domenica 16 febbraio 2014

CLAUDIO FIORENTINI SU "SONO NATO NEL MESE DEI MORTI", DI L. BARTALINI




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Nato nel mese dei morti di Luigi Bartalini

Libreria Arion di Testaccio, Roma, 28 gennaio 2014

Il lavoro dell’attore consiste nel disassemblare alcune parti di sé e riassemblarle in modo diverso, in modo da essere, per un tempo limitato, altro da sé. L’attore non finge e, per un lasso di tempo limitato, riesce a vivere in un mondo parallelo e ci restituisce il suo vissuto attraverso l’interpretazione che, riflessa su noi del pubblico, ci fa scoprire “l’altro” in noi, e protetti, nell’intimità buia della platea, accettiamo e assimiliamo replicando, in parte, ciò che l’attore ha fatto quando ha iniziato a interpretare, a giocare sul palco con altro da sé, in fondo una verità parallela, che altro non è che un sogno letterario messo in scena. Non esiste nella realtà, esiste in teatro, luogo magico dove l’uomo indaga, si indaga, e scopre di essere più di quanto è, perché quella realtà parallela che si esibisce sul palco, esiste in noi tutti. Così il romanziere, quando inventa personaggi, o anche quqndo ricostruisce la complessità di un uomo, basandosi su una biografia…Il romanziere indaga in quella parte di sé, si disassembla per riassemblarsi in modo diverso e, protetto dalla parete buia che lo separa dal lettore, vive un’operazione di profonda ricerca nell’animo e nel’intimo, scavando, scolpendo, graffiando e ferendo i profili dell’anima che ha appena affrontato nel duello creativo che lo porta a scrivere. Luigi Bartalini appartiene a questa categoria, e riesce a vedere il mondo (e a raccontarlo) con occhi non suoi, seppur sempre suoi. In lui, come in noi tutti, vi è tutto, in minore o maggior grado, in evidenza o nascosto, ma pur sempre tutto, e lui lo sa. Il romanziere sa di essere un assassino, un maniaco, un uomo, una donna, un pio e volenteroso cow boy, una prostituta sfregiata, un tenore incompreso, una poetessa casalinga, un pilota di biplani, una restauratrice di bambole, un poliziotto corrotto, una discendente di Santa Bernardette… e un bambino che tiene la mamma per mano e nell’altra mano ha una busta con dei biscotti e chiede alla mamma: perché devo portarli, non posso mangiarne quando torniamo a casa? Perché torniamo a casa, vero?Il candore di quel bambino che sta andando in collegio è tutto in quella domanda, e da quel momento della narrazione si capisce che chi scrive non è l’autore, ma un bambino che lo possiede durante la trance creativa, un bambino che ripone tutta la sua fiducia nei grandi, nella madre, mentre il terrore gli chiude lo stomaco e la sagoma del collegio appare di fronte, pronto a deglutirlo nel vuoto dei sentimenti e nel gorgo dell’angoscia. Un romanzo narra storie, eventi, fatti, vicende, ma soprattutto fa vivere i personaggi, che spesso sono i narratori, e se gli eventi sono raccontati da un bambino - non da un adulto travestito da piccolo - allora noi lettori ripiombiamo nella fragilità dimenticata, che era in noi, che dorme in noi, e si risveglia facendoci rivivere il nostro io da bambino. Come l’attore che apre impensabili livelli percettivi nello spettatore, così lo scrittore, dopo aver vissuto l’esercizio della scrittura disassemblandosi e riassemblandosi, aprirà nel lettore le porte che ci permettono di accedere a livelli percettivi che sino a poco prima erano remote ipotesi. Questo è il miracolo della comunicazione cui noi vorremmo sempre assistere. Miracolo possibile quando il libro scava nel profondo e dipinge personaggi che escono dalle pagine e si materializzano davanti a noi o, come in questo caso, dentro di noi, e ci rinfacciano la nostra pochezza, ci risvegliao dal nostro sopore, ci motivano a vivere quello che abiamo dimenticato, che abbiamo rifiutato di vivere, immersi come siamo nella nostra realtà contingente.
La forza di “Nato nel mese dei morti” - che ha un linguaggio occasionalmente lirico, ma più spesso diretto, apparentemente semplice, a tratti quasi giornalistico - sta nella grandezza dei personaggi: piccolo eroi delle emozioni che ci richiamano all’amore tra madre e figlio, tra figlio e madre, amore sovente tarlato da noia e conflitti, ma pur sempre unico, insostituibile, magico.Spesso il racconto è quasi fotografico, si leggono delle istantanee, dei magici ritratti che tutto dicono, senza violentare l’intimità dei personaggi, senza scavare nel profondo, perché il profondo si racconta da sé. Così vorrei procedere ora, con la tecnica delle istantanee, per entrare nel libro. Il bambino e la mamma sono una famiglia. Vengono separati dalla povertà, dalla guerra, dalla disperazione. Il bimbo osserva il mondo e lo racconta nella sua nudità, mentre la madre soffre, si pente e si chiede come sta crescendo il suo ometto. Ma l’ometto è un gigante: affronta la vita con coraggio, e la racconta con