giovedì 26 settembre 2013

N. PARDINI: LETTURA DI "LE PROMESSE DEI GIORNI..." DI A. MAGNAVACCA




Recensione
a
Anna Magnavacca: Le promesse dei giorni e altri versi
Edizioni Helicon. Arezzo. 2013. Pp. 66

Avventure verso significanti che vanno oltre gli etimi.






Mi piaceva la luna d’avorio che baciava
prima del sonno i fiori del ciliegio

Plaquette di due sillogi, questa nuova avventura letteraria di Anna: Le promesse dei giorni e altri versi e Madre; trae il titolo dalla raccolta eponima. Devo dire innanzi tutto che il dipanarsi del dettato lirico si mantiene su livelli di alto spessore per architetture tecnico verbali e per varietà di contenuto. Un’opera che evidenzia gli stilemi tipici della vis creativa della poetessa, e che segna una tappa di continuità nel percorso artistico della stessa. Percorso connotato da una maniera di sentire e di dire che rende unica, inconfondibile, e personale la sicurezza del ductus poetico. Silloge arrivante, quindi, coinvolgente per il tatto delicato con cui l’autrice mette a nudo il suo essere donna, il suo vivere e il suo vissuto. Per la coscienza inquietante di veleggiare su un fiume segnato da correnti ora ripide, ora placide e trasparenti, ora rilucenti di guadi da cui appaiono ristagni di antiche memorie. E l’anima di questa poesia è tutta in una simbiotica fusione fra abbrivi meditativi e versificazione che, per contenere tanto pathos, si avventurano in iperboli di acribia speculativa che vanno oltre le stesse regole della comune sintassi. Il verbo si fa ora duttile, ora nervoso, ora placido, ora audace in questo suo adattamento, in questo suo farsi corpo per abbracciare l’anima del canto. Veri azzardi linguistici, dunque. Elegie semantiche colorite da tanto sentire. Avventure verso significanti che vanno oltre gli etimi. E’ così che prendono forma tante figure care. Evocazioni ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero:

“(…)
Coperta il mio cuore
su pezzi di dolore, vento la mia voce.
Oltre il sole messaggi a mia madre, a mio padre,
a quanti ho amato e perso
e mi tocca contare – aggiungere le perdite
in questo cerchio mai chiuso…” ( Un giorno d’autunno), 

in un linguismo che fa della semplicità l’arma vincente. Linguismo che si avvale di incastri e di nessi creativi che raggiungono “pointes” di grande valenza partecipativa. Con un ardore allusivo di metafore che si apre ad una polisemica significanza ora di tensione orfica, ora, anche, dai toni epico-lirici:

“(…)
Resto sola,
sento lo scricchiolio di una stella
che s’arrampica sull’alba” (Un sabato);

“(…)
Sento il silenzio
chiede di bere al calice di madreperla
della notte” (Una domenica);

“(…)
Avanza il buio.
Voglio pensarti libera barca
in cerca di un faro di bianco corallo” (Un giorno di lutto);

“(…)
Appoggio il mio cuore
sull’orlo di una pietra” (Un giorno di primavera).

E tutto si svolge in forma ampia e narrativa. Come se la poetessa sentisse la necessità di un modus dicendi disteso per ri/vestire un resoconto di totale intimità. Un resoconto da redde rationem, zeppo di vicissitudini umanamente infinite. Umanamente troppo umane nel loro aveu diretto. Nel loro sperdimento evocativo. Nel loro abbandono ad una realtà osservata, captata, e decantata in un animo disposto a farla rivivere contaminata del suo patema. Del suo senso della vita. Di una certa stanchezza, anche, per come corrono le cose:

“Non devo, non voglio
oggi giorno qualunque
fare bilanci della mia vita
altrimenti lancerei tutto
su un arcobaleno,
uno di quelli che vedi
un batter d’ali
e poi ti chiedi dove può essere finito
così, senza avvisaglie.
Negli occhi quei colori scomparsi
così in fretta…” (Un giorno qualunque).

  Qui presente, passato, e futuro si embricano indissolubilmente in una soluzione di reale impatto quotidiano:

… Sul tavolo
alta la zuppiera dall’orlo d’oro
bollicine nei concavi bicchieri.
Fuma e crepita il caldo intingolo,
accese sono le luci
il melo ha messo i fiori
(…)
Il gatto ha già mangiato
e si è addormentato (Un giorno di festa); 

“(…)
Questa mia vita
non mi dà grave avviso
ma quell’insistente corrosiva stanchezza
delle stesse notti…” (Un giorno qualunque).

