RIVERBERO
Poesie e racconti
Presentazione
di
Francesco D’Episcopo
PUBBLICHIAMO I RACCONTI DELLA SILLOGE
UN MICIO,
UNA STORIA
“Curiosità”. Questo il nome
che ho dato ad una gattina incontrata per la prima volta (e fotografata) il 10 giugno
2001. Le stagioni passano: va l’una e l’altra subito s’appresta. Vanno gli
uomini e gli eventi, le speranze e i sogni. Resta solo la memoria e la paura di
vederla scomparire nelle nebbia. Forse per questo ho deciso di scrivere questa
storia: perché qualcuno sappia e qualcosa resti di quel frammento di vita.
Quella lontana domenica di giugno eravamo ospiti a Canova, un ridente borgo
della Lunigiana immerso nel
verde, di fronte alla suggestiva visione delle Alpi Apuane. Eravamo stati
invitati perché Jessica, una nostra nipote, riceveva la sua Prima Comunione. E’
tradizione che in tale circostanza si invitino parenti ed amici per festeggiare
insieme l’evento. Anche Curiosità, la gattina di Jessica, aveva pieno diritto
di partecipare: anche lei (concedetemi questo lei) faceva parte della famiglia.
Sennonché, la timida bestiola, abituata alla quiete della campagna e a vedere
soltanto
persone familiari, si era
alquanto impressionata davanti a quel insolito afflusso festoso di gente
sconosciuta. Nel giardino, infatti, si erano via via adunati numerosi ospiti,
cordialmente accolti dai genitori di Jessica ed invitati al ricco rinfresco per
loro preparato.La gattina, che all’inizio era rimasta lontano, in disparte,
piano piano si avvicinò cercando di vincere l’iniziale timore.
Si guardò intorno. Finalmente
pensò d’aver trovato un luogo adatto per osservare. Così s’infilò,
all’indietro, in un pertugio della conduttura di scarico dell’acqua piovana: un
provvidenziale posto d’osservazione che le consentiva, in tutta sicurezza, di
soddisfare la sua giovane curiosità.
Negli anni seguenti tornammo
più volte a Canova. Parecchie stagioni erano passate e anche Curiosità era
cambiata. Non era più la gattina curiosa di quel lontano giorno di fine
primavera. Era diventata mamma. Il suo pensiero adesso era volto soltanto ai
suoi piccini.
Poi è venuto l’autunno e
l’inverno. Il bosco si è ingiallito e il freddo vento del nord ne ha disperso
le foglie. Anche Curiosità è volata via come una foglia senza vita. Se n’è
andata come Sonia, la giovane mamma di Jessica, anche lei inesorabilmente
strappata alla vita. Chissà… Sonia e Curiosità forse si sono ritrovate in quel
lembo di sereno, oltre le bianche vette d’Apuania.
IL MIO AMICO MOHAMED
Mi
ricordo soltanto il suo nome: Mohamed. Uno dei tanti Mohamed dalla pelle scura,
che percorrevano e percorrono tuttavia gli arenili festanti del litorale,
giungendo, con il loro
carico
di mercanzia, fin quassù nell'entroterra.
Era l'estate
1978. Sotto un pesante carico di coperte e tappeti, un uomo saliva lentamente
il sentiero della collina che s'apre sulla valle, nel verde di pini, d'olivi e
di castagni; qui dove
a
giugno immense macchie di ginestre s'accendono di sole e
lontani
profumi il vento del meriggio esala; qui dove ancora il
cuculo
scandisce e alterna il suo richiamo a lunghe pause di silenzi.
Sotto
il sole rovente, con quel carico pesante sulle spalle
come
una croce, l'uomo era giunto davanti all'aia della vecchia
casa
contadina e s'era fermato, come per riposarsi un attimo
e
riprendere fiato. Poi, dato uno sguardo intorno, si avvicinò:
forse
perché quell'antico casolare non gli incuteva timore
ma,
anzi, gli ispirava fiducia. La casa, infatti, non aveva cancelli,
reti
o muri intorno ma solo olivi, pergole e filari. Non aveva
neppure
aiuole di giardino per fiori signorili; né per guardia il
cane
lupo, ma un vecchio gatto seduto sulla soglia. Il forestiero
fece
un cenno di saluto e ancora distante, quasi per chiarire le
sue intenzioni,
disse: "Signore, dai acqua...sete..." Fu accolto
cordialmente
per quel senso di ospitalità che sopravvive fra la
più
antica gente contadina di questa terra. E per tale ragione,
invece
dell'acqua gli fu tosto offerto un colmo bicchiere di vino.
"No
vino! Acqua..." disse con garbo il forestiero.
"Ma
questo è vino nostro, della nostra uva. L'abbiamo fatto
noi!”
replicò il padrone di casa: Alfredo, il vecchio mezzadro
che
teneva ancora in mano il fiasco. "Acqua, solo acqua..." insistette
il
forestiero.
"Ma
se proprio volete l'acqua...E' fresca. L'abbiamo presa alla
vasca
poco fa. Posate pure la vostra roba e mettetevi qui all'ombra.
Oggi
il sole non scherza: batte davvero! E poi a quest'ora.!"
L'uomo,
liberatosi dell'ingombrante carico, pareva un cavaliere
che,
toltasi l'armatura, fatica alquanto a ritrovare la normalità
dei
movimenti.
E'
sorprendente come nell'incontro fra persone semplici spesso
si
stabilisca un dialogo immediato. E' l'umanità che affiora oltre
le
vicende della vita. Così il forestiero incominciò a parlare:
in
modo frammentario, con quel poco di italiano che aveva imparato.
Ci
mostrava la sua mercanzia, ma pareva anche desideroso di
far
conoscere la sua storia. Si chiamava Mohamed... Era di nazionalità
marocchina.
Era stato "ingaggiato" come tanti altri
suoi
connazionali che, per poche migliaia di lire e per un pasto,
percorrono
giornalmente chilometri sotto il sole infocato dell'estate
con
il loro pesante carico. Non padrone, dunque, ma soltanto
venditore
per conto altrui. E questo volle ripeterlo più
volte.
Una
storia semplice, come tante altre, con un risvolto
amaro
come è amara la vicenda di ogni emigrante. Aveva lasciato
il
suo paese per venire qui in Italia a fare "la stagione",
con
la speranza che, in autunno, sarebbe tornato con un discreto
gruzzolo
alla sua terra: laggiù al limitare del deserto dove,
nella
piccola casa dal tetto e dai muri bianchi adagiata all'ombra
delle
palme e al canto delle antiche nenie del Corano, lo
aspettavano
la sua sposa e i suoi bambini. Da un logoro portafoglio
sfilò
una vecchia foto e mostrò con orgoglio la sua famiglia.
Ci fu
chiaro, dunque, perché non aveva accettato il vino; e
come
non avrebbe preso altre bevande alcoliche, né mangiato
quelle
fette di mortadella nostrana che, frattanto, Alfredo aveva
tagliato
per lui. Fu allora che provammo, per quell'uomo venuto
da
lontano, un grande rispetto, quasi una tenerezza e,
insieme,
il desiderio di manifestargli la nostra amicizia, che nasceva
istantanea
davanti alla sua dignità di ultimo uomo.
Avremmo
voluto dirgli:"Sii il benvenuto. Riposati, ora
che
il sole arroventa le pietre e le cicale disperdono il canto
del
loro abbandono. Rimani! E' ancora lungo il giorno. Non
abbiamo
molto da offrirti: solo pane, la torta di riso e il dolce
coi
pinoli. Ma te li offriamo volentieri." Non trovammo però
queste
parole. Sapemmo soltanto dire: "Prego... accomodati...
prendi
qualcosa..." E dovcemmo ripetere l'invito più volte prima
che
Mohamed accettasse. Ora nei suoi occhi si leggeva una
commossa
gioia: non per aver venduto una coperta, ma per
quel
bicchiere d'acqua fresca e per quella fetta di pane scuro
profumato
d'amicizia.
Passò
in fretta il tempo del riposo. Il nostro ospite aveva
ripreso
le sue cose e adesso, con un sorriso, ci porgeva la mano.
Riuscì
a sussurrare un grazie e una frase che non capimmo.
Era
forse il saluto nella sua lingua, l'augurio che al suo paese si
porge
nell'addio.
