Prefazione
a
Rosario
Aveni: Fiamme tremule
(In
questo bosco di salici piangenti
c’è ancora
luce all’ombra del crepuscolo)
(…) Da una scala a chiocciola
salgono e
scendono
ataviche
inquietudini
ceri
che
lentamente si consumano
fiamme
tremule
ardenti
nell’ombra
sorvolano
cime
valli e
pianure
per divenire
cenere
quando vien
sera.
Poesia
nuova, morbida, libera, quella di Aveni, con azzardi iperbolici e metaforici di
grande efficacia figurativa, che cercano di traslare o avventurare impulsi
emotivi dal reale a una sfera dove Eros e Thanatos, sensibilità e coscienza
sociale indicano altre soluzioni. Soluzioni, spesso, agognate o solo
considerate, o fatte concrete per alimentare l’ispirazione; ma umane, anche, troppo
umane, per non raggiungere e scuotere la sensibilità del fruitore. Per non segnare
il bianco e il nero, lo sporco e il pulito, la notte e il giorno di un andare
inderogabile della vicissitudine umana. E il polemos degli opposti – ci insegna Eraclito - non solo costituisce
la dialettica del divenire, la dicotomica fusione dell’essere e dell’esistere,
ma anche il terriccio fertile della poesia.
Mi
piace esordire con la citazione testuale riportata, perché ritengo che vi sia
il nerbo della poesia del Nostro. C’è qui la vita, l’immaginazione portatrice
di invenzioni creative, c’è la filosofia della poetica dell’autore, c’è la natura,
la memoria, l’dea del tempo fuggevole e ingannevole. Ci sono insomma tutti
quegli ingredienti che costituiscono il leit
motiv di questo poema – credo giusto definirlo così, per la compattezza
della plurivocità ex abundantia cordis
-. Fiammelle tremule destinate a
spegnersi al primo tremore dell’aria, per lasciare ceneri, o avanzi impoveriti,
o resti disanimati della vita. Sono figure che lentamente si spengono. Ci sono
valli e pianure battute in altre primavere, poi fattesi memorie. Sono segmenti
d’animo che trovano la loro consistenza in corpi sfumatisi nel succedersi dei
giorni.
Una
poesia di suoni, di disarmoniche armonie, di vincoli empatici, di sub/stantia
coinvolgente per figure, fatti, problematiche, impatti emozionali, che, da una
riflessione strettamente individuale, si espandono, con risultati oggettivanti,
in uscite accorate di taedium vitae, di
male di vivere; in un’esistenza che urla, anche, le sottrazioni, le assenze
di un mondo omologante, di una società dove l’individuo è annullato a scapito
di un tutto informe e, spesso, in astenia. Quel male di vivere simboleggiato da
Montale con le immagini del “rivo strozzato”, della “foglia accartocciata” e
del “cavallo stramazzato”; frutto di disperazione esistenziale e di una
concezione della vita come impenetrabile mistero, condanna alla solitudine: “Passano
lustri/ come baleni/ crediamo d’essere aquiloni/ invece siamo barche/ senza
remi/ alla deriva/ verso isole remote/ abissi/ di nostalgia e solitudine”
(L’inganno del tempo).
E
cosa è la poesia se non che frammentazione di una realtà data all’anima a che
la ricomponga con i suoi vincoli emotivi? a che la offra nuova, dopo lunga
decantazione, ad una confessione nutrita di verbi ora pacati, ora tristi, ora
freschi, ora dolci; paralleli, comunque, ai battiti del cuore? e cosa è la
poesia se non che fare del quotidiano un motivo di slancio verso azzurri che si
slargano oltre la siepe? sogni? annullamenti del nostro essere in spazi
smisurati? Ma il sogno fa parte della vita. Anzi lo è. D’altronde è umano, è
strettamente umano, vivere da mortali con l’animo rivolto all’oltre. Oltre il
tempo. Oltre la memoria. Oltre la parola. È un nostro privilegio, ma è anche un
perpetuo tormento. L’inquietudine dei limiti. La coscienza della terrena
precarietà. E il Nostro la vive questa inquietudine, la fa sua con grande
pathos ed energia rievocativa. E montalianamente il suo discorso si fa spesso
acerbo, melanconico, mai, comunque, nichilista. Perché c’è qui l’amore per la
vita, per la sua sacralità. E se il poeta si ribella a certa consuetudine, a
certa anomalia esistenziale, lo fa proprio perché la ama; incertezze ci sono;
ci sono i dubbi sull’esserci, e sui perché; sulle memorie e il loro destino;
sul Cielo, e la sua forza. Ma il Nostro vorrebbe tanto credere, e ne chiede la
possibilità proprio a quel Dio che,
forse, è a capo del suo vivere:
Signore
anche se non credo
vienimi incontro
persuadimi che dell’ultima cena
qualcosa rimane
Presto sarà inverno
il sole ombra di luce
e il cuore avrà il passo
lento nella neve
Ma la fede
è un sublime effluvio
sa di primavera
Rinasceranno i fiori
nuovi colori
sui miei occhi senz’iride
berrò alla tua fonte
e il cuore finalmente
pulserà veloce (Una
prece).
