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Nato nel mese dei morti di Luigi Bartalini
Libreria Arion di Testaccio, Roma, 28 gennaio 2014
Il lavoro dell’attore
consiste nel disassemblare alcune parti di sé e riassemblarle in modo diverso,
in modo da essere, per un tempo limitato, altro da sé. L’attore non finge e,
per un lasso di tempo limitato, riesce a vivere in un mondo parallelo e ci
restituisce il suo vissuto attraverso l’interpretazione che, riflessa su noi
del pubblico, ci fa scoprire “l’altro” in noi, e protetti, nell’intimità buia
della platea, accettiamo e assimiliamo replicando, in parte, ciò che l’attore
ha fatto quando ha iniziato a interpretare, a giocare sul palco con altro da sé,
in fondo una verità parallela, che altro non è che un sogno letterario messo in
scena. Non esiste nella realtà, esiste in teatro, luogo magico dove l’uomo
indaga, si indaga, e scopre di essere più di quanto è, perché quella realtà
parallela che si esibisce sul palco, esiste in noi tutti. Così il romanziere,
quando inventa personaggi, o anche quqndo ricostruisce la complessità di un
uomo, basandosi su una biografia…Il romanziere indaga in quella parte di sé, si
disassembla per riassemblarsi in modo diverso e, protetto dalla parete buia che
lo separa dal lettore, vive un’operazione di profonda ricerca nell’animo e
nel’intimo, scavando, scolpendo, graffiando e ferendo i profili dell’anima che
ha appena affrontato nel duello creativo che lo porta a scrivere. Luigi
Bartalini appartiene a questa categoria, e riesce a vedere il mondo (e a
raccontarlo) con occhi non suoi, seppur sempre suoi. In lui, come in noi tutti,
vi è tutto, in minore o maggior grado, in evidenza o nascosto, ma pur sempre
tutto, e lui lo sa. Il romanziere sa di essere un assassino, un maniaco, un
uomo, una donna, un pio e volenteroso cow boy, una prostituta sfregiata, un
tenore incompreso, una poetessa casalinga, un pilota di biplani, una
restauratrice di bambole, un poliziotto corrotto, una discendente di Santa
Bernardette… e un bambino che tiene la mamma per mano e nell’altra mano ha una
busta con dei biscotti e chiede alla mamma: perché
devo portarli, non posso mangiarne quando torniamo a casa? Perché torniamo a
casa, vero?Il candore di quel bambino che sta andando in collegio è tutto
in quella domanda, e da quel momento della narrazione si capisce che chi scrive
non è l’autore, ma un bambino che lo possiede durante la trance creativa, un
bambino che ripone tutta la sua fiducia nei grandi, nella madre, mentre il
terrore gli chiude lo stomaco e la sagoma del collegio appare di fronte, pronto
a deglutirlo nel vuoto dei sentimenti e nel gorgo dell’angoscia. Un romanzo
narra storie, eventi, fatti, vicende, ma soprattutto fa vivere i personaggi,
che spesso sono i narratori, e se gli eventi sono raccontati da un bambino -
non da un adulto travestito da piccolo - allora noi lettori ripiombiamo nella
fragilità dimenticata, che era in noi, che dorme in noi, e si risveglia
facendoci rivivere il nostro io da bambino. Come l’attore che apre impensabili
livelli percettivi nello spettatore, così lo scrittore, dopo aver vissuto
l’esercizio della scrittura disassemblandosi e riassemblandosi, aprirà nel
lettore le porte che ci permettono di accedere a livelli percettivi che sino a
poco prima erano remote ipotesi. Questo è il miracolo della comunicazione cui
noi vorremmo sempre assistere. Miracolo possibile quando il libro scava nel
profondo e dipinge personaggi che escono dalle pagine e si materializzano
davanti a noi o, come in questo caso, dentro di noi, e ci rinfacciano la nostra
pochezza, ci risvegliao dal nostro sopore, ci motivano a vivere quello che
abiamo dimenticato, che abbiamo rifiutato di vivere, immersi come siamo nella nostra
realtà contingente.
La forza di “Nato nel
mese dei morti” - che ha un linguaggio occasionalmente lirico, ma più spesso diretto,
apparentemente semplice, a tratti quasi giornalistico - sta nella grandezza dei
personaggi: piccolo eroi delle emozioni che ci richiamano all’amore tra madre e
figlio, tra figlio e madre, amore sovente tarlato da noia e conflitti, ma pur
sempre unico, insostituibile, magico.Spesso il racconto è quasi fotografico, si
leggono delle istantanee, dei magici ritratti che tutto dicono, senza
violentare l’intimità dei personaggi, senza scavare nel profondo, perché il
profondo si racconta da sé. Così vorrei procedere ora, con la tecnica delle
istantanee, per entrare nel libro. Il bambino e la mamma sono una famiglia.