"Ciao,
Mohamed! Se un giorno ti troverai ancora a passare
lungo
la strada che costeggia il fiume, torna fin quassù. Sarai
il
benvenuto" E l'uomo dalla pelle scura, con sulle spalle il pesante
fascio
di coperte e di tovaglie, si voltò ancora per l'ultimo
saluto.
Poi scomparve nella via deserta che si perde tra gli olivi.
Sono
passati molti anni ormai, ma Mohamed non è più
tornato.
Stagioni e stagioni si sono alternate: sole e gelo, frinire
di
cicale e ululato di venti tra i pini e gli olivi della costa. Si
sono
disperse le foglie; sono rinate e disperse ancora. Anche
Alfredo
se ne è andato: è là sul poggio innanzi alla valle dei
Mulini,
unito per sempre alla sua terra.
Il
casolare di quel lontano giorno d'estate è ormai deserto. E già
sono
pronte le ruspe: sarà abbattuto come un animale mortalmente
ferito.
Tutto sarà sconvolto: olivi con le radici al vento,
vigne
strappate dai filari, disperso il biancospino. Sui campi
divisi
da confini sorgeranno muri di cemento, cancelli e reti. E
anche
questa storia si perderà nel vento.
____________________________________
Racconto
vincitore del Premio Letterario Nazionale “Riccione-Satyagraha” 1993
-
Riccione
LE
FOGLIE DEI CASTAGNI
Castagni
Grossi: questo il nome di una località sperduta
tra i
monti di Caprigliola; una zona immersa nei boschi sul versante
sinistro
della Valle dei Mulini, di fronte al monte Grosso.
Qui
la nostra famiglia, unitamente ad altre due di parenti sfollati
dalla
Spezia, trovò generosa ospitalità presso la cascina dello
zio
Ermanno. Qui ho vissuto i primi anni della mia vita e, di allora,
nonostante
la mia giovanissima età, custodisco ancor oggi
stampate
per sempre nella memoria immagini freschissime. La
cascina
sorgeva a ridosso del monte, al limitare di un fitto bosco
di
castagni che danno appunto nome alla località. Tutto intorno
piane
coltivate, olivi e vigne in pergole e filari. Il complesso
rurale
si componeva di un vecchio casolare che ospitava
l’abitazione
e le cantine con accanto una grande loggia ombreggiata
da un
fitto pergolato. Più distante il fienile, le stalle,
il
seccatoio con innanzi una piana dove era il pagliaio. Qui ho
vissuto
tutto il periodo della guerra; qui si è instaurato in me un
profondo
legame affettivo con la natura e con la mia gente contadina.
Ricordare
quei tempi e il modo di vita di allora mi pare
utile
soprattutto per i giovani che ignorano quasi completamente
le
vicende d’allora. Ai giovani rivolgo dunque questi frammenti
di
ricordi; e, tuttavia, anche ai miei coetanei o più anziani
che
forse troveranno in queste parole qualcosa della loro esistenza.
Voglio
innanzitutto ricordare quel caro vecchio casolare
che
ci ospitò, oggi mezzo diroccato e scomparso nella macchia,
come
sono purtroppo ormai scomparsi molti dei protagonisti
della
mia storia. La casa aveva davanti un’aia di mattoni, una
meridiana
solare al muro vicino al grande uscio verde che immetteva
direttamente
in cucina; il tetto a coppi e poche minute
finestre
senza imposte. La porta di ingresso aveva il passagatto:
il
pertugio che appunto consentiva al gatto di entrare ed uscire
liberamente
dalla casa. La presenza del gatto era familiare nella
realtà
contadina. A Caprigliola esiste tuttora un casolare che si
chiama
“Cà dl gato”. Anche da noi il gatto si trovava spesso
seduto
sulla soglia e, quando nell’inverno si chiudeva la porta,
era
accovacciato nell’angolo vicino al focolare, mentre noi
bambini
seduti sulla grande cassapanca stuzzicavamo il fuoco
sognando
alle storie degli anziani.
Il
fuoco. Il fuoco era sempre acceso come nel tempio di Vesta;
forse
perché la legna abbondava – a dispetto dei fiammiferi
(zolfanelli)
che erano abbastanza rari; o piuttosto perché doveva
servire
alla comunità di quattro famiglie che avevano la cucina
in
comune abitazione. Il grosso nero gorgogliante paiolo
era
un po’ il simbolo di questa costante attività e su questo
paiolo
noi bambini avevamo una sorta di diritto alla raschiatura,
quando
era svuotato dalla polenta. Mi ricordo che dividevamo
le
pareti in quattro parti e ognuno prendeva possesso del
proprio
spazio raschiando con estrema diligenza la polenta rimasta
attaccata.
La polenta: piatto forte della cucina contadina.
Dorata
e fumante, la rivedo sulla mastra mentre lo zio con il filo
(refo)
la tagliava. Com’era buona condita con l’olio d’oliva e
con
una spolverata di formaggio! A volte, in alternativa, si variava
con
la polenta dolce (farina di castagne e latte), con la
pattona
(una specie di castagnaccio povero, senza pinoli e uva
secca)
cotta su foglie di castagno. Granturco e castagne erano
in
quel tempo la base della nostra alimentazione e molteplice
l’utilizzo:
così le pannocchie di granturco erano arrostite sulla
brace,
così le castagne bollite con l’allora (i baleti) o arrostite
nella
padella coi fori (le mondine). In momenti eccezionali
c’era
anche il pane nero, ma per poco: la cassa rimaneva ben
presto
vuota. E allora mi ricordo che scandivamo il ritornello.
“Cucù,
cucù? N’ tla cassa n’ ghe ne pù”. Un altro piatto comune
erano
i panigazzi, che poi sarebbero diventati italianizzandosi
“panigacci”
o testaroli. Spesso i testi, uno sull’altro,
crescevano
a dismisura assumendo la forma di una torre in miniatura,
a
volte come quella di Pisa “che pende, che pende e
mai
viene giù”: così diceva un motivo cantato in quegli anni.
Ma un
giorno la pila dei testi si rovesciò e uno volle lasciarmi
su un
piede il suo ricordo.
Per
noi bambini poi c’era quasi sempre il latte quotidiano,
grazie
alla generosità della mucca che pareva anch’essa
molto
sensibile ai problemi dell’emergenza alimentare. Ma la
mucca
era anche utilizzata per trascinare la treggia (la bena):
quella
sorta di slitta con vimini intrecciati su due assi di legno
che
serviva per il trasporto del fieno e, a volte, anche di noi
bambini.
Nella
fattoria c’erano però anche altri animali: alcune
pecore,
il maiale e numerose galline, che durante il giorno ne
andavano
in giro per i campi e a sera puntualmente rientravano
al
pollaio. C’era anche Chiappino, un grosso cane che faceva
buona
guardia; un cane senza nobiltà di razza, ma eccezionale,
legatissimo
a tutti noi. Un giorno tornò a casa con una formaggetta
intera
ancora avvolta nella carta e intatta ce la depose ai
piedi.
Chissà dove l’aveva trovata.
Rapide
sequenze scorrono nella memoria riportando
profumi
e sensazioni: la fragranza del pane appena sfornato,
l’aroma
della crepitante fiamma d’olivo, la fioca luce del lume
ad
olio appeso alla trave e le ombre lunghe proiettate sui muri;
il
mortaio di marmo per pestare il sale, le teglie appese alla parete,
il
secchio con l’acqua e la mestola di rame. Ma anche gravi
sequenze
hanno impressionato la giovane lastra della memoria:
i
tedeschi che perquisiscono la casa, le armi puntate, le colonne
che
salgono il sentiero del monte portandosi via uomini
rastrellati
in un sordo angoscioso rumore di passi. Fredde sequenze,
taglienti
come il vento d’inverno che scende dal monte
Grosso,
ululando nella notte tra i pini della costa e tormentando
gli
olivi.
POESIA
RAGIONE DI VITA
Ricordando
Anna
Maria De Ghisi
Il
mio primo incontro con Anna Maria De Ghisi risale a
metà
degli anni settanta. Fu durante la premiazione, ad un concorso
letterario.
Lei era presidente della commissione giudicatrice,
io
uno dei tanti concorrenti venuti a ricevere una sofferta
medaglietta.
