PRESENTAZIONE L’OCEANO INGORDO DEI PENSIERI
DI FRANCESCO PAOLO TANZJ
Presentare una crestomazia come quella
operata ne L’oceano ingordo dei pensieri
da Francesco Paolo Tanzj non è cosa agevole. E non lo dico per ovvie ragioni di
abbondanza quanto, piuttosto, per il vasto arco temporale che investono le
poesie qui raccolte.
Quarant’anni, sono davvero tanti: in
quattro decenni può cambiare tutto, è, cambiato tutto; e l’uomo,
l’intellettuale (inteso nel senso di colui che pensa) non può non avvertire la
trasformazione, farsene carico, percepirsi profondamente - egli stesso -
modificato.
Si legge, nell’utile Avvertenza che apre il testo, di autorevoli critici e letterati ai
quali non è sfuggito il ruolo “a volte dirompente” di questa scrittura “nel
panorama della nuova poesia italiana ormai non più del secondo novecento ma
proiettata inevitabilmente nel nuovo millennio… questa volta (però) Giorgio
Patrizi e Giulio De Jorio Frisari (rispettivamente pre e postfatore del volume)
hanno voluto inquadrare (la poetica del Nostro) in un ragionamento
storico-letterario (dai) collegamenti inaspettati con le figure più
caratteristiche e caratterizzanti degli anni difficili di una testarda e
solitaria resistenza umanistica”.
Eccoci arrivati alla sintesi, alle
parole-chiave, al filo che - a mio modo di vedere - cuce insieme otto
lustri di elaborazione e rivisitazione
della realtà sul piano creativo.
Già; resistenza:
come difesa, come sopportazione ma - non meno - come reazione, come guerriglia,
come lotta partigiana per la tutela del proprio spazio vitale; e poi, quel
qualificativo: umanistica, che taglia
definitivamente la testa al toro, che indica inequivocabilmente una necessità
non più prorogabile, tendente alla rivalutazione, ad una nuova riproposizione
dei valori universali.
Non siamo di fronte, quindi, ad un
umanesimo stereotipato - vorrei dire: di maniera - anacronistico e
inconcludente, perché essenzialmente diverso è l’approccio, come differente è
il Medioevo che stiamo vivendo rispetto a quello del XIV°-XV° secolo. Pur
tuttavia di evo medio si tratta, di un’epoca di transizione, di grandi
stravolgimenti, di disorientamento che non può che riflettersi - spesso in modo
contraddittorio - sul pensiero e sull’animo.
Bene, questa disputa, questa controversia
è presente (anch’egli è uomo della contemporaneità) in Tanzj; ciò nonostante,
nel complesso, si risolve in un deciso e vigoroso atto di coerenza. Come si
spiega? Potrò
sbagliarmi, ma mi sembra di capire che la perseveranza,la tenacia si sviluppino e crescano
in modo direttamente proporzionale al disagio. Intendo
dire che non è estraniandosi dalle brutture che si trova la bellezza; non è
evitando di sporcarsi con la lordura che si resta puliti; non è tappandosi il
naso che non si avverte il lezzo del marciume. Al contrario, la vera forza sta
nel guardare le stelle pur sapendo di essere immersi nel fango fino agli occhi.
Non sono poche le pagine di questa
antologia che vengono ferite e sanguinano apertamente alla lettura; invito, per
tutte, a soffermarsi sulla 94, dove, in Genova
2001: odissea per la fine, è palpabile la disperante preoccupazione che
attanaglia il poeta.
Non mi dilungherò nel citare (anche per
non togliervi il gusto della scoperta) ma desidero, perlomeno, riportare quei
passi in cui si assiste al trasferimento da uno sconforto circoscritto,
delimitato dal perimetro urbano: “. . .la Città Vecchia è solo una
cornice fascinosa / alle ambizioni di un assalto al cielo / . . . . / dove
Fabrizio canterebbe la rovina / dell’ultima pietà. . .”, alla universale,
angosciante condizione esistenziale dell’uomo post-moderno: “Perché allora -
spiegatemi - come succede / che quattro quinti di terra e di persone / e di
mari foreste e animali e città / stanno. . . / per pagare un conto altissimo /
a questo incosciente millennio che verrà?”.