Vengono separati dalla povertà, dalla guerra, dalla disperazione. Il bimbo
osserva il mondo e lo racconta nella sua nudità, mentre la madre soffre, si
pente e si chiede come sta crescendo il suo ometto. Ma l’ometto è un gigante:
affronta la vita con coraggio, e la racconta con una la forza dell’innocenza
(pag. 59): Mamma mi ha spiegato che
quest’anno ci incontreremo solo per gli auguri e che non ci saranno regali, i
pochi soldi guadagnati servono per il cibo che si riesce a trovare, la tessera
del razionamento non è sufficiente e bisogna procurarselo dentro una borsa nera
che non capisco quanto sia grande, visto che tante persone vanno a prendere da
mangiare tutte lì. E ora sentiamo il gigante cosa osserva nella gente che
vede, e se c’è speranza (pag 58): Quando
siamo per strada, poco, pochissimo ormai, vedo le facce dei grandi, sono grigie
e hanno gli occhi come sbarrati e le bocche sembrano un po’ aperte, loro sanno
molto bene cosa sono questi bombardamenti e cercano di parlarne poco, almeno
davanti a noi ragazzini, sanno che in un attimo puoi non esserci più, o peggio
ancora puoi rimanere sotto le macerie di un palazzo. Eppure tra poco è Natale. Quindi la visione del dramma, della
tragedia e della sofferenza, senza giudicare, senza commentare, perché un
bambino è puro (pag 53): il maestro che
abbiamo adesso ha i vestiti molto larghi, e noi abbiamo capito che a casa sua
non deve esserci molto da mangiare perché quando andiamo a pranzo lui dal
refettorio porta via sempre qualcosa, del pane, una mela e spesso mette la sua
pasta o la verdura in un pentolino di ferro che porta con sé; una volta che
l’ho guardato insistentemente mi ha sorriso e ha detto che era per sua figlia. Poi
i bombardamenti, l’occupazione tedesca, il ritiro e finalmente, la liberazione,
che tutto scioglie, tutto risolve, e il bambino delle prime pagine è un ometto
vissuto, che ha già conosciuto il peso del tempo.
Leggo a pagina 70
…
quando si avvicina una data importante, una festa, un compleanno, il Natale, il
tempo di andare al mare, la domenica che incontro la mamma; ecco, allora mi
sembra che il tempo inverta le lancette e che ciò che aspetto sembra non
arrivare mai e io sono impaziente, invece gli adulti non hanno fretta,
aspettano che arrivi senza ansia, anzi le persone decisamente vecchie
vorrebbero un tempo di lumaca (….) Insomma, secondo me il tempo non è tutto
uguale, ha per ognuno un valore e un ritmo diverso, e penso che è meglio farne
buon uso, ma quello scappa e io non me ne accorgo. Il
tempo è molto presente in questo libro, compagno di viaggio del bambino
lasciato in collegio ad attendere che arrivi la domenica. Il tempo dell’attesa,
quel tempo che sembra che sia più lungo degli altri. Ma il tempo, quanto dura?
E cosa significa quando? Quando… concetto che si può esprimere solo in musica… Il
tempo è un perenne “quando” e dura quanto la vita, e c’è più vita nei momenti
di attesa perché quelli ci sembrano non finire mai e li usiamo, li viviamo
tutti, odiandoli; assaporiamo ogni minimo istante dell’attesa fino alla sua
fine, che coincide con l’inizio di un tempo breve, che dura sempre meno, che ci
sfugge, che non afferriamo, perché quando arriva il tempo atteso: PLUF, finisce!
E ci si ripropone davanti di nuovo l’attesa di un altro tempo atteso.
Insomma, l’attesa è un
continuo prepararsi a vivere qualche cosa che poi non sappiamo vivere. L’attesa
non finisce mai, e quindi contiene più vita del tempo che abbiamo atteso, che
finisce subito. E forse la differenza tra un giovane e un vecchio è anche lì,
il vecchio sa di attendere l’attimo ultimo, e vorrebbe che l’attesa non finisse
mai, mentre il giovane attende l’attimo bello e vorrebbe che l’attesa finisse
subito… Ma il tempo non cede il passo al pensiero, lui avanza senza che noi si
possa far nulla per fermarlo… Ed ecco che il bambino è grande, è il 1964,
Natale, e i ricordi la fanno da padrone. Ricordi tiranni, ingiusti… ricordi patria
del non detto, residenza delle occasioni mancate. E lì c’è il panettone, lo
spumante, l’inevitabile ritrovarsi con un altro anno che è passato, con una
vita che ti fa vecchio, con la tristezza che ti aggredisce e tu non riesci a
ribellarti, non riesci a riscattare tua madre da quei ricordi perché quello che
per te bambino fu un’ingiustizia, e che per lei, madre, fu necessario per
proteggerti e farti crescere sano e istruiti, tu non l’hai mai capito, amico
attore, amico personaggio, amico romanziere, amico pubblico e amico me stesso. I
ricordi non rendono giustizia a chi è andato via senza chiederti perdono, e tu
non perdoni, tu soffri ancora, inutilmente, soffri e fai soffrire. Inutilmente.
E questo pezzo di storia che mi hai raccontato mi appartiene, sono io l’attore
di questa recita, sono io quello che passa per musone, sono io il personaggio
di cui hai raccontato l’infanzia e un Natale, quel Natale che non posso
dimenticare, quel Natale i cui ho capito che io sono così, e anche se sono nato
a luglio, per circa centocinquanta pagine, anch’io sono nato nel mese dei
morti.
Claudio Fiorentini
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