Prima
d'allora, tuttavia, il nome di Anna Maria De Ghisi
non
mi era ignoto: sapevo del suo legame con la poesia, e
qualche
volta avevo avuto l'opportunità di leggere i suoi componimenti
poetici.
Sapevo anche delle sue non buone condizioni
di
salute; forse per questo, quando la conobbi personalmente,
rimasi
colpito dal suo spirito di vitalità superiore a quello di
altri
che dalla vita avevano avuto tutto.
Il
suo segreto era dunque la poesia. In essa credeva ardentemente
e in
essa trovava la forza per sentirsi partecipe, al
pari
di ogni creatura, del sublime disegno della vita.
L'incontro
di quel lontano giorno non rimase isolato: ne
seguirono
altri nella sua casa di Migliarina e, anche se non divennero
frequentissimi,
rimasero costanti fino alla sua morte.
Mi riceveva
nel suo studio: lì c'era tutto il suo mondo, tutta la
sua
vita; lì sentiva nascere e morire le stagioni senza poterle
vedere,
perché la finestra dava sulla strada chiusa da alti palazzi.
Mi
sono chiesto spesso quanto conforto avrebbe avuto invece
da
una vista aperta sulla collina, verso gli olivi e i pini.
Ma,
forse, per Anna Maria quello studio non era chiuso.
La
sua poesia l'aveva aperto come un verde pascolo nel sole,
dove
poteva ricevere i suoi poeti e dove giungevano le voci dei
suoi
amici più lontani: Quasimodo, Montale, Bargellini, Carlo
Bo e
tanti altri.
Lo
studio ora è vuoto, ma tutto è rimasto come allora: le
medaglie
d'oro e gli antichi dipinti dei De Ghisi alle pareti, la
biblioteca,
la scrivania, la sua penna d'oca, la vecchia pendola.
Non
c'è più l'usignolo. Il suo canto si era già spento qualche
anno
prima della scomparsa della De Ghisi. In questo studio
posso
dire di aver conosciuto veramente Anna Maria, la sua
poesia,
la sua vita.
La
poesia che nasceva, e si rafforzava negli anni, dava
forza,
speranza all’esistenza, colmava solitudini e diventava ragione
di
vita. Non tutti forse capivano. Ma nonostante questa
necessità
di poesia - senza voler fare una approfondita analisi
sulla
poetica della De Ghisi - non è difficile riconoscere la validità
di un
linguaggio che spesso raggiunge grande intensità
emotiva
e lirica. Tutto questo non è nato da improvvisazione,
ma è
frutto di anni di studio e di ricerca.
Anna
Maria De Ghisi non aveva timore di classificarsi
"autodidatta".
Ma noi sappiamo che si dedicò con grande impegno
allo
studio della letteratura, della filosofia e dei classici,
indirizzata
e seguita con affetto da alcune persone molto qualificate.
l
testi di Pascal e di Tagore le erano familiari e, soprattutto,
amava
i versi di Emily Dickinson che spesso citava. In
essi
la sua spiritualità trovò nuova linfa dandole forza e gioia di
vita
e facendole cogliere il valore del creato e delle creature;
una
spiritualità che trovava nel messaggio cristiano il suo compimento
ideale.
Anna
Maria De Ghisi è entrata nella Poesia del Novecento
della
nostra terra ed, oggi, con la collocazione di una targa
ricordo
nella sua casa, la Città della Spezia vuole onorarne
la
memoria e perpetuarne il messaggio di vita, d’amore e di
speranza.
IL
GRILLO E LA FORMICA:
una
favola riscritta
La
Rai aveva bandito un concorso alquanto originale. Si
doveva
scrivere un racconto per Televideo, rispettando lo stretto
spazio
della pagina televisiva: massimo 17 righe, e per ogni
riga
non più di 39 battute. Il concorso era aperto a tutti e completamente
gratuito.
Chi ha esperienza di premi letterari, sa che
normalmente
è richiesta una quota di partecipazione più o meno
consistente.
Ebbene,
quando seppi la notizia, pensai che forse valeva
la pena
di partecipare. Che cosa spinge un autore a partecipare
ad un
concorso? Sicuramente, prima di tutto, il sogno di vedere
la
propria opera in qualche modo riconosciuta valida dalla giuria.
Poi,
naturalmente, la consistenza del premio. Sì, il premio
può essere
un valido incentivo, soprattutto quando è in denaro.
Non
suoni come scandalo questa affermazione, quando esce
dalla
bocca di chi si dedica alla poesia. “Ogni scrittore - anche
se lo
nega - (ci ricorda Palazzeschi) cerca sempre un lettore”.
Orbene,
per avere un lettore, è indispensabile avere un supporto
che
divulghi il pensiero, ovvero la scrittura: il libro. Far
stampare
un libro, costa. E quanto costa! Ecco, allora, che un
premio
in denaro vinto in un concorso letterario può diventare
provvidenziale.
Un autore di poesie non si illuda di trovare un
editore
mecenate, disposto ad accollarsi le spese di stampa.
Anche
i grandi poeti, all’inizio, misero mani al portafogli e pagarono
di
loro tasca gli stampatori.
Il
premio Rai previsto per il concorso “Un racconto per
Televideo” non
era, però, in denaro, ma consisteva in un semplice
CD.
Sembra strano, oggi che fiumi di denaro scorrono rigogliosi
da
programmi leggeri leggeri beneficando come una
lotteria.
Il
vincitore, ovvero l’opera vincitrice, avrebbe avuto,
però,
un risalto eccezionale: sarebbe stata trasmessa su Televi61
deo
per 48 ore, non soltanto in Italia ma ovunque giungeva il
segnale
Rai. Era questo, sicuramente, il più bel premio che un
autore
potesse attendersi.
Decisi,
dunque, di partecipare. Avevo già una mezza
idea:
avrei riscritto, in chiave moderna, l’antica favola della cicala
e la
formica, inserendo un personaggio nuovo: il grillo.
Sentivo
il desiderio di fare un’opera di giustizia: riabilitare
quella
povera cicala sempre condannata ingiustamente come
vagabonda.
L’idea mi era venuta ascoltando una notizia trasmessa
qualche
giorno prima dal Telegiornale di Raiuno delle
ore
20: il decano dei telegiornali. La notizia diceva pressappoco
questo:
“Alcuni studiosi americani hanno messo sotto controllo
il
comportamento della formica ed hanno constatato, con
una
certa meraviglia, che questo insetto non è poi il gran lavoratore
che
la tradizione ci ha sempre fatto credere. Sì, la formica
trascorre
più del 70% del suo tempo in un dolce far
niente”
Vi
confesso che questa rivelazione mi colpì non poco. Invero,
io ho
sempre avuto una “cordiale” antipatia per la formica. Forse
perché
mi è stata sempre presentata (già dai banchi di scuola)
come
l’esempio da imitare: “Fai come la formica!” Ma, se
ragioniamo
un attimo, vediamo che essa non è certamente un
campione
di virtù: è egoista, corporativa, e anche ladra; infatti,
si
porta via tutto quel che trova. E, come se non bastasse, è anche
invadente:
durante l’estate me la ritrovo sempre in casa.
Della
cicala, invece, e del suo canto, custodisco un lieto ricordo.
Mi
rammenta i lontani tempi dell’infanzia, quando nella
lunga
estate delle vacanze in Lunigiana, il suo canto si univa,
dolce
come una ninna nanna, al tempo del riposo pomeridiano
della
nostra gente contadina. Sì, la cicala - a differenza della
formica
- assolveva quasi un compito di “volontariato”: donava
il
suo canto senza nulla chiedere.
Non
fu semplice conciliare il mio racconto per Televideo
con le
rigorose regole previste: fare, insomma, una sintesi
della
mia favola in 17 righe. Quando mi parve d’esserci riuscito,
preparai
subito gli elaborati e, senza indugio, li inviai alla
Rai.
Passò
qualche mese e, un giorno, la televisione comunicò
il
successo di partecipazione riscosso dall’iniziativa: 3400
erano
i concorrenti che avevano inviato i loro racconti, non soltanto
dall’Italia
ma anche da diversi paesi europei, dal Canada,
Stati
Uniti ed Australia. Nell’apprendere ciò, mi misi il cuore
in
pace: non mi sognavo lontanamente d’essere io il vincitore.