È un presagio - ma la catastrofe è già in
atto - apocalittico; tengo, però, a precisare che nulla di materialistico
sostiene l’ipotesi ed in questo, ritengo, consista il pregio, l’innegabile
valore della poiesis del nostro autore.
Una spia di quanto vado sostenendo è già
presente nel testo che abbiamo appena considerato: “l’assalto al cielo”, così
come ce lo prospetta Tanzj, è frutto di un’ostentazione sfrenata del nichilismo
imperante; ma di fronte a quale mutamento ci troviamo?
Quello “senza amore e senza dei” - scrive
- : vale a dire un falso cambiamento, un’ansia distruttrice più che edificante,
una degenerazione piuttosto che un miglioramento.
Eppure, nel momento stesso in cui ci
prospetta un quadro tanto sfiduciato, il poeta ci offre la possibilità di
cambiare, l’unica sopravvissuta, superstite del naufragio di ogni ideologia.
Si tratta di riempire il vuoto lasciato
da quei “senza” con qualcosa che sappia davvero colmarlo; e, paradossalmente, a
farlo è di nuovo alcunché di definito ma molto, molto più concreto di quanto si
sia portati a pensare: il sogno, la fede nella forza della sua facoltà
rigeneratrice.
Mi sono valso di due termini che non
esito un istante a riconoscere quali legittimi fondali de L’oceano ingordo dei pensieri, che “spesso… lascia smarriti” coloro
i quali , in fondo, sono consapevoli di una “sovrabbondanza d’amore”.
Osserviamolo, allora - ce lo consente la
trasparenza delle acque - il fondo del mare: vedremo i coralli dell’utopia
saldamente ancorati alle rocce, splendenti nelle loro forme e colori,
continuamente scossi da correnti, ora fredde ora più temperate, ma fermi,
sicuri della loro resistenza, pronti - appunto - al rinnovamento.
È questo l’altro punto di riferimento: la
rinascita che spunta dalle ceneri della distruzione per opera della risoluta
opposizione di una speranza che non vuole morire; è da questo smarrimento,
infine, che s’inizia a ritrovarsi: “Mai come adesso - forse - / abbiamo tutti
bisogno d’amore (si legge a pag. 85) / e ci osserviamo - timidi - in attesa di
parole / di gesti contatti sensazioni / per arrivare in fondo a quel vuoto che
ci assilla / e ci attrae / qual fiume caldo che trascina / leggere immagini
riflesse / forme di noi / canzoni.”.
È la chiusa di Cosa ci resta: testo tratto dalla raccolta Per dove non sono stato mai, ritenuta - concordo - la prova della
ricercata (e raggiunta, mi sento d’aggiungere) maturità dell’autore.
Mi accingo a concludere anch’io; non
prima, però, d’aver espresso il mio pensiero sullo stile che caratterizza
questa scrittura, su quel lasciarsi volutamente contaminare per risultare ancor
più efficace.
Il versificare (non tarderete a
rendervene conto) di Francesco Paolo Tanzj è fuori da ogni schema: la
disposizione stessa delle parole sulla pagina non ubbidisce ad altro che alla
spinta liberatoria suscitata dall’impellente desiderio di contrastare lo stesso
caos, “questa assurda caccia all’uomo - come egli stesso la definisce - / in
nome del dio-mercato / questo incredibile globale assurdo / paranoico errore”
facendo unicamente ricorso ad una visione diversa della realtà.
Ma vi domando: conoscete davvero qualcosa
di più concreto del sogno? Dopo aver ciecamente creduto nella realizzabilità
delle proprie - stavolta sì - utopie, l’uomo non sta forse assistendo impotente
al declino, allo svuotamento di se stesso e della società?
Non perdete la lettura ma, neppure,
l’ascolto e la visione del CD allegato al libro: troverete le risposte.
Sandro Angelucci
Roma, Libreria Rinascita, 9 Febbraio 2014
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