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Fulvio
Castellani: Oltre il sipario dell’eco
Ursini
edizioni. Catanzaro. 2012. Pp. 104. € 10.00
Una
reazione alle sottrazioni e alle insoluzioni di questo breve tratto che ci è
toccato
Oltre il sipario dell’eco,
divisa in due parti una in lingua e l’altra in vernacolo friulano, è un’opera
vasta, complessa, intrecciata di versi assuefatti a narrare storie di vita, ben
costruiti su schemi di ampia sonorità, dove si alternano misure varie ad
accompagnare le oscillazioni del sentire. Quaternari, ottonari, novenari o
settenari, anche endecasillabi spezzati in versi di minor quantità, a tradursi
in musicalità di piacevole avvicinamento; di simbiotica fusione per dare forma
al logos della poesia, dove l’armonia
del verso contrasta, spesso, con lo stridore di una filosofia che denuncia la
ruggine dell’esistere:
Ogni stazione è un branco
di lupi, di croci
di flauti rochi.
E la mia corsa diventa
un cappio, un fumigante
incendio d’assenze
che brulicano zoppe
sulla bianca infinità
di un nulla insistito (pp.
26).
Sì!,
perché, alfine, emerge una visione amara sulla vita, sul nostro esser/ci, sulla
nostra vicenda, sul rapporto col tempo, e persino sulla poesia e sulla parola.
Un tempo inaffidabile, incontrollato e incontrollabile, che fugit verso il vuoto, e fagocita tutto
con la sua caparbia, e la sua irrefrenabile costanza. D’altronde il presente è
inafferrabile, e determina un senso di sconforto per l’impotenza dell’uomo di
fronte al tutto. Non è detto, però, che il Nostro cada in un nichilismo
assoluto, o in un pessimismo senza
soluzioni. Si può dire che la sua storia è fatta di ascese e discese, di andate
e ritorni. C’è in Castellani una forza reattiva, una reazione, appunto, alle
sottrazioni dei giorni e alle insoluzioni di questo breve tratto che ci è
toccato. E lo troviamo lì a scalare le vette superbe dell’esistere disposto
anche al tu per tu con le questioni esistenziali, azzardando lo sguardo oltre Il sipario dell’eco, oltre la vita
stessa, nel tentativo di trovare un’alternativa – anche se improbabile - all’amara soluzione del fatto di nascere
umani. E anche se la parola impegnata in nessi per combinazioni elevate non è
altro che “cenere, e ancora cenere”, e anche se la poesia stessa è una
risultante di tanti slanci emotivi desinati a finire nel calderone dell’oblìo,
l’autore, in fin dei conti, dà tutto se stesso a che quelle creature, quelle
polisemiche significanze, o quelle tensioni orfiche, si embrichino in risultati
di concreta resa poetica per sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli
del tempo.
Prima d’aprirsi al canto
si dilata la parola
al profumo ultimo e primo
di un respiro trasparente,
ondulato…
(…)
E il passo diventa semina,
attimo perenne, racconto
gioioso, sinfonia di
primavera…
Quasi un’arpa che traduce
germogli di memorie, effluvi
caldi di un plenilunio
che lievita inusuali ebbrezze
di stupori e d’azzurro (pp.
37).
E’ quello che ci appare da un impatto
emotivo e prosodico col verso. Un verso nutrito di forza evocativa che
sottintende intenti di memoria foscoliana, di ambizione storicistica e di dolci
illusioni. Perché alfine è questo che si chiede ad una buona poesia,
soprattutto quando si è coscienti della sua validità, e del grande lavoro
impiegato per la sua realizzazione. Una scrittura poetica che è il risultato di
una ricerca continua, attenta,
puntigliosa nell’uso del verbo e delle sue iperboliche allusioni. Non si
può lavorare tanto per ciò in cui non si crede. E il poeta lo sa che l’atto
creativo è frutto di questa ricerca. Non è che sia opera di una ipotetica musa
vagante che ispira quando uno e quando un altro dei tanti fortunati. E’
l’inverso. L’atto creativo è frutto di cesellature ed intarsi costanti, di
tanti accorgimenti che determinano la storia di un autore. Ne danno un’idea
chiara. Naturalmente la tecnica e il lavoro devono essere affinati dalla
unicità artistica. Ed è ciò che dimostra il Nostro con i suoi versi di
affabulante sonorità e di una tessitura di alto spessore significante. Sì, di
importante significante metrico. Dacché il pensiero, qui, trova sempre la sua
netta equivalenza col dire; un dire che si fa corpo, involucro aderente a
rivestire ogni palpito interiore. Ed è qui l’aspetto principale, la maggiore
rilevanza a cui attendere: la parola, il sintagma, gli stilemi, la
versificazione: tutto ciò che contribuisce a stilare il tessuto formale di
questa scrittura. Intendendo come forma quell’insieme desanctisiano,
inscindibile insieme fra corpo e anima.