E,
così, non pensai più al concorso, finché un giorno, inattesa,
mi
arrivò una telefonata. “Sono…, giornalista de… e vorrei
venire
ad intervistarla”: così disse la voce dell’ignoto interlocutore
telefonico.
Mia moglie che, poco distante, aveva sentito
tutto,
esclamò: “Dove abbiamo messo il biglietto della lotteria!”
Già,
lei era arrivata alla più logica delle conclusioni.
“Perché
vuole venire ad intervistarmi” dissi con meraviglia
al
giornalista. “Ma, come, la Rai non lo ha informato che
il
suo racconto ha vinto il concorso di Televideo?” “Veramente
non
so nulla!” replicai stupito.
“Ebbene,
apra la televisione e alla pagina 148 di Televideo
troverà
la notizia”. Sì, era proprio vero.
Mi
chiesi, più volte, come il mio racconto “Il grillo e la
formica”
avesse potuto riscuotere favore nell’autorevole commissione
giudicatrice,
di cui faceva parte anche lo scrittore e
presidente
della Rai, Enzo Siciliano. Probabilmente, il mio racconto
era stato
abbastanza originale e, come ogni favola, aveva
una
sua morale, peraltro abbastanza attuale in quel tempo.
LA
SCAMPAGNATA DI PASQUETTA
Nostalgia
per una bella tradizione scomparsa
“Che
cosa rimpiange del passato?”: fu chiesto un giorno
a
Ungaretti, durante una intervista televisiva. Con l’arguzia e la
simpatia
che gli erano proprie, il grande poeta vegliardo rispose:
“Il
canto dell’ubriaco”; e subito -quasi a voler chiarire il suo
pensiero
al perplesso cronista che gli aveva posto la domanda -
soggiunse
che, proprio la scomparsa del canto dell’ubriaco, era
la
conferma di quello stato di malessere tipico dell’inquieto vivere
moderno.
Non significava che l’ubriaco era sparito ma,
piuttosto,
che egli stesso si era trasformato: aveva perduto quella
sua caratteristica
allegra per chiudersi in se stesso, divenendo
triste
e spesso aggressivo.
Non a
caso ho voluto ricordare questo episodio; c’è in
esso,
come potete vedere, un legame con questi miei frammenti
miranti
a rievocare un momento particolarmente simpatico della
vita
spezzina. Se anche voi siete della mia generazione - non
più
giovani, per intenderci - certamente vi ricorderete con una
punta
di nostalgia di quel lunedì dell’Angelo che era per noi il
giorno
della scampagnata.
Già
nel mattino le vie che conducevano sui colli, da
Porta
Genova a Porta Isolabella, da via XXVII Marzo a Porta
Castellazzo
e su su fino a Sarbia, e così la strada che portava
alla
Foce, si animavano di gente festante: uomini e donne, giovani
e anziani:
intere famiglie che arrancavano sui ripidi tornanti
portandosi
grosse borse e sporte ripiene. E con l’andar del
tempo
le vie si affollavano sempre più assumendo quasi
l’aspetto
di un pellegrinaggio, tanto che la sede stradale pareva
divenuta
un percorso riservato ai pedoni. Così quella marea di
gente
saliva verso la campagna, accampandosi sui prati che si
affacciavano
lungo il cammino. Nasceva in questo modo la più
spontanea
e cara festa campestre degli spezzini. Nell’aria luminosa
della
primavera, come un concerto s’innalzavano le voci,
mentre
la gente, seduta sulle alture, sembrava occupare gli
spalti
di una maestosa arena innanzi all’incantato spettacolo del
golfo.
C’era
allora un’armonia...un modo diverso d’essere, che
nasceva
forse da una vicinanza, da un incontro, vorrei dire da
uno
spirito paesano. C’era una maggiore disponibilità ad apprezzare
le
cose semplici, dovuta forse al fatto che poche erano
le
possibilità offerte da quei tempi. E tuttavia questa limitazione
non
impediva, ma facilitava il trascorrere di momenti sereni.
Anzi,
sotto questo punto di vista il successo era completo. Il
segreto
era dunque proprio lì: in quel modo immediato e fresco
di
comunicare e di legarsi agli altri. Bastava sedersi sull’erba,
davanti
ad una ruvida tovaglia che offriva fette di pane scuro,
un
piatto di cotolette, qualche fetta di torta di riso e un fiasco di
trebbiano,
per ritrovare poi l’allegria e un nuovo gusto per la
vita.
L’automobile - che avrebbe cambiato tante abitudini - non
era ancora
arrivata, e neppure si pensava ad essa. Non era ancora
giunto
il caotico fine settimana fatto di caselli, di code snervanti
e
d’autostrade, di ristoranti “tipici”, di piatti e bicchieri di
plastica.
La campagna, a due passi dalla città, era ancora aperta
e
pulita, e limpido il cielo e più chiaro il sole e più vero
l’avvento
delle stagioni.
La
scampagnata di Pasquetta era più di una tradizione:
pareva
divenuta un rito. Era l’incontro con la primavera. E allora
la
buona stagione giungeva puntuale all’appuntamento; non
come
oggi che ci mostra spesso un volto malato, ove s’accenna
e
sfiorisce effimero annuncio di rondini mute che non si fermano
più.
A
volte, facendo il confronto tra passato e presente, mi
chiedo
che cosa ricorderanno dei loro tempi i giovani d’oggi.
Certamente
non la nostra scampagnata di Pasquetta. Essi non
hanno
vissuto quel momento; non perché non vollero, ma perché
non
lo trovarono. Fu certamente colpa dei tempi che, offrendo
nuove
possibilità, promisero migliori occasioni di sva65
go,
ma fu anche colpa dell’uomo che, abbacinato da tante novità,
credette
di emanciparsi fuggendo dalla semplicità di molte
tradizioni;
pensò d’essere più libero chiudendosi in se stesso,
più
moderno rifuggendo da quello spirito paesano che ancora
lo
legava al passato, alla gente, alla terra.
Tornava
la gente a sera giù dai Colli e dalla Foce, finendo
in
canto quella serena scampagnata di pasquetta. E
quando
già nella notte brillava la città di luci, e la faccia della
luna spargeva
il suo quieto e pallido chiarore, ancora qualche
voce...qualche
canto s’indugiava lungo la strada che scendeva.
Come
Ungaretti, anch’io, per quel lontano canto che nasce
dal
ricordo, oggi sento tanta nostalgia.
IL
MIO PRIMO GIORNO DI LAVORO
ALLA
TERMOMECCANICA
Mi
arrivò, inattesa, una cartolina postale con una comunicazione
altrettanto
inattesa: “La preghiamo di presentarsi per
notizie
che la riguardano”. Mi giungeva da un mittente per me,
allora,
quasi sconosciuto: Termomeccanica Italiana S.p.A. Cercai
di
sapere qualcosa di più. “E’ quel grande stabilimento metalmeccanico
di
via del Molo, vicino al cimitero” mi dissero,
aggiungendo:
“Hai fatto qualche domanda di lavoro?” “No,
assolutamente.”
risposi. “Ti conviene, in ogni caso, andare e
sentire
che cosa vogliono” mi fu consigliato. E così, il giorno
dopo,
mi presentai all’azienda. Non avevo faticato a trovarla,
sia
per la vastità del complesso, sia perché conoscevo la strada
dei
Boschetti: due mesi prima l’avevo percorsa accompagnando
mia
madre al cimitero, morta improvvisamente e ancor giovane.
Quando
giunsi davanti all’entrata della Termomeccanica,
rimasi
colpito dal grande portone bronzeo su cui campeggiava
una
grossa T scolpita e dall’ampia elegante portineria che
assomigliava
al salone di ingresso di un grande albergo. Fui
fatto
accomodare in una saletta attigua in attesa che il direttore
amministrativo
si liberasse. Mi ricordo che sulla porta del suo
ufficio
c’era una sorta di piccolo semaforo: la luce rossa significava
che non
si poteva entrare. Quando apparve il giallo il
portiere,
tenendo tra le mani la mia cartolina, mi introdusse
nell’ufficio.
