venerdì 23 agosto 2013

N. DI S. BUSA' SU "IL PASSATO E' UN LUOGO LONTANO", DI FRANCO CELENZA

Il passato è un luogo lontano” di Franco Celenza, Ed. Tracce (Pescara), 2013  a cura di Ninnj Di Stefano Busà



Ninnj Di Stefano Busà 


Un libro interessante, tante e pregnanti sono le parole intese come assoluto irrinunciabile dell’essere, ma anche come bottino di chi riesce a trovare nel deserto dei tartari una via che sappia riunificare presente e passato, la formula per significare un più agevole rapporto con l’ego, con quella persistente malinconia che ci rispecchia in presenza della precarietà del tutto.
L’accaduto fisiognomico della poesia vi fa da modello tridimensionale attraverso vaghezze metaforiche che realizzano trasalimenti e suggestioni, ma non scompigliano l’aplomb dell’autore che è sicuro delle sue emozioni, dei suoi ardui camminamenti, delle sue sfide e delle sue tensioni.
Un individuo che raggiunge il punto focale (per così dire, l’apice del contrassegno) in cui sente “che il tempo ha raggiunto lo specchio” e di avvertire “il passato come lontano luogo” è indicativo di un disagio, ma non è un appiattimento esistenziale, ma un superamento coraggioso di un giro di boa che, pur rimanendo nell’alveo di una misura perdente, affronta senza clamore nè dolore la parte più tragica di tutta la sua storia personale, lo fa senza disperante disillusione, senza rimpianto, solo con una nota di amarezza che anticipa una scabra e attenta preghiera, che non è affranta, si mostra quanto meno “virile” e animata dal buon senso, quel “non darmi” reiterato e introspettivo che ipotizza la violenta lotta contro la memoria che si va smarrendo, o come qualcosa da smemorare.
Il tempo non ha più i giorni “biondi” fiammeggianti e furiosi dell’attesa, ora s’incammina verso il tramonto in una scabro arenile, al riparo dalle temperie della vita, ma non per questo deve necessariamente essere greve.
L’anima insonne e ardua del condottiero sa ancora vibrare in controluce, essere protagonista nel rimirarsi allo specchio con più pacatezza e sfidarsi a raggiungere il traguardo della notte, attraversando dimore che misurino “altre” forze in campo, “altri” luoghi a procedere: “aggiunte non farai al tuo destino” dice il poeta, ma almeno non sentirai le rovine, i crolli demolitori dell’impalcatura-uomo farsi fatali.
Tenere a bada la morte è per Franco Celenza indispensabile perchè lo specchio rifletta l’anima e lo spirito la coscienza dell’essere, entrambi vanno difese da ogni contaminazione esterna.
“Ut pictura poesis” espressione oraziana per indicare che ogni modello esistenziale è il riflesso di un’eternità, un’evocazione trasfigurante la cui trasparenza e compostezza si evincono dai ricordi e, semmai, dalla nostalgia con cui l’accento viene posto, con lucidità, ma anche con abbandono alla fede e alla speranza, affinché siano testimonianza anche sul piano letterario di un pensiero qualitativo alto, in una continua tensione verso la luce.
L’opera poetica si realizza quando la sua parola diventa insostituibile e mi pare che Franco Celenza raggiunga il  -clou- della scena, senza ricorrere a trucchi, senza instaurare pantomime; al tempo rapinatore oppone resistenza ma attraverso meditate pagine, fin dove giunge alla pagina più ardua, al dramma inequivocabile, al resoconto senza clangore, senza rumore, quasi in silenzioso stupore si recita l’ultimo dramma sulla scena e poi si svolta.
Un breve epilogo la vita, ma è giusto viverla con dignità, arditamente.