Perché
spera sempre che una fede, sì, una fede, un credo, una realtà interiore,
insomma, si avvicini il più possibile alla certezza; si impossessi di lui. E contribuisca,
in qualche modo, a svincolare il suo essere dalla coscienza del dubbio e della precarietà
del suo stesso pensiero; a incanalarla in rive più solide per contenere corsi
d’acqua ora calmi, ora ripidi quanto il fiottare del suo sentire. Un sentire
mai pago, e sempre in cerca di una verità. Ma il travaglio è lungo;
l’incertezza è grande; la rabbia dà sfogo a inquietudini spossanti:
Obesi sacerdoti
cospargono di cenere il capo
dei fedeli
consacrano l’ostia a un dio
mai nato
Togati soloni
sputano bestemmie su scranni
di giudici
ostentano retorica immobili in
terra
La messa finisce
sul dorso d’una rupe
A Sparta un tempo
vi gettavano gli storpi
Giovani i veri saggi
nudi e trasparenti
vomitano sentenze
acuminate come strali
ma corrono spediti
senza toga
snelli
consci di peccare
(Peccato originale).
Sono gli affetti familiari, che fungono da alcova
rigenerante, a riportare un lirismo quieto, meditativo, e di un certo spessore etimo-creativo:
le figure del padre e della madre:
Padre
quando verrà
il momento
chi mi darà
la forza
di non
vederti più scrivere
a capo chino?
Siedi con me
alla locanda
del tempo
Ritroverai
amici perduti
noi figli
tua moglie
nel fiore degli anni
Un oste
beffardo
esigerà il
conto del destino
e quel po’di
vino insieme bevuto
Madre
non si può
ricomporre quel vaso antico
essenze di
dalia
fumi d’ebano
Dimentica
C’è nuova
luce
all’ombra del
crepuscolo (L’airone e la colomba).
Sì!,
una recherche questa silloge;
l’autore è continuamente alla cerca di se stesso; del suo vivere, e dei tanti
perché della sua/nostra esistenza. Perché vivere è chiederci e interrogarci. E
i quesiti esistenziali sono tanti; sono le risposte che mancano. Da lì quella malinconia
sotterranea che permea di sé tutta l’opera; malinconia che rende il dettato
poetico vicino a tutti noi per la sua intrinseca fertilità. Sì!, un terreno
fertile a produrre fiori destinati a flettersi al primo autunno. Perché è la
vista che, umanamente miope, non riesce
a prolungarsi più di quello che può offrire il terreno. Anche se sboccia nei
giardini del reale, per decollare verso arditi approdi, che tentano di
convertire in gaudio le lacrime, sono sempre approdi davanti ai quali si
estendono mari senza confini; mari che ingollano i nostri tentativi, come gli
Oceani le acque, pur limpide, di piccoli ruscelli. Ma a tante perplessità
possono sopperire memorialità e stupefazione. Una stupefazione che il poeta
riesce a provare, con animo vergine e innocente, di fronte alla bellezza di
questo mondo. E mi piace pensare che tutto possa cospirare a che l’autore incontri,
anche in un deserto, fiori profumati al posto di vetri in frantumi; e pensare
che non sia più destinato ad errare senza oasi né meta: condanna di noi esseri
umani:
… Nel deserto
non crescono fiori
ma vetri in frantumi
Li calpesto
a piedi nudi
insensibile al dolore
nomade
destinato a errare
senza oasi né meta (Miraggi).
E al
tema del tempus fugit, della sua
inesorabile corsa, del suo
annientamento totale di tutto e di tutti; al tema tanto sentito della fugacità
dell’attimo, dum loquimur fugerit invida
aetas, del dolore che cresce per lo strascico che lascia dietro:
Passano
lustri
come baleni
crediamo
d’essere aquiloni
invece siamo
barche
senza remi
alla deriva
verso isole
remote
abissi
di nostalgia
e solitudine
Il tempo
acuisce il dolore
delega al
cuore
vuoti da
colmare
ma questi
d’obbedire
non ne vuol
sapere (l’inganno del tempo).
l’autore
sa alternare momenti in cui, frugando nei meandri del memoriale, o prospettando
immaginari future, dà vita ad affetti di grande resa lirica:
Figlio del vento
ai brividi delle tue carezze
affiderò domani
Crescerai
coi miei stessi occhi
Tua madre un po’sfiorita
si agita nervosa
copre un piatto in tavola
in attesa che rientri
mentre io, zappatore
affondo colpi al suolo brullo
aneliti
di ciò che non è stato
Possa rovesciarsi il cielo!