E
quando il poeta si sta:
chiedendo perché
il tempo se n’è andato
e l’alba ora sia soltanto
una carezza assente
un fruscio di foglie secche
di alberi spogli, di colori
stinti (pp. 31),
e
si accorge che i giorni si sono persi in un mare d’indifferenza, non è che si
lasci contaminare da quei geometrici messaggi striminziti di un pallido autunno
residuale di generose stagioni, ma reagisce aggrappandosi ad un memoriale che
si fa alcòva, alba rigenerante, in cui rifugiarsi, e da cui trarre nuova linfa
per nutrire la vita:
E allora sfrondo il pensiero
e aspetto che l’erba rinasca
avvinta all’indugio del tempo.
Così il mio approdo al sorriso
ritorna col flautare del vento
e non ferisce l’infanzia
impigliata all’ingobbirsi
della sera (pp. 50).
Certo c’è in questa plaquette una strisciante malinconia e
più ancora una visione negativa del mondo e del concatenarsi dei fatti. E la
natura stessa affianca il poeta venendogli in soccorso nella concretizzazioni
degli stati d’animo. Ed il gallo, il
cane, le campane, il buio, gli autunni, la sera, le nude case, si fanno
involucri di segmenti d’animo che trovano forza in simboli di grande impatto
visivo. Linguaggio altamente simbolico quello di Castellani. Un realismo lirico di grande resa.
E
forse è proprio in Passi leggeri che
il poeta evidenzia, con maggiore presenza, l’energia rappresentativa dei
messaggi naturali; c’è qui tutto l’esplodere di un panismo esistenziale di
evidente impatto umano; di una pièce
dai toni epico-lirici:
E’ uno stormire di fronde
il canto del vento
a sera. Coro di profumi
che sale dai prati sfalciati
al caldo brusio dell’estate.
Attende la luna e contempla
da lontano, dubbiosa
alla soglia della notte…
Si è fatta breve la mia strada
e l’angoscia mi assale
avvelenando passi leggeri
di bimbe che sorridono al
nonno (pp. 46).
Non vi è certo niente di pastorelleria
agreste o di arcadico ozio letterario. Ma tutto è finalizzato ad un’analisi
psicologica intima e profonda. Ed ogni elemento è componente inscindibile di
tale introspezione: dalla luna a
contemplare dubbiosa alla soglia della notte, dalla brevità della strada, al
sorriso delle bimbe. Quanto vicino questo quadro con tutti i suoi
componenti al dipanarsi della vita e alle perplessità dei tanti suoi perché
irrisolti.
Ma forse sta in questi versi, che mi
piace citare per ultimi, tutto il patema esistenziale di Castellani: la realtà,
il rimpianto, la memoria, l’assenza del
sole:
Potessi almeno ora
riscrivere il diario
correndo per prati e spiagge
con l’aquilone del nonno
e i piedi scalzi, rossi di
gioia.
Ma il nonno l’hanno ucciso
ed io sono zoppo ormai
di luce, di sole, d’amore (pp.
19).
Conclusione amara, ma, se si vuole,
indice di grande attaccamento alla vita. A questa vita che ci sfugge, ma pur
sempre vera e sacrosanta, anche quando
si fa memoria. Anche quando t’investe con tutta la sua eccessiva portata di affetti
e profumi giovanili.
Nazario Pardini
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