Il disincanto si volge alla dimensione cosmica partendo dal travaglio e giungendo all’unico destino che lega tutti gli esseri umani al suo infinito, che alla grande poesia ogni tanto è dato di evocare, e questo libro è uno di quei momenti: una cifra che sa individuare le discrepanze con discrezione, senza debordare, pur nella proiezione di scenari inquietanti che sviliscono, ma che sono in definitiva anche la stupefacente intelligenza della vera sostanza lirica, sostanziale autodifesa e non solo della parabola vitalistica dell’essere che diventa metafora viva, candore e fantasia in atmosfere stupefatte, in silenzi insondabili e in linguaggi che contraddistinguono da sempre il vero poeta e la vera poesia. 

Ninnj Di Stefano Busà

4 commenti:

  1. Buongiorno Professor Pardini,
    la ringrazio per aver soddisfatto la mia curiosità in merito alla lettera della poetessa Loretta Stefoni.
    Scusi se posto la mia risposta su questo post ma in fondo, sempre di poesia si tratta.
    Incuriosita dalla diatriba nata in merito a quali fossero o non fossero i concorsi di poesia a cui partecipare o no, quali parametri per deciderne la qualità, il rigore, e la serietà, mi sono messa a cercare risposte nel calderone magico di internet.
    Ho trovato, a mio parere, una risposta interessante nei consigli che Mattia Leombruno posta sul sito del concorso, a detta di tutti, più prestigioso d'Italia: il premio Mario Luzi.

    Ecco il link: http://www.marioluzi.it/images/stories/documenti/rivista_guida_ai_premi_letterari1.pdf

    Mi è sembrato interessante ed esaustivo...

    Un saluto sperando di non essere stata inopportuna.

    Antonella

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  2. Carissima Antonella,
    la ringrazio del suo attento e scrupoloso contributo su un argomento oggetto di dibattiti, e curiosità. Sono d'accordo con lei. L'articolo sul sito di cui lei riporta il link è veramente interessante e assai esaustivo.
    Partecipi ancora. Mi farebbe felice se proponesse le sue esperienze sui premi letterari.

    Un caro saluto
    Nazario Pardini

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  3. Un commento che accede il profilo di questo poeta.
    Insomma quello che voglio dire e' questo:- senz'altro un ottimo testo, almeno sembra cosi' dalla presentazione di Busa'.
    Ciao. Simona
    (Curioso anche il titolo di questo libro di Franco Celenza!! )
    Simona Strada

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  4. Buongiorno Professore,

    grazie per avermi proposto di raccontare la mia esperienza in fatto di concorsi di poesia.
    Sarò breve, ho partecipato tre volte ad uno stesso concorso, più breve di così non potevo :)
    Non amo partecipare ai concorsi, m'imbarazza scrivere poesie su un tema obbligato. Nel caso specifico delle tre partecipazioni, avevo poesie già adatte che, casualmente, calzavano a pennello. Nella prima partecipazione sono stata selezionata, nella seconda ho vinto e nella terza lo saprò a Novembre.
    Mi sono fatta prendere dalla progettualità di quel concorso a fini benefici, ed ho così ceduto volentieri.
    Non tutti i concorsi richiedono poesie su tema obbligato, lo so, ma forse ora dirò una fesseria, un luogo comune: la poesia è voce dell'anima e non un esercizio di stile. Mettere in gara una qualunque di quelle scritte, sarebbe come far competere uno dei miei figli ad un concorso di bellezza. Come scegliere? Impossibile. Dovrei nominare un terzo, un responsabile poetico a cui far gestire la scelta, a cui demandare lo sgradevolissimo compito del selezionare. Lo so, dalle mie parti si direbbe che sono uno strano uccellaccio, ma, vede ... Le poesie sono creature timide, si nascondono dentro blocchi di pietra o dietro cortine fumose. Una volta uscite alla luce, sono delicate e soggette a traumi ... vanno trattate con cura e difese.
    Vero è che, chi scrive, superato il timore del giudizio ed il pudore nel mettersi a nudo, ama farsi leggere. Far conoscere le proprie creature (tanto per restare nel tema figli), è un desiderio naturale. Non è possibile portare le poesie a passeggio nei giorni di sole e, quindi, gioco forza, si deve trovare una soluzione per mostrare i propri gioielli ed i concorsi, in fondo ed in superficie... questo sono.

    Un saluto cordiale Antonella

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