Maurizio Soldini: IN CONTROLUCE. Lieto Colle. Faloppio
(Co). 2009. Pp. 108
Opera intensa, chiara,
arrivante con una scalata a eccessi di stupore, a incrinature di sicurezze, a
una arrogante tenuta emotivo-strutturale, a umane meditazioni, a suggestive
fagocitazioni di fatti, del loro dispiegarsi; e mai si scade in becera lamentatio, in un piangersi addosso.
Semmai c’è un grido, quello sì, un grido di paura, anche, che nasce dal pensiero
del potere sottrattivo della morte. Si resta immobili, pesanti, azzoppati: “E’ come metter le ali a un elefante//
Profumo della morte che ti inchioda/ ti crocifigge appeso alla paura/ ti fa
piombare in una grotta scura/ e ti cattura prima che tu sia morto,/ prima
l’anima e poi il folle corpo” (pp. 19). Ed ogni cosa, ogni sentimento, ogni
persona, ogni scena, sono volutamente posti in controluce. Splendida metafora,
splendido gioco allusivo, se riportato a un momento, o a momenti, o
addirittura, all’intero esistere. In controluce. Qualcosa che sfuma? che è avvolto
in un fascio di luce con risultati che coprono la gamma del nostro essere
umani? o che sfuma perché assorbiti dal patema dell’ultimo atto di una vita;
della vita; assorbiti anima e corpo dal suo correre, dal suo diluirsi, dal suo
negarci il presente. L’opera divisa in sette sezioni si sviluppa su uno
spartito organico e compatto per versificazione e occasioni poetiche. Viene da
dire che qui è il filosofo che ci ha messo del suo; ci sono razionalità,
metodo, sistema a dettare il tracciato. Un poema - mi piace definirlo così -
per omogeneità contenutistico-verbale. Ci sono assonanze, rime interne, a fine
verso, sinestesie, metonimie, alternanza di misure, vòlte a isolare
endecasillabi che esplodano come impennate sinfoniche; come veri passaggi di
romanze liriche; questo per dire che il tutto è estremamente musicale; sì!,
perché l’armonia è nella parola, non solo nel verso; e anche quando le misure
si allungano per necessità effusivo-descrittiva, intervengono le molteplici
figure stilistiche a supportare nessi estremamente intonati. Note di accordi a
melodiare. Non voglio dire che il sentimento, la commozione, le vibrazioni
intime – pane fresco per agapi di commensali in poesia – siano sminuiti a
vantaggio del raziocinio, della puntualizzazione dei fatti, i pur minimi; ma
senz’altro, qui, è questo senso del metodo che mantiene il controllo di una
tematica soggetta a esondare dagli argini come quella della morte di una madre.
Sì!, è questo il focus dell’opera. L’epicentro. E quello che più risalta è l’utilizzo
magistrale di un naturismo, di un richiamo paesistico che fa da supporto a
tutto l’insieme. Panismo esistenziale: chiamare in aiuto la natura per rivelare
gli impatti emotivi, allusivi; quelli smisurati da non poterli confessare con
un aveu directe. Il poeta fa delle
parvenze figurative vere concretizzazioni affettive. Una trasfigurazione
antropica. Una metamorfosi di foglie e di colori in sprazzi esistenziali:
Anche le foglie ci
assomigliano
Morbide gemme di speranza
Virgulti teneri di aspettative
Verde brillante aperto di
vigore
Resistenza al dolore delle
intemperie
(…)
altri colpi di gelo e muta la
ventura
appare un rosso vinaccia di
ribellione
(…)
una folata di vento poi compie
gli eventi
il destino giace in erra in
attesa della corrente
si approssima un Caronte
traghettatore sul rigagnolo
di flutti di pioggia caduti in
abbondanza (pp. 21).
C’è un estremo bisogno di parlare attraverso i
colori, le forme, le sere terminali, le albe rigeneranti; le luci, le ombre; le
notti, i giorni; o attraverso tutto ciò che rivela dolore, o che significa
brevità, precarietà, insufficienza per un ambito umano; per un ambito coi piedi
incollati a terra, ma con lo sguardo rivolto oltre la siepe; uno sguardo che
azzarda la parola alla misura dell’anima. Si sa quanto sia difficile per questa
creatura lessico-fonica, estremamente umana, simboleggiare slanci emotivi che
dal caduco si avventurino al cielo; financo in tentativi di vincere il tempo. E
la parola è lì, presente, con tutto il suo fascino, con tutta la sua
esplorazione lessicale, in uno sforzo continuo a superare il limen. Il verbo non è sufficiente di per
sé a tatuare l’anima, necessitano impennate che si prolunghino. Vertigini
paniche, pointes cospirative che
nascano dalla frequentazione dell’intimità. Da qui il viaggio
metaforico-allegorico di un poeta che fa di una sua storia, metabolizzata e
analizzata in controluce; di un mondo frammentato, scomposto e ricomposto con energia
analitico-introspettiva; l’assunto del fatto di esistere che riguarda ognuno di
noi.