Lo arerò come campo di grano
lascerò cadere acre sudore
sui dorsi rivoltati delle nuvole (Figlio
del vento).
Sorellina,
ricordi?
Intonavamo
ingenui canti
nenie di
carillon
filastrocche
e sogni
Ora siamo
uomo e donna
lontani anni
luce dalla purezza
Cosa rimane
di un fiocco
rosazzurro
candeline
spente
dei primi
compleanni
ciocche di
capelli
chiuse in uno
scrigno
foto
ingiallite coi genitori e i nonni?
Giorni
lontani
Non
torneranno (Hansel e Gretel).
È
qui che la poesia del Nostro riesce a toccare vette di una fluidità poetica
pura e convincente. Ma la dicotomia della nostra storia è perenne. È la linfa
del suo consumarsi. Da una parte la memoria dolce e gentile, poeticamente struggente,
anche se mai decadente; dall’altra la realtà con tutti i segni del suo logorio:
candeline spente, foto ingiallite, giorni
lontani. E il poeta lo vive a pieno questo sentimento d’inaffidabilità;
questo senso dei limiti che lo chiudono in spazi ristretti. E anche se il tempo
è cagione di dolore, si aggrappa a quel tempo, nel tentativo di ridare vita ad
una storia che si sta perdendo, questo è il suo convincimento, fra le brume
degli autunni. Sono tante le immagini che vanno e vengono; sono maschere di
cera a celare visi; si consumano lentamente come tante Fiamme tremule per lasciare cenere all’ora di sera:
… Maschere di
cera si rivelano
senza mani per
celare i visi
Da una scala
a chiocciola
salgono e
scendono
ataviche
inquietudini
ceri
che
lentamente si consumano
fiamme
tremule
ardenti
nell’ombra
sorvolano
cime
valli e
pianure
per divenire
cenere
quando vien
sera (Quando vien sera).
Veramente
vicini all’esistere questi versi, carichi di sera, di energia interiore, sorretta
da un dire elastico, da una parola schietta, leggera come piuma al vento, che
si adatta ad ogni effusione partecipativa. E d’altronde uno degli scopi
principali del poeta è quello di trovare il verbo, di cercare la parola. E non
è facile farne una perfetta combinazione con l’anima. Si sa che questa è tanto
profonda da richiedere corpi imprevedibili per la sua concretizzazione. Corpi
inimmaginabili. Per questo è la natura ad aiutarlo con le sue fughe, con le sue
vicinanze, con le sue albe rigeneranti, o le sue sere terminali; è in lei che
Aveni travasa il suo essere, per zupparlo nei profumi e nei colori di un panismo
allusivo. È così che più si avvicina al ritratto della sua essenza. Ed è così
che il linguaggio si fa finemente allegorico, finemente traslato per aiutare il
poeta, con funzione analitico-psicologica, a scalare le vette ripide dell’anima
umana.
E
anche se dalla lettura complessiva emerge una chiara visione della vita come
percorso di dolore e disillusione, in linea con le tematiche dell’ermetismo,
del realismo, e post-realismo della letteratura contemporanea; e anche se la
parola stessa è frutto di questo disagio nei suoi irritamenti contro le
convenzioni, o nei suoi accostamenti ad una poetica di riflessiva inquietudine;
tuttavia è nella poesia che il poeta sembra cercare un’àncora di salvataggio; è
a lei che crede; è a lei che affida il suo taedium
affinché lo gridi al mondo, e lo perpetui, forse, anche foscolianamente; è con
lei che pensa di sopperire a quell’attimo sparuto in cui si sente condannato. E
non è detto che quel suo ancoraggio non
gli apra lo sguardo ad una sorgente rigenerante di luce:
(…) Vengono da mondi sconosciuti
itinerari in cieli limpidi
cantano felici
Al tramonto mi chiederanno
di volare insieme a loro
lontano
Sole che vieni
inebriami di pace
alza antiche vele
e se gli occhi saran chiusi
spalancali per sempre
al tepore dei tuoi raggi.
Nazario
Pardini 17/05/2013
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