Una consuetudine quasi scontata. Un vivere i fatti come se si succedessero senza novità alcuna, come se si presentassero con quella abitudinaria quotidianità a cui è d’uso partecipare. Ed è da questi fatti che la Nostra sente la necessità di svincolarsi per azzardare voli oltre, oltre certi spazi che segnano il limen del nostro vivere, che segnano notti che lacerano-consumano:

“(…)
E’ un cielo con l’arcobaleno fermo
che io cerco,
mi sussurra di una farfalla su un ramo
della pensierosa bianca fronte della luna
dello sposalizio della sera con il silenzio
e salire salire salire…” (Un giorno qualunque).

Sì, è là che la Nostra vorrebbe volare, oltre la terra, in cuore all’azzurro, in braccio ad un arcobaleno da cui mirare la terra rimpicciolita nei suoi travagli e nelle sue sottrazioni. Ed è l’imperfetto che spesso domina con il suo fervore nostalgico, per cui tutto sembra lisciato e ingentilito da una memoria che fa persino presente un tempo sfuggito. Che fa di un confronto, una lirica di struggente richiamo:

“Mi piaceva avere capelli rossi labbra vermiglie
occhi di canto sbavati di rimmel,
sentire il passo pieno, il fiato caldo della vita.
Mordere sulla pelle il vento il fuoco
(…)
Mi piaceva sdraiarmi nella rugiada
(…)
Mi piaceva la luna d’avorio che baciava
prima del sonno i fiori del ciliegio.

Adesso mi offro da bere latte caldo
metto all’orecchio una conchiglia bruna,
profumo d’incenso il mio scialle (labirinto di rose)…” (Donna ieri – oggi).

Realtà cruda, di cui la poetessa si ciba per concludere bilanci di amare sottrazioni. Ma reagire con il sogno è forza umana. Ed il sogno fa parte della vita, ne è nerbo essenziale. Ed è meravigliosamente umano abbandonarsi ad orizzonti senza confini:

“Mi piace inventare primavere improvvise
sognando aperti orizzonti.
Vorrei fare collane di pietra” (ibidem).

C’è in questi versi la piena coscienza del senso eracliteo del tempus fugit, della fuga del giorno. Ed è così che la Nostra si intrufola nei minimi particolari, nelle cose più semplici, nelle piccole occasioni dell’esistere per  farne poesia a pieno titolo etico-estetico. E’ la vita con tutta la sua portata che si fa serbatoio di un realismo lirico convincente, votato a sottrarre le bellezze agli annichilenti artigli del tempo con la poesia. Poesia in cui una malinconia sotterranea fa da terreno fertile per la fioritura di un canto sintonizzato alle corde di ogni cuore:

“Oggi non ride il mio mare,
nere vele
stendono parole ferite.
(…)
Arrivano battono chiudono…
volto mani cuore
madre mia.
Ultimo appuntamento.
Senza pietà .
Avanza il buio.
Voglio pensarti libera barca
in cerca di un faro di bianco corallo” (Un giorno di lutto).

Sì, le cose semplici, quelle di ogni giorno: la camicia di lino, il treno, il gatto, le fette biscottate, una ninna nanna, il latte caldo, tacchi a spillo, un fazzoletto bianco ad animare e a rendere umile questo messaggio di vita e di amore che tiene in sé la complessità dell’esser/ci: il tempo, i luoghi, i perché, il memoriale, il rimpianto e la piena coscienza di questo breve spazio che impietoso logora e consuma anche quelle bellezze che pensavamo eterne. Bellezze che la natura potente, colorita, irruente, dolce, di pulcritudine ammaliante, contribuisce a rendere visive, pronta a favorire l’effusione sentimentale della poetessa. A rendere patologico il di lei mondo interiore, avvolgendolo ora di un mare che non sorride, quando si fa più triste il pathos del canto, ora di rivoli di neve e rosse case, di fusione di cielo e ciliegi, quando il verso è frutto di  una tale esplosione estatica da fare appoggiare il cuore sull’orlo di una pietra. Sì, un mondo di amore, soprattutto. Quell’amore che si vive a pieno leggendo les pièces più crude, più amare; perché la Magnavacca ama la vita, ed un risentimento è umano quando la vita stessa sembra tradirci. Risentimenti che, però, non esistono nelle liriche rivolte a “una madre” che “Nel mistero della vita/ in sconosciuti labirinti/ sa andare/ giada e sole”, o a madri che “sognano aquiloni colorati/ per i loro figli” anche se “soltanto pochi/ riescono poi a tenere l’aria”. Una serie di liriche rivolte alla madre senza cadere nella retorica. Riuscendo la poetessa a non scivolare in quel campo minato in cui potrebbe portare questo tipo di argomentazione. E lo dimostra in quel X Intermezzo della II sezione (Madre) che nella sua essenzialità condensa il focus di un Poema:

Ancora madre
chiamerò
nella memoria gli anni belli”      

         XXI poesie dal sapore elegiaco, anche queste, che si snodano su un tessuto confidenziale e intenso di riflessioni e repêchages di quadri e spaccati che mettono in gioco madre e madri senza mai cadere di tono sia a livello emozionale che strutturale. Una andatura etimo-fonico, di euritmica musicalità che prende sostanza e vigoria lirica ex abundantia cordis. Che sboccia nei giardini ora del reale, ora del sogno per decollare verso dolci e delicati approdi a convertire in gaudio le lacrime. Con il solito dire narrativo, dal respiro ampio e meditato, espanso ad abbracciare un’anima tutta volta all’amore, la poetessa sviscera tutto il suo sentire, sostanziato da fatti ed episodi che la memoria riporta a galla con grande trasporto. Ed è in questi ritorni che la Nostra trova tutto il riposo del suo essere. Che trova l’alcòva dei suoi spazi esistenziali. Perché sono proprio le immagini che assumono connotati e dimensioni completamente rielaborate in seno alla scrittrice. D’altronde la realtà è una cosa, ma l’immagine viene dopo, dopo anni, ingrandita, trasformata, a lievitare dentro per farsi vera poesia:      

“(…)
Anche mia madre mi aspettava
ma come i figli
delle amiche di mia madre
molte volte restavo impigliata
in sogni di mare
mentre mia madre
riempiva la mia assenza di dolce stupore.
Amavo mia madre
e adesso ancora amo mia madre
che non è più (Erano tutte madri…).

Ed è questa semplicità sconcertante, trapunta di  impennate creative, a nutrire un “Poema” monotematico che riprende fra le mani il bandolo di un passato, cristallizzandolo in poesia. Memorialità, stupefazione, un po’ di tristezza, anche, per dei propositi incompiuti:

“Dicevo a mia madre
che l’avrei portata
con me
in viaggio –
Parigi o Vienna o Londra.
(…)
Mia madre
non ha visitato
né Parigi né Vienna né Londra.
Le è bastato il sogno.
(…)
E’ stato avaro il tempo…
esalava umido odore di terra
e in mano stringeva
un mazzo di crisantemi” (Dicevo…). 

         E si succedono liriche di grande intensità umana, di grande coinvolgimento emozionale: un climax tematico che tende ad ampliare sempre più gli orizzonti forse non completamente ultimati, irraggiunti; orizzonti di una vita in cui le sottrazioni, anche se arginate dal sogno, vincono sulle realizzazioni:

“(…)
Mia madre
aveva il respiro nelle sue mani,
un respiro
fatto di fatica di anni di dolore
e di quell’esplosione di bellezza
delle madri.
E le sue lentiggini…
Impietoso il tempo.
Quelle lentiggini
le ritrovo oggi nelle mie mani (Non posso dimenticare).

Quel tempo che ritorna impietoso nei versi della Nostra a logorare le cose più sacre. E quando si tratta di vedere questa decadenza negli occhi e nel viso di una madre ancora più forte, quasi indicibile, il sentimento d’impotenza che proviamo di fronte al potere perentorio dell’ora e del giorno sulla materialità del nostro esistere. Sul naturale evolversi dei processi naturali. 
         Ed essere madre a sua volta permette ad Anna, forse, di comprenderne con più tensione e maggiore intensità il ruolo. Anche se resterà sacro nel nostro cuore, insuperabile, esemplare nella nostra mente, quello di una mamma scomparsa, la cui immagine continuerà a brillare di una luce diamantina sui percorsi del nostro vivere:

“(…)
Figli che amo,
forse ricambiata
ma
a volte li sento lontani-stranieri
come fiori
in un sogno invernale
(…)
Riusciranno poi a rubare
musica all’oscurità, luce alle stelle
voce all’aurora?
(…)
E’ difficile essere madri,
anch’io lo sono
e so quanto è tortuosa
la strada di una madre” (Anch’io sono madre).       
                                                                                                                                                                    Nazario Pardini


1 commento:

  1. Molto interessante e carico di suggestioni familiari, la promessa del domani che guarda alla sua materna evocazione del passato-presente.
    Cordiali saluti.
    .

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