Sì!, è vita quest’opera. E’ la vita con tutte
le sue perplessità, con tutti i suoi passaggi, quelli più difficili, che
possono cambiare il nostro essere, con importanti
sottrazioni; una vita che sa quanto possono valere il tempo, la memoria, gli affetti, l’esserci; una presenza,
insomma, con tutto il suo patrimonio esistenziale: “Anche le foglie ci assomigliano/ morbide gemme di speranza/ virgulti
teneri di aspettative// una folata di vento poi compie gli eventi…” (pp.
21).
C’è qui la piena coscienza di vivere, hic et nunc, un’avventura irripetibile
che dà un senso di sacralità a questa vicenda; una vicenda che non accetta il
senso della fine: non fa parte della sua impostazione mentale; si può urlare al
cielo e chiedere, interrogarci; ci vorrebbe la fede! Quello sì sarebbe un bel
rimedio all’inquietudine, allo spleen,
al taedium, nonché al dolore; un
dolore che si fa più grande, smisurato, quando riguarda la vita di una madre. Troppo
più grande, infinitamente più grande, di quello che può derivare da malanni che
dipendono dalla nostra persona. Ma anche se “Mi turba/ la speranza del dolore”, c’è sempre uno sprazzo di primavera
a configurare stati d’animo di alleggerimento, di rifugio in alcove
rigeneranti:
Il vento stride
sugl’ippocastani
ridesta i colori delle gemmate
sembianze di primavera
assolata
di pioggia marzolina mentre ti
trovi
ad ascoltare il cinguettio del
passero
che solitario prelude alla
felicità
della rinascita dopo un
inverno triste (pp. 25).
Ma è proprio nelle liriche AFASIA DELL’ESSERE,
L’ULTIMO VIAGGIO INSIEME, IN CONTROLUCE che il poeta vive il momento più
tragico della storia. Ed è qui che dimostra, anche, quanto la sua generosità effusiva
ed emotiva sia contenuta dai particolari, dalle minuzie descrittive, dalla
dovizia di termini non solo partecipativi, quanto professionali, in cui il
Nostro si mischia – essendo soprattutto medico -.
D’altronde l’atto poetico, pur categoria dello
spirito antecedente alla ragione, è, anche, frutto di una contaminatio di mestieri, rapporti, convivenze, linguaggi, e
frequenze che ne determinano le venature; per non dire la scrittura stessa; o la
convivenza con lo stesso atto creativo. C’è qui una vera traduzione di un
realismo spietato in una liberazione lirico-esplorativa, in un’oggettivazione
ancorata ad un dire disposto a prendere in consegna un patrimonio umano e
trasferirlo in corpo di levatura poetica.
E anche se nel corridoio dell’ospedale persino
le panche infilate appaiono in controluce;
e possono apparire sfumate come foto fatte con obiettivo al sole, fuori
dell’attenzione e della concentrazione:
Nel corridoio panche infilate
in controluce
un solo uomo solo con le mani
in testa siede
sulle possibili evenienze
della scienza
che poi non sono tante (pp.
34).
è
perché a dominare la scena c’è quell’uomo due volte solo, con le mani in testa,
intento a riflettere sui poteri della scienza e sugli esiti della vita; e: “Le
parole tagliano”; “e il responso aggrava l’attesa”; “l’esito della tomografia”; “un’emorragia?”;
“l’obnubilamento del sensorio”.
Adesso si saprà la verità. Ma
quale? (pp. 35).
Sembrava un angelo,
ma in quel momento la sua
bellezza sobria
incuteva un tremito tremendo.
“Buonanotte, mamma” (pp.40).
Climax
di successioni tecnico-emotivo-descittive; e:
Quella mattina il cielo si
adombrava
di vento e nuvole e lei si
lamentava
muoveva la sua mano faceva un
cenno strano.
Era come dicesse andiamo (pp.
45).
Gli
enjambements ripetuti sono segno di una voglia incontrollata di dire, di
sfogare un groviglio che ingombra l’anima; la mancanza di interpunzione quasi
una corsa verso un incontro coi più piccoli movimenti della madre, senza
perdersi in minuzie; quelle rime un addolcimento pietoso verso una scena che
segna un atto ultimativo, quasi il mistero dei misteri. Forse serenità nella
quiete?
“Memento mori”, scrive il poeta. Perché è dal
dolore che nasce il verbo più forte, tappa di una via crucis; ma è pur sempre
dal dolore e dalla coscienza di esistere che nasce il peso, l’imponderato peso,
della brevità della vita, del suo grande dilemma che ci tiene in pugno fino
alla morte.
Tenue tracolla
la speranza e i giorni tutti
uguali
disperdono entusiasmo e colori
e sempre ti sovviene acerbo
il tuo memento mori (pp.
20).
Nazario
Pardini 13/05/2013
Nessun commento:
Posta un commento