Dopo una breve presentazione il direttore spiegò le
ragioni
della convocazione: “La nostra società ha deciso di
ringiovanire
il proprio ufficio paghe. Abbiamo preso contatti
con
il vostro istituto scolastico e, poiché lei risulta tra i diplomati
meglio
classificati, le facciamo la seguente proposta: Sarebbe
interessato
ad iniziare un rapporto di lavoro con la nostra
società?
Inizialmente sarebbe collocato all’ufficio paghe,
come
tirocinante… in seguito, in base alle sue qualità, potreb67
be
anche migliorare il suo percorso professionale all’interno
dell’azienda.”
Non mi aspettavo quella richiesta e, quindi, non
seppi
dare una risposta immediata. Invero, ero ancora immerso
in
quella incerta atmosfera subentrata alla morte di mia madre.
Non
avevo ancora deciso che fare. Mi sarebbe piaciuto continuare
gli
studi, ma non avevo ancora valutato le impreviste difficoltà
che
si affacciavano. Al direttore non sfuggì la mia incertezza
e,
quindi, mi disse (ho qui stampate nella mente le sue parole):
“Comprendiamo
che dobbiamo chiederle di prendere
una
decisione importante per la sua vita”. Dopo un attimo di
pausa
aggiunse: “Le diamo una settimana per rifletterci. Se,
poi,
la proposta non le interessa, non è necessario che torni di
persona
a riferirlo: ci dia una telefonata e noi contatteremo altri…”
E,
così dicendo, mi allungò il suo biglietto da visita.
Tornato
a casa, pensai tutto il giorno a quella proposta
senza
approdare ad alcuna decisione. La mattina seguente, però,
mi fu
tutto più chiaro. Fu sufficiente un semplice ragionamento
a
farmi decidere. La Termomeccanica era una grossa azienda
che
contava oltre mille dipendenti. Pertanto, disponeva
di
una mensa aziendale. Evviva! Avrei risolto metà del mio
problema:
a mezzogiorno avevo un pasto assicurato; soltanto la
sera,
quindi, sarei andato alla mensa dei ferrovieri. Già, non ho
detto
che con la morte di mia madre la nostra famiglia si era
ridotta
a mio padre ed io. Mio padre era ferroviere e, quindi,
faceva
spesso i turni del giorno e della notte. Ecco perché
anch’io
spesso, per stare insieme con lui, andavo a mangiare
alla
mensa dei ferrovieri. Mi tornano alla mente le parole dello
scrittore
Giovanni Petronilli: “La sofferenza maggiore non è
tanto
vivere soli, quanto mangiare in solitudine”.
La
vita è fatta di momenti vissuti. Alcuni di essi restano
a
segnare per sempre il percorso. Uno di questi è per me il 9
dicembre
1957: il primo giorno di lavoro. Alle 8 ero già in attesa
in
portineria. Con mio stupore e piacere trovai Renzo, un
mio
amico di scuola, anch’egli in attesa di entrare all’ufficio
paghe.
Aspettammo quasi un’ora, poi finalmente il direttore ci
chiamò
e, personalmente, ci accompagnò all’ufficio paghe. Mi
ricordo
che, aperta la porta, tutti gli impiegati scattarono in
piedi:
“Vi presento i vostri due nuovi colleghi” disse con voce
solenne.
Incominciava così il mio primo giorno di lavoro. Ero
talmente
felice che mi pareva di vivere un sogno. Ritrovo vivi
come
allora i nomi dei colleghi: Figari, Filattiera Zignani, Garetto,
Monti,
Baldi, Tanzi e, naturalmente Michi, l’amico entrato
con
me; poi, qualche tempo dopo, Calamai (nuovo capoufficio)
e
successivamente Sommovigo e Barcellone.
L’ufficio
paghe si era davvero ringiovanito: eravamo in
sei
“ragazzi”, tutti provenienti dalla stessa scuola. E’ bello, dopo
i
tempi dello studio, ritrovarsi insieme in uno stesso ufficio!
Per
me, poi, lo era ancor più, perché il lavoro e gli amici colmavano
il
grande vuoto di solitudine che la morte di mia madre
aveva
aperto (ero figlio unico e mio padre era spesso impegnato
nel
lavoro). Ero così contento di lavorare, d’essere in un ambiente
amico,
che l’impegno non mi pesava, anche quando mi
fermavo,
oltre l’orario, per imparare ad usare (senza guardare i
tasti)
la calcolatrice meccanica. Pensate! La felicità di quel lavoro
mi
faceva trovare perfino in disaccordo con il buon Leopardi.
Vi
ricordate? Egli, pensando alla domenica, aveva scritto:
“Diman
tristezza e noia/ Recheran l’ore, ed al travaglio usato/
Ciascun
in suo pensier farà ritorno”. No! Non era così
per
me. In quei tempi, invero, io mi sentivo quasi contento la
domenica.
Pensavo che l’indomani sarei tornato in ufficio, tra
gli
amici, in “famiglia”.
PENSIERI
E RICORDI DELL’ULTIMO GIORNO
ALLA
TERMOMECCANICA
Erano
quasi le 17 quando squillò il telefono. “Signor
cassiere,
siamo tutti in attesa della tua augusta presenza. Se
vuoi
degnarci di tanto onore...” Riconobbi subito la voce
scherzosa
di Stefano. “Vengo, vengo!” risposi prontamente,
mentre
mi accingevo a chiudere la cassaforte, così come avevo
fatto
ogni sera, per anni ed anni. Ma questa volta avvertivo la
diversità:
non si trattava della solita operazione che quasi automaticamente
chiudeva
la mia giornata di lavoro. No, adesso
era
l’ultimo adempimento, l’atto definitivo che chiudeva la mia
vita
di lavoro. E tra poco, con la consegna delle chiavi al mio
successore,
avrei suggellato quell’azione anche formalmente,
quasi
con la solennità d’un rito. Che strano! Soltanto allora mi
parve
di capire il valore simbolico che le chiavi esprimevano:
un
valore antico di millenni. E mentre scattavano le serrature
dei
pesanti portelli blindati, sentivo nascere i pensieri
dell’addio.
La cassaforte non mi appariva più un freddo arredo
di
lavoro: forse aveva anch’essa un’anima e meritava allora il
mio
saluto: “Tanto tempo abbiamo vissuto insieme (quasi sempre
in
accordo) e vagamente somigli questa sera ad una nobile
signora
di una certa età - sobria eleganza, parole misurate - in
piedi
sull’uscio ad attendere un saluto. Portelli blindati, le
chiavi,
la combinazione: sono i sigilli della tua dignità. Aprire
e
chiudere ogni giorno, come un rito, era il mio compito e annotare
le
tue disposizioni: Tanto ho avuto, tanto ho dato, tanto
devo
avere. E tua era la verità. Che strano! ora che rendo le
tue
chiavi, fatico a ritrovare un lontano giorno di festa. Ma il
tempo
non indugia. Le stagioni passano: va l’una e l’altra subito
s’appresta.
Vanno gli uomini, i pensieri, le speranze, i sogni.
Restano
i ricordi. Nel tuo cuore segreto, per sempre custodiscili
per
me.”
Quando
entrai nell’ufficio del direttore - qui i colleghi
avevano
preparato i tavoli del rinfresco - sentii una grande
commozione.
Ogni mattina, per anni, avevo varcato quella soglia,
ma
ora non venivo a farmi firmare i documenti del giorno;
venivo
a raccogliere il saluto dell’addio. Sì, adesso era giunta
la
mia ora. Molte volte, in passato, ero stato io a porgere il saluto
ai
colleghi che andavano in pensione; e come augurio avevo
portato
spesso la pergamena con impressa la poesia “Ultimo
giorno”,
recante le firme degli amici, a ricordo del tempo passato
insieme.
A volte avevo ritrovato quella pergamena incorniciata
e
appesa, in bella mostra, nella casa di qualche amico
pensionato.
E’
stato scritto che l’esistenza è fatta di momenti vissuti;
e
quelli importanti rimangono, come pietre miliari, a segnare
il
percorso della nostra vita. Per questo innanzi tempo ci prepariamo
a
viverli. Ma spesso, quando entriamo in essi, ci accorgiamo
che
sono differenti da come li avevamo figurati. Anch’io
m’ero
preparato un bel discorso ma, in quel momento, le parole
si
annullavano nella commozione che faticavo a nascondere;
commozione
che vedevo riflessa negli occhi degli amici. Erano
venuti
davvero in tanti a salutarmi. E mi avevano portato un
magnifico
dono: una serie di prestigiose penne d’oro (le stesse
che
ancora oggi utilizzo quasi giornalmente).