una la forza dell’innocenza (pag. 59): Mamma mi ha spiegato che quest’anno ci incontreremo solo per gli auguri e che non ci saranno regali, i pochi soldi guadagnati servono per il cibo che si riesce a trovare, la tessera del razionamento non è sufficiente e bisogna procurarselo dentro una borsa nera che non capisco quanto sia grande, visto che tante persone vanno a prendere da mangiare tutte lì. E ora sentiamo il gigante cosa osserva nella gente che vede, e se c’è speranza (pag 58): Quando siamo per strada, poco, pochissimo ormai, vedo le facce dei grandi, sono grigie e hanno gli occhi come sbarrati e le bocche sembrano un po’ aperte, loro sanno molto bene cosa sono questi bombardamenti e cercano di parlarne poco, almeno davanti a noi ragazzini, sanno che in un attimo puoi non esserci più, o peggio ancora puoi rimanere sotto le macerie di un palazzo. Eppure tra poco è Natale. Quindi la visione del dramma, della tragedia e della sofferenza, senza giudicare, senza commentare, perché un bambino è puro (pag 53): il maestro che abbiamo adesso ha i vestiti molto larghi, e noi abbiamo capito che a casa sua non deve esserci molto da mangiare perché quando andiamo a pranzo lui dal refettorio porta via sempre qualcosa, del pane, una mela e spesso mette la sua pasta o la verdura in un pentolino di ferro che porta con sé; una volta che l’ho guardato insistentemente mi ha sorriso e ha detto che era per sua figlia. Poi i bombardamenti, l’occupazione tedesca, il ritiro e finalmente, la liberazione, che tutto scioglie, tutto risolve, e il bambino delle prime pagine è un ometto vissuto, che ha già conosciuto il peso del tempo.
Leggo a pagina 70
… quando si avvicina una data importante, una festa, un compleanno, il Natale, il tempo di andare al mare, la domenica che incontro la mamma; ecco, allora mi sembra che il tempo inverta le lancette e che ciò che aspetto sembra non arrivare mai e io sono impaziente, invece gli adulti non hanno fretta, aspettano che arrivi senza ansia, anzi le persone decisamente vecchie vorrebbero un tempo di lumaca (….) Insomma, secondo me il tempo non è tutto uguale, ha per ognuno un valore e un ritmo diverso, e penso che è meglio farne buon uso, ma quello scappa e io non me ne accorgo. Il tempo è molto presente in questo libro, compagno di viaggio del bambino lasciato in collegio ad attendere che arrivi la domenica. Il tempo dell’attesa, quel tempo che sembra che sia più lungo degli altri. Ma il tempo, quanto dura? E cosa significa quando? Quando… concetto che si può esprimere solo in musica… Il tempo è un perenne “quando” e dura quanto la vita, e c’è più vita nei momenti di attesa perché quelli ci sembrano non finire mai e li usiamo, li viviamo tutti, odiandoli; assaporiamo ogni minimo istante dell’attesa fino alla sua fine, che coincide con l’inizio di un tempo breve, che dura sempre meno, che ci sfugge, che non afferriamo, perché quando arriva il tempo atteso: PLUF, finisce! E ci si ripropone davanti di nuovo l’attesa di un altro tempo atteso.
Insomma, l’attesa è un continuo prepararsi a vivere qualche cosa che poi non sappiamo vivere. L’attesa non finisce mai, e quindi contiene più vita del tempo che abbiamo atteso, che finisce subito. E forse la differenza tra un giovane e un vecchio è anche lì, il vecchio sa di attendere l’attimo ultimo, e vorrebbe che l’attesa non finisse mai, mentre il giovane attende l’attimo bello e vorrebbe che l’attesa finisse subito… Ma il tempo non cede il passo al pensiero, lui avanza senza che noi si possa far nulla per fermarlo… Ed ecco che il bambino è grande, è il 1964, Natale, e i ricordi la fanno da padrone. Ricordi tiranni, ingiusti… ricordi patria del non detto, residenza delle occasioni mancate. E lì c’è il panettone, lo spumante, l’inevitabile ritrovarsi con un altro anno che è passato, con una vita che ti fa vecchio, con la tristezza che ti aggredisce e tu non riesci a ribellarti, non riesci a riscattare tua madre da quei ricordi perché quello che per te bambino fu un’ingiustizia, e che per lei, madre, fu necessario per proteggerti e farti crescere sano e istruiti, tu non l’hai mai capito, amico attore, amico personaggio, amico romanziere, amico pubblico e amico me stesso. I ricordi non rendono giustizia a chi è andato via senza chiederti perdono, e tu non perdoni, tu soffri ancora, inutilmente, soffri e fai soffrire. Inutilmente. E questo pezzo di storia che mi hai raccontato mi appartiene, sono io l’attore di questa recita, sono io quello che passa per musone, sono io il personaggio di cui hai raccontato l’infanzia e un Natale, quel Natale che non posso dimenticare, quel Natale i cui ho capito che io sono così, e anche se sono nato a luglio, per circa centocinquanta pagine, anch’io sono nato nel mese dei morti.

                                                           Claudio Fiorentini


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