogno la mia finestra si riempiva di musica

e perché nessuno la portasse via

sentinelle

passeri e gatti randagi… (Pp. 18).

 

Non può seguire un calcolo preciso la sua metrica; non può essere domata dalla ragione; qui è il sentimento, quel grande ribollire di sensazioni ed emozioni, a dettare i ritmi di un percorso che si fa ora breve (ternario o quaternario), ora ipermetrico. Perché è l’anima che si rovescia direttamente sul foglio senza intralci o ripensamenti;  un’anima talmente gonfia che la parola ora stenta a seguirla, ora si rasserena, si distende, ora fuoriesce con frangimenti, interruzioni, e segmentazioni, come singhiozzo dalla bocca stretta di una fiasca rovesciata. Direi che la spontaneità è un valore aggiunto a questa poesia che fa di tutto per staccarsi dalle vicissitudini umane, ove è fortemente intrisa:

 

Non è colpa mia.

Nessuno mi ha aperto la porta.

Nessuno mi ha dato scarpe da neve…

Se ne andrà quella persona.

All’imbrunire flirterà con una giovane ragazza (Pp. 22).

 

Al  mio risveglio un camice di neve.

Sembra un grattacielo. “Bene… si è svegliata…

Fate la terapia – controllata –

Anche una flebo… ok… un analgesico” (pp. 20.

 

Ma che sa proiettarsi, anche, al di là di una siepe che offre immensità lenitive:

 

Forse comincerà a nevicare.

E allora tornerà a noi il fiore dell’infanzia (Pp. 48).

 

Malinconia, piccole cose, grandi accidents; fatti semplici, o smisurati; ma tutto inizia dal quotidiano per allargarsi a sogni, a speranze,  a voli incondizionati, perché la Nostra sa che “E’ un soffio la vita./ Come un improvviso vento di marzo/ e chiara pioggia scompiglia i capelli,/ morde sulla pelle e poi se ne va”  (Pp. 32). Ma:

 

Tu non spegnere mai il cuore sognante.

Imprigiona l’oro di una stella (Pp. 28).

 

Autunno porti già il cuore

alla primavera – rigoglio di rose      

e giallo abbraccio di pane (Pp. 30).

 

 

Voglio ancora sognare e sognare

e ancora appendere desideri a lenzuola d’aria (Pp. 40).

 

Un dire di grande impatto emotivo, coinvolgente per il suo percorso metaforico, allusivo che trita l’esistere, lo scandaglia, lo spolpa per ricavarne un senso, ma quello che emerge è che tutto è precario e sfuggevole; e delle grandi passioni o dei grandi giochi sentimentali, che un tempo fiorivano come azzardi di ricami nel cielo, resta solo “questo treno” che “srotola senza pietà/ il buio della vita” (Pp. 42). E allora correre… correre… correre. Correre per sfilarsi dai suoi giochi obliqui. Sì!, proprio da quei giochi per:

 

Svanire poi come una pallida dolce nevicata

nella luce dell’armonia eterna (Pp. 33).

 

Forse è proprio là il senso di tutta la silloge. Una corsa a perdi fiato verso una mèta, anche se irraggiungibile, sognata. Ed il sogno fa parte di una storia. Di un travaglio, di un ricamo di esistenza che non esclude mai fiori di primavere o squarci di azzurro, che come alcove, riportano a giorni felici:

Camminare leggera come piuma 

 per incontrare chi ho amato

e i nostri occhi

non avranno bisogno di voce.

Librarmi

fra i gabbiani bassi sull’onda addormentata.

soffermarmi ai profumi di forno

per assaporare

la crosta di pane appena sfornata (Pp. 49).

 

E, come da titolo, la Nostra tenta sempre di staccare il rosa del tramonto dalle cose, per proiettarsi oltre la siepe. Oltre quel confine che demarca la zona umana da un naufragio in cui spesso cerca di tuffarsi per schivare quel senso di fine che inquieta. Perché il buio della notte, a cui pensa la poetessa, è simile alla morte “di cui è intessuto il mosaico della  vita”. Ma l’esserci non è solo quotidiano vivere, è anche immaginazione, forza onirica, vissuta tanto  intensamente, che si fa nuova vicenda per un’anima disposta ad offrire impulsi iperbolici.

 

… Voglio erba  brillante fuoco di papaveri

E promesse di gioia.

… e parlare… parlare di questa neve al tramonto

Correre… correre… correre

Fino a camminare sospesa nella primavera (Pp. 22).

 

C’è anche la natura a supportare le tensioni emotive in questi versi, con i suoi profumi, con i suoi squarci di cielo, le sue vermiglie bacche, le fioriture improvvise, o gli odori di mosto a donare  momenti di allettanti fughe edeniche; c’è la  natura coi suoi magici poteri a cospirare a favore di riposi interiori. E d’altronde anche quelle fusioni paniche non sono altro che soluzioni per un sentire che prende corpo e si concretizza; che si materializza in ariosi slarghi di pensiero, e di amore, intenti, forse, a vedere, nelle vicissitudini del tempo, primavere e attese di glicini dorati per offrire respiro agli affanni del vivere. Vera reazione alla negatività, quindi, che il lettore percepisce dalla contrapposizione dei colori: da una parte quel rosa, quasi a significare l’ultimo sforzo da parte del tramonto per restare aggrappato al giorno; dall’altra il fiorire immaginifico di una luce che ci invade di presenze, che s’impone come germoglio di fanciullezze. E il sogno è vita e la vita è sogno. Lo afferma il poeta: “La coscienza del futile, la memoria, e il sogno sono quei nutrimenti che fanno di un sospiro un uragano, e di un uragano un poema”. Che uragano? Proprio quello che  nasce da un’esplosione della nostra intimità per reagire a quella parte di noi tesa a misurarsi con l’incommensurabile, con l’impossibile. E la Nostra azzarda sguardi lontano. Oltre la siepe, per svincolarsi da una morsa che tiene ogni essere pensante vincolato a terra. A quella terra che adoriamo, ma che vorremmo fosse candida come la neve che spesso ricorre in questi versi; una neve simbolo di remote stagioni, di canti d’amore, o di abbracci di speranza, nella poesia di Anna Magnavacca:

 

Quel cucchiaino rosso sul terrazzo

fra i miei vasi di gerani – adesso spenti –

mi ricorda il tuo ostinato scavare

fra la terra nel verde movimento delle tue mani.

(…)

Ora l’autunno scava la terra di questi miei gerani

con furtiva pioggia e voce di vento. Tra poco saranno

ricoperti di neve. Allora il tuo cucchiaino rosso

splenderà nel candore della prima – acerba nevicata (Pp. 45).       

 

Ed è alla poesia che la Nostra affida la storia della siepe di sambuco. É ad essa che assegna il compito di perpetrarne i profumi intrisi di malinconie. É alla poesia che la poetessa affida tutta la sua vicissitudine, forse perché è in essa che crede, è in essa che vede l’unico mezzo per assaporare quell’azzurro che più si avvicina all’eterno.

 

Nazario Pardini                                                                    05/01/2013

1 commento:

  1. molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto molto carino

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