Si
era ormai dissolta l’eco degli applausi; soltanto il
rumore
dei miei passi risonava ora nei lunghi corridoi deserti.
D’un
tratto immagini lontane presero forma sempre più chiara,
come
se il sole avesse dissolto per incanto un opaco muro di
nebbie.
Mi vedevo ragazzo, entrare nell’ampia portineria, maestosa
come
l’atrio di un albergo. Sentivo un fremito di gioia
nell’attesa.
Poi lo schiudersi d’un uscio: “Vi presento il vostro
nuovo
collega...” Ho qui stampati nella mente i loro volti. Il
mio
primo giorno di lavoro era lì intatto; ora che l’ultimo stava
per chiudere
la parentesi aperta allora. Che strano! Passato e
presente
si confondevano e così volti, parole, pensieri. Una vo71
ce
pareva ancora dar suono ai lontani versi della pergamena:
“Svanisce
il giorno nel crepuscolo e il crepuscolo si perde nel
silenzio
quieto delle sera. Giunta è la sera tanto attesa, ma è
giunta
vestita di malinconia. Che resta del giorno alla sera?
Che
resta di tutta una vita, che resta? Più niente? Soltanto il
ricordo?”
Una cappa grigia mi parve innanzi e un volto di
bambino:
“Se oggi il mondo possiede qualcosa è anche merito
tuo:
della tua fatica, del tuo lavoro. Il mondo di oggi deve alla
vita
di ieri. Il mondo di domani dovrà alla vita di oggi. Chi semina
un
albero a volte non lo vede fiorire; eppure non
s’arrende
per questo. Egli sa che altri verranno a godere
quell’ombra
odorosa. Stasera, tornando alle tua casa, agli affetti
più
puri, più cari, porta l’augurio più vivo, più bello, di
questa
nostra perenne amicizia. Addio...”
Poi la
vecchia scheda magnetica scivolò nell’orologio e, con il
suo
ultimo rauco suono, fermò per sempre il battito del tempo.
AVANTI
C’E’ POSTO
Il
caro vecchio tram della linea Chiappa era arrivato alla
pensione.
Era quello il suo ultimo viaggio. Anch’io, bambino,
ero
andato a salutarlo con i compagni al capolinea di via Cesare
Bertagnini.
Un vago senso di malinconia sentivo, quello che
si
prova per ogni cosa che ci lascia. C’era qualcosa nel mio inconscio
che
mi legava al tram. Le rotaie, gli scambi, lo sferragliare
delle
grosse ruote d’acciaio, la sua stessa forma, mi ricordavano
il
treno. Già, il treno faceva parte, in qualche modo,
della
mia famiglia: mio padre era ferroviere, come i suoi fratelli
e
quasi tutti i nostri parenti. Ma, per noi bambini della Chiappa,
il
treno era lontano: per vederlo dovevamo andare a Gaggiola.
Il
tram, invece, era sempre tra noi; una presenza che si
legava
alla vita d’ogni giorno. Forse, per questo, con lui (lasciatemi
passare
questo “lui”) avevamo fatto presto amicizia e
preso
confidenza. Invero, qualche compagno più grande e un
po’
discolo a volte se n’approfittava. Ad agosto, per esempio,
nei
giorni che precedevano la festa del quartiere (San Bernardo),
sistemava
sulle rotaie mucchietti di polvere esplosiva (una
miscela
di clorato di potassio comprato in farmacia e zolfo) e,
così,
al passaggio del tram era tutto un crepitare di spari come
una
battaglia vera. Qualche volta il tranviere scendeva a “bonificare”
la
linea.
Con
la scomparsa del tram si chiudeva una pagina di
storia
del quartiere e con essa andavano in pensione abitudini,
locuzioni
e vocaboli (“attàccati al tranvai”, “il solito tran tran”
“tranviere”
e così via; sempre rigorosamente con le “n”). Ma
per
ogni pagina che si chiude un’altra se ne apre: ancora tutta
da
scrivere. Quella nuova pagina aveva come suo protagonista
il
filobus che avrebbe, in un certo senso, portato a cambiamenti
d’abitudini
e di mentalità. La vita, in fondo, è tutta
un’abitudine.
Ogni novità, inevitabilmente, comporta sempre
qualche
problema di adattamento e di comportamento. Perfino
il
lessico non ne rimane immune. Mi ricordo, per esempio, la
difficoltà
di trovare per gli addetti al filobus un vocabolo appropriato
che
li catalogasse. Se era stato facile coniare “tranviere”
(da
tram) non lo era altrettanto, adesso, davanti a quel
nuovo
composito vocabolo “filo-bus”. Come si doveva chiamare
l’operatore
del filobus? Forse “filibustiere”? No! Non era
necessario
essere un linguista per sentire che quel vocabolo
strideva
alquanto, dando l’idea non di un alacre operatore del
trasporto
ma, piuttosto, di un tipo per niente raccomandabile.
Qualcuno
cercò allora, senza fortuna, di coniare qualche altro
termine:
“filobusere” “filobusista”. Ma, come si sa, la fortuna
gioca
un ruolo importante anche nel dare una patente alla parola.
Quei
vocaboli non ebbero fortuna e, così, il guidatore del filobus
rimase
genericamente autista e l’altro, addetto a riscuotere
il
pedaggio, bigliettaio.
Il
filobus, rispetto al tram, rappresentava certamente un
passo
avanti nel campo del trasporto degli utenti: era più dinamico,
scorrevole
e meno rumoroso. Era, insomma, più moderno,
in
linea con i tempi. Ma anche la modernità ha bisogno di
un
certo tempo per imporsi e stabilizzarsi. Ogni novità va messa
alla
prova dei fatti e richiede spesso qualche aggiustamento.
Mi
ricordo, per esempio, che in certi tratti della filovia, dalle
mie
parti, le aste del filobus “scarrucolavano” frequentemente
costringendo
l’autista a pazienti esercizi di ricollocazione (non
piacevoli,
soprattutto sotto la pioggia). D’altra parte, anche i
viaggiatori
dovevano prendere confidenza con il nuovo mezzo.
All’inizio
avevano un certo timore delle porte automatiche: la
paura
di rimanere chiusi tra esse, magari quando il filobus riprendeva
la
sua corsa. Già, la corsa! Mentre il tram aveva ben
definito
il suo percorso, il filobus no, diventava qualche volta
imprevedibile.
Perdere l’equilibrio, per una svolta o una frenata
inattesa,
voleva dire spintonare e, a volte, trovarsi quasi abbracciati
a
qualche altro utente (non sempre entusiasta
dell’incontro).
Mi ricordo che il bigliettaio (non era ancora entrata in funzione la
biglietteria automatica) immancabilmente rivolgeva il suo invito: “Prego…avanti
c’è posto”. Io non mi
facevo
certo pregare: di solito, preferivo collocarmi a ridosso
dell’autista.
Mi piaceva vedere il percorso e la strumentazione
del
cruscotto: il voltmetro, l’amperometro e tutte quelle spie
luminescenti
(verdi, rosse, gialle, a volte lampeggianti): magia
multicolore
del quadro di comando. E, poi, mi interessava vedere
l’autista
al suo lavoro: alle prese col volante, col rubinetto
per
l’apertura delle porte, col pedale dell’acceleratore e il freno.
Già,
proprio il pedale del freno guardavo con una sorta di timore,
quando
il filobus percorreva in velocità la ripida discesa dei
Fossitermi.
Mi ricordavo la scena di un camion che, per un
guasto
ai freni, era finito contro il muro.
La
memoria mi riconduce adesso al 28 gennaio 1951: il
giorno
dell’inaugurazione della linea filoviaria; nel mio caso
Chiappa-Ospedale.
Anche noi, quella domenica, eravamo scesi
in
strada ad attendere quel primo filobus, coscienti di vivere un
momento
storico. E l’attesa non andò delusa. Anzi, ben cinque
filobus
apparvero in sequenza, tutti infioccati di nastri tricolore,
pieni
di autorità e di invitati. Quel primo filobus, contrassegnato
con
il n° 210, che apriva la sfilata, dava inizio ad una nuova
era
nei trasporti cittadini, entrando trionfalmente nella comunità
e
nella nostra vita di tutti i giorni.
