venerdì 20 settembre 2013

N. PARDINI: LETTURA DI "OLTRE IL SIPARIO DELL'ECO" DI F. CASTELLANI




Recensione
a
Fulvio Castellani: Oltre il sipario dell’eco
Ursini edizioni. Catanzaro. 2012. Pp. 104. € 10.00

Una reazione alle sottrazioni e alle insoluzioni di questo breve tratto che ci è toccato




Oltre il sipario dell’eco, divisa in due parti una in lingua e l’altra in vernacolo friulano, è un’opera vasta, complessa, intrecciata di versi assuefatti a narrare storie di vita, ben costruiti su schemi di ampia sonorità, dove si alternano misure varie ad accompagnare le oscillazioni del sentire. Quaternari, ottonari, novenari o settenari, anche endecasillabi spezzati in versi di minor quantità, a tradursi in musicalità di piacevole avvicinamento; di simbiotica fusione per dare forma al logos della poesia, dove l’armonia del verso contrasta, spesso, con lo stridore di una filosofia che denuncia la ruggine dell’esistere:

Ogni stazione è un branco
di lupi, di croci
di flauti rochi.
E la mia corsa diventa
un cappio, un fumigante
incendio d’assenze
che brulicano zoppe
sulla bianca infinità
di un nulla insistito (pp. 26).  

Sì!, perché, alfine, emerge una visione amara sulla vita, sul nostro esser/ci, sulla nostra vicenda, sul rapporto col tempo, e persino sulla poesia e sulla parola. Un tempo inaffidabile, incontrollato e incontrollabile, che fugit verso il vuoto, e fagocita tutto con la sua caparbia, e la sua irrefrenabile costanza. D’altronde il presente è inafferrabile, e determina un senso di sconforto per l’impotenza dell’uomo di fronte al tutto. Non è detto, però, che il Nostro cada in un nichilismo assoluto,  o in un pessimismo senza soluzioni. Si può dire che la sua storia è fatta di ascese e discese, di andate e ritorni. C’è in Castellani una forza reattiva, una reazione, appunto, alle sottrazioni dei giorni e alle insoluzioni di questo breve tratto che ci è toccato. E lo troviamo lì a scalare le vette superbe dell’esistere disposto anche al tu per tu con le questioni esistenziali, azzardando lo sguardo oltre Il sipario dell’eco, oltre la vita stessa, nel tentativo di trovare un’alternativa – anche se improbabile -  all’amara soluzione del fatto di nascere umani. E anche se la parola impegnata in nessi per combinazioni elevate non è altro che “cenere, e ancora cenere”, e anche se la poesia stessa è una risultante di tanti slanci emotivi desinati a finire nel calderone dell’oblìo, l’autore, in fin dei conti, dà tutto se stesso a che quelle creature, quelle polisemiche significanze, o quelle tensioni orfiche, si embrichino in risultati di concreta resa poetica per sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo.

Prima d’aprirsi al canto
si dilata la parola
al profumo ultimo e primo
di un respiro trasparente,
ondulato…

(…)

E il passo diventa semina,
attimo perenne, racconto
gioioso, sinfonia di primavera…
Quasi un’arpa che traduce
germogli di memorie, effluvi
caldi di un plenilunio
che lievita inusuali ebbrezze
di stupori e d’azzurro (pp. 37).