Ma,
anche noi, popolo comune, sentivamo il desiderio
di
fare il nostro viaggio inaugurale. Mia madre ed io lo facemmo
la
domenica seguente partendo dal capolinea del Negrao,
naturalmente
pagando il biglietto. Ci rendemmo subito conto
della
fortuna che avevamo, abitando vicino al capolinea! Voleva
dire
avere sempre il posto a sedere assicurato. Quel primo
viaggio
inaugurale, per noi, non ebbe soste (e non poteva essere
altrimenti);
seguì il percorso andata e ritorno per intero:
Chiappa-Ospedale-Chiappa.
Più
di mezzo secolo è ormai passato da quel primo
viaggio.
Anch’io, come tanti spezzini, ho un debito di ricono75
scenza,
di affetto, verso il filobus. Anzi, vorrei dire che forse
gli
devo qualcosa in più. Sì, confesso: ho anche qualcosa di cui
farmi
perdonare. Per carità, non pensate troppo male! Non ho
mai
scritto sulle pareti e sui sedili, né viaggiato in clandestinità.
Soltanto
una volta non pagai il biglietto, ma senza premeditazione.
Quando
me ne accorsi ero ormai giunto a due passi
dall’uscita.
Rischiai. E se mi avesse fermato il controllore? Che
figura
miserabile! davanti a tutti! Che vergogna! Una cosa però
va
detta a mia discolpa: il giorno dopo quel viaggio “franco”
presi
carta e penna e scrissi alla Fitram. Inviai l’importo del biglietto
non
pagato.
C’è,
però, ancora qualcosa che devo farmi perdonare.
Ora,
vestendo il ruolo del pentito, sento di dovere le mie scuse
ad un
ignoto autista del filobus, a diversi utenti e alla FITRAM:
per
una vecchia storia di tanti anni fa. Come detto, io abitavo
alla
Chiappa in via Genova, sul lato destro della strada verso la
Foce.
Qui era l’ultima fermata del filobus, prima del capolinea
del
Negrao. Ma, forse, è meglio che spieghi per filo e per segno
tutta
la vicenda. Avevo acquistato da poco tempo un grosso registratore
audio
a nastro, meraviglia delle meraviglie per quei
tempi.
Ero giovane allora e, come ogni giovane, sentivo
anch’io
una scanzonata propensione per lo scherzo. E così un
giorno,
senza pensarci troppo, decisi di giocare un tiro
all’autista
del filobus che si fermava proprio davanti alla mia
finestra
(a pianterreno). Erano circa le 12,50 quando arrivò il
mezzo.
Come al solito si aprirono le porte e i viaggiatori incominciarono
a
scendere. Fu allora che, a tutto volume, misi in
funzione
il registratore che scandì il segnale orario delle ore 13,
registrato
il giorno precedente dalla radio. Ho qui, stampata
nella
mente, la scena che seguì. L’autista, estratto l’orologio
dal
taschino, visionò l’ora. Rimase un attimo indeciso, poi, aggiornate
le
lancette, ripartì come una saetta. Quel giorno il filobus
non
sostò al capolinea del Negrao in attesa delle ore 13.
Partì
innanzi tempo lasciando a terra, lungo il suo percorso,
non
so quanti passeggeri. Non voglio pensare a quante imprecazioni
volarono
all’indirizzo di quell’ignaro autista e della FITRAM.
Chissà
se vive ancora questo autista. Vorrei incontrarlo
per stringerlo
con un fraterno abbraccio.
________________________________
Racconto
secondo classificato al Concorso Letterario “Storie di quartiere” 2008
La
Spezia
MIETITURA
A CAPRIGLIOLA
Prima
di impartire la benedizione, il parroco, don Raffaele
Ciabattini
(era monsignore, ma penso che ben pochi lo
sapessero),
in caprigliolese schietto e con la naturalezza comunicativa
che
gli era congeniale, si rivolse ai suoi parrocchiani
con
pressappoco le seguenti parole (mi dispiace di non saperle
ripetere
in caprigliolese): “Con la messa abbiamo assolto una
parte
del precetto festivo…bene! Non pensiamo, però, che una
volta
usciti di chiesa è tutto finito. Il precetto festivo è l’inizio:
il
Vangelo deve essere vissuto ogni giorno, ogni ora, tutta la
settimana..Le
belle parole non contano niente se non si mettono
in
pratica.Ebbene, il caso vuole che ci sia pronta pronta
un’opportunità.
Come forse sapete, un nostro compaesano, Bino
della
Palazzina, è stato ricoverato all’ospedale per
un’infezione.
Proprio ora, in tempo di mietitura. Ditemi un po’
come
potrà la moglie, da sola e con i bambini da custodire,
mietere,
mettere al sicuro il grano…salvare il lavoro di un anno!
Ebbene,
io avrei un’idea che anche voi sicuramente avete.
Darle
una mano. Sì, allora siamo tutti d’accordo. Domattina,
prima
delle sei, ci troviamo tutti davanti alla canonica, per raggiungere
insieme
la Palazzina e dare una mano per la mietitura.
Mi
raccomando: ognuno porti i propri arnesi: falce, falcetto,
lama,
ecc.”
Ancor
prima dell’ora fissata, un folto gruppo di parrocchiani
era
già in attesa davanti alla canonica. Quando sulla porta
comparve
don Raffaele, sembrava il maestro che si rivolgeva
ad
una numerosa scolaresca. E, come il maestro, incominciò ad
impartire
ordini: “Ognuno venga a prendere la propria colazione”.
Già
don Raffaele aveva preparato per ciascuno un pacchetto
(pane,
formaggio, salame, ecc.). Sapeva benissimo che la
moglie
di Bino, davanti a tutta quella gente venuta per dare un
aiuto,
si sarebbe trovata in grande difficoltà. A mezzogiorno,
come
avrebbe potuto dare una pur minima colazione a tutti.
Non
avrebbe potuto operare la moltiplicazione dei pani. Don
Raffaele
aveva previsto tutto, e, con quel provvidenziale pacchetto
alimentare
“ad personam,” aveva risolto il problema nel
migliore
dei modi.
Quando
ognuno ebbe la sua razione, il parroco si mise
alla
testa del gruppo e, come in processione incominciò a guidare
i
parrocchiani-mietitori verso la meta.. Attraversato il borgo,
il
“Fosso” e la Chiesuola, la strada piano piano si snodava
tra
il verde della campagna e già, lassù, si intravedevano i pini
della
Palazzina. Nell’aria si respirava un non so che di festa,
allietata
da un sole splendido; un evento che sapeva di rogazione
e di
festa campestre.
Quando
la comitiva raggiunse la casa di Bino, grande fu
la
sorpresa e la gioia della moglie (Anita) e dei suoi bambini.
Senza
indugio i mietitori si misero all’opera nei campi:
sembrava
di assistere ad una vera organizzazione di lavoro pianificato,
tanta
era la loro rapidità e diligenza. Su tutto, poi, emergeva
un
clima festoso. Di solito la mietitura è sempre un
momento
allegro. Ma in questo caso lo era doppiamente, perché
coniugava
il risultato del lavoro con la solidarietà: uno dei
valori
più alti dell’antica civiltà contadina (che rimpiangiamo).
LA
MIA ESPERIENZA DI “ESODATO”
Ci
sono parole che raggiungono una notorietà impensabile,
non
per il loro merito o nobiltà, ma per
eventi
casuali. Se ne potrebbe fare un elenco. Io mi limito a citarne
due:
una più anziana: “tangentopoli” e l’altra più recente:
“esodati”
(che mi è sottolineata in rosso dal computer; evidentemente
non
la conosce ancora).
Di
tangentopoli sono piene le cronache di parecchi lustri
e,
pertanto, ormai conosciamo tutto. Quindi vorrei soffermarmi
su
“esodati”. Non lo faccio così tanto per dire, ma perché
anch’io
sono stato un “esodato”, anche se allora non s’era
ancora
pensato a coniare ufficialmente tale termine. Mi pare
dunque
il momento di raccontare la mia storia, facendo prima
una
breve premessa: soltanto vivendo sulla propria pelle una
sofferenza,
la si può capire appieno.