         E’ quello che ci appare da un impatto emotivo e prosodico col verso. Un verso nutrito di forza evocativa che sottintende intenti di memoria foscoliana, di ambizione storicistica e di dolci illusioni. Perché alfine è questo che si chiede ad una buona poesia, soprattutto quando si è coscienti della sua validità, e del grande lavoro impiegato per la sua realizzazione. Una scrittura poetica che è il risultato di una ricerca continua, attenta,  puntigliosa nell’uso del verbo e delle sue iperboliche allusioni. Non si può lavorare tanto per ciò in cui non si crede. E il poeta lo sa che l’atto creativo è frutto di questa ricerca. Non è che sia opera di una ipotetica musa vagante che ispira quando uno e quando un altro dei tanti fortunati. E’ l’inverso. L’atto creativo è frutto di cesellature ed intarsi costanti, di tanti accorgimenti che determinano la storia di un autore. Ne danno un’idea chiara. Naturalmente la tecnica e il lavoro devono essere affinati dalla unicità artistica. Ed è ciò che dimostra il Nostro con i suoi versi di affabulante sonorità e di una tessitura di alto spessore significante. Sì, di importante significante metrico. Dacché il pensiero, qui, trova sempre la sua netta equivalenza col dire; un dire che si fa corpo, involucro aderente a rivestire ogni palpito interiore. Ed è qui l’aspetto principale, la maggiore rilevanza a cui attendere: la parola, il sintagma, gli stilemi, la versificazione: tutto ciò che contribuisce a stilare il tessuto formale di questa scrittura. Intendendo come forma quell’insieme desanctisiano, inscindibile insieme fra corpo e anima.
E quando il poeta si sta:

chiedendo perché
il tempo se n’è andato
e l’alba ora sia soltanto
una carezza assente
un fruscio di foglie secche
di alberi spogli, di colori stinti (pp. 31),

e si accorge che i giorni si sono persi in un mare d’indifferenza, non è che si lasci contaminare da quei geometrici messaggi striminziti di un pallido autunno residuale di generose stagioni, ma reagisce aggrappandosi ad un memoriale che si fa alcòva, alba rigenerante, in cui rifugiarsi, e da cui trarre nuova linfa per nutrire la vita:

E allora sfrondo il pensiero
e aspetto che l’erba rinasca
avvinta all’indugio del tempo.
Così il mio approdo al sorriso
ritorna col flautare del vento
e non ferisce l’infanzia
impigliata all’ingobbirsi della sera (pp. 50).

         Certo c’è in questa plaquette una strisciante malinconia e più ancora una visione negativa del mondo e del concatenarsi dei fatti. E la natura stessa affianca il poeta venendogli in soccorso nella concretizzazioni degli stati d’animo. Ed il gallo, il cane, le campane, il buio, gli autunni, la sera, le nude case, si fanno involucri di segmenti d’animo che trovano forza in simboli di grande impatto visivo. Linguaggio altamente simbolico quello di Castellani. Un realismo lirico di grande resa.
         E forse è proprio in Passi leggeri che il poeta evidenzia, con maggiore presenza, l’energia rappresentativa dei messaggi naturali; c’è qui tutto l’esplodere di un panismo esistenziale di evidente impatto umano; di una pièce dai toni epico-lirici:

E’ uno stormire di fronde
il canto del vento
a sera. Coro di profumi
che sale dai prati sfalciati
al caldo brusio dell’estate.
Attende la luna e contempla
da lontano, dubbiosa
alla soglia della notte…

Si è fatta breve la mia strada
e l’angoscia mi assale
avvelenando passi leggeri
di bimbe che sorridono al nonno (pp. 46).


         Non vi è certo niente di pastorelleria agreste o di arcadico ozio letterario. Ma tutto è finalizzato ad un’analisi psicologica intima e profonda. Ed ogni elemento è componente inscindibile di tale introspezione: dalla luna a contemplare dubbiosa alla soglia della notte, dalla brevità della strada, al sorriso delle bimbe. Quanto vicino questo quadro con tutti i suoi componenti al dipanarsi della vita e alle perplessità dei tanti suoi perché irrisolti.
         Ma forse sta in questi versi, che mi piace citare per ultimi, tutto il patema esistenziale di Castellani: la realtà, il rimpianto, la memoria,  l’assenza del sole:

Potessi almeno ora
riscrivere il diario
correndo per prati e spiagge
con l’aquilone del nonno
e i piedi scalzi, rossi di gioia.

Ma il nonno l’hanno ucciso
ed io sono zoppo ormai
di luce, di sole, d’amore (pp. 19).

       Conclusione amara, ma, se si vuole, indice di grande attaccamento alla vita. A questa vita che ci sfugge, ma pur sempre  vera e sacrosanta, anche quando si fa memoria. Anche quando t’investe con tutta la sua eccessiva portata di affetti e profumi giovanili.

                                                             Nazario Pardini




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