Correva
l’anno 1992, l’azienda in cui lavoravo s’era
venuta
a trovare in grave difficoltà e, pertanto, mise in atto una
manovra
per snellire il suo organico. Chi non aveva ancora raggiunto
l’età
pensionabile, poteva dare le dimissioni beneficiando
di un
congruo incentivo che si sommava alla indennità di
licenziamento
maturata contrattualmente. Poiché conoscevo
bene
la situazione dell’azienda, decisi di avvalermi dell’ incentivo
e
così, il 30 giugno 1992 lasciai il lavoro. Oggi, a distanza
di
tanti anni, posso dire d’essere stato fortunato, perché sono
uscito
di fabbrica in armonia: in pace con me stesso, in pace
con i
colleghi, in pace con l’azienda. Ma più di una decisione
fortunata,
penso che sia stata opportuna: avevo capito che era
giunta
la mia ora. Non bisogna mai illudersi che l’aver dato tut-
to,
un’intera vita di lavoro, possa essere una ragione sufficiente
per
essere salvati dalla crisi. Qualche collega, che si trovava
nella
mia situazione, pensava erroneamente d’essere risparmiato.
Non
fu così. In parole povere, gli fu fatto capire la realtà: “o
te ne
vai, o finisci in cassa integrazione”. Finire in cassa
integrazione
negli
ultimi anni di lavoro, voleva dire vedersi diminuire
in
modo drastico la pensione (allora si calcolava sugli ultimi
cinque
anni di lavoro).
Entro
ora nel vivo della questione. Ero uscito da poco
più
d’un mese, quando il governo d’allora, nell’intento di fronteggiare
una
grave crisi economica, prese alcune decisioni drastiche.
Appresi
per radio quella che mi coinvolgeva e che pressappoco
diceva
così: “…da oggi in poi sono state bloccate tutte
le
pensioni di anzianità…” Questa notizia ci colpì come un
fulmine
a ciel sereno, mettendomi in agitazione. Riascoltai tutti
i
notiziari sia radiofonici, sia televisivi. Eh, sì, non c’era dubbio,
la
norma era diventata immediatamente applicabile. Il
giorno
successivo mi recai alla sede INPS e, poi, del sindacato,
per
avere notizie più dettagliate. Mi ricordo che anche loro non
seppero
darmi ulteriori chiarimenti: avevano soltanto il comunicato
governativo
ufficiale. Una cosa però mi dissero:
“…secondo
quanto scritto in questo decreto, lei non ha più diritto
ad
avere la pensione di anzianità”. Vi lascio immaginare
con
quanta angoscia tornai a casa. La mia famiglia iniziò a vivere
uno
dei momenti più tormentati della sua esistenza. Spesso,
io e
mia moglie ci svegliavamo nella notte e il pensiero era
costantemente
fisso a quella amara, inedita esperienza che stavamo
vivendo.
Ci chiedevamo che cosa si potesse fare; ma più
i
giorni passavano più si acuiva la nostra ansia per il futuro,
senza
trovare una risposta. Quella drammatica situazione di
“esodati”,
senza lavoro e senza pensione, coinvolgeva però anche
altri.
Le cronache ci riferirono di alcune terribili tragedie,
come
quella di una signora di Prato che, lasciato il lavoro per
andare
in pensione di anzianità, si trovò improvvisamente sen81
za
lavoro e senza pensione: travolta dalla disperazione, si uccise.
Io,
noi, che cosa potevamo fare? Avremmo voluto protestare,
gridare,
ma con chi? Non certo con chi era spettatore e
nullità
come noi. Ebbi allora l’idea di scrivere, scrivere e scrivere
il
mio stato d’animo a tutti coloro che occupavano un posto
nella
politica e nelle istituzioni. Non ho contato le lettere
inviate,
sicuramente tante. Con le loro copie realizzai un libro
cui
diedi un titolo emblematico: “Lettere per un decreto”. Confesso
che
furono pochi coloro che mi diedero una risposta che
dimostrava
attenzione, sensibilità al mio problema; ad eccezione
di un
parlamentare della nostra zona: l’onorevole Pietro
Zoppi.
Sì, fu Zoppi, segretario della Camera dei Deputati, a tenermi
informato
sia con lettera, sia con telefonate, delle proposte
fatte
per apportare modifiche al decreto legge. Ricordo ancora
la
sua gioia nell’informarmi che era stata approvata la
norma
che esentava dal blocco le pensioni di anzianità di coloro
che
stavano pagando i contributi volontari. Già, non ho detto
che
dopo le dimissioni, avendo ancora scoperti cinque mesi per
arrivare
ai 35 anni di contributi, inoltrai domanda all’INPS e,
quindi,
dal mese di luglio 1992 fino a dicembre versai regolarmente
i
contributi volontari (che superarono abbondantemente
il
milione di lire). Quei versamenti volontari hanno consentito
alla
mia pensione di anzianità di essere esentata dal blocco.
L’esistenza
è fatta di momenti vissuti che, nel bene e
nel
male, lasciano il segno. La perdita del lavoro, e con esso di
ogni
mezzo di sostentamento che consente di vivere con dignità,
è
senza dubbio una delle esperienze più umilianti, deprimenti,
che
un essere umano possa provare. Sì, il lavoro è un elemento
basilare
della vita. Non per caso il primo articolo della
nostra
Costituzione pone il lavoro come fondamento della nostra
società.
LUNGO
LA VIA AURELIA
Cara
Aurelia, quasi certamente non puoi ricordarti di me.
Come
potresti! Nella tua vita di secoli e millenni, neppure
tu
sai quanti anonimi viandanti hai visto passare, come le acque
del
Vara e della Magra verso il mare. Che cosa potevi fare!
Non
certo segnarli uno per uno. Forse hai dovuto prendere nota
soltanto
dei potenti che, nel bene e nel male, hanno lasciato un
segno
lungo il tuo cammino. Ma se tu non conosci il nome, né
la
vita di tanti anonimi viandanti, loro, invece, molto conoscono
di
te. Sì, anch’io, ti conosco bene: sei stata la mia strada per
tanti
anni, quando vivevo nel quartiere della Chiappa1. Ma
anche
oggi,
qui a Prati,2 mi sei vicina: sotto la mia finestra ancora
scorri.
Certo, ora, sei molto più tranquilla di quando, nel dopoguerra,
tutto
il traffico per Genova sfibrava la tua vita. Eppure,
mai
ho udito un tuo lamento.
Perché
sono tornato? Per raccontarti la mia storia e ripercorrerla
con
te, iniziando proprio qui, da questa bianca pietra
miliare
del Negrao. Abitavo poco distante: al numero 102
(cambiato
poi in 360). Ma, come ben sai, anche alla via era stato
cambiato
il nome. Aurelia era divenuto Genova. I nostri parenti
in
Lunigiana, però, quando ci scrivevano (a Natale e Pa-
1 Quartiere
popolare della Spezia attraversato dalla via Aurelia, ai piedi del
passo
della Foce.
2 Frazione
del Comune di Vezzano Ligure attraversata dalla via Aurelia.
squa)
continuavano a mettere via Aurelia. Eppure, senza problemi
la
posta, allora, ci giungeva.
Perché
le città cambiano il nome delle strade? Non so…
forse
per riaffermare la loro sovranità. Cambiare, poi, è il verbo
prediletto
da chi rimpiazza altri nella gestione del potere. E, così,
anche
mutare il nome delle vie rientra nel disegno d’ogni
cambiamento.
Ma
tu, cara Aurelia, non ti dolevi se eri diventata
via
Genova e, poi, via Fiume, prendendo via via altri nomi attraversando
la
città. In fondo, passato il valico del Termo, uscita
dal
recinto urbano, riprendevi pur sempre il tuo antico nome,
mitico
sigillo di tuo padre, il romano censore Aurelio.3
Dunque,
sono tornato per raccontarti la mia storia, che
si
lega a te. So che tu mi ascolterai. Un tempo, gli anziani erano
ascoltati:
erano il libro che i giovani sfogliavano felici. Oggi,
non
più. Altri maestri ne hanno preso il posto. Per loro, il passato
è
diventato una cosa vecchia, che non interessa più. Così,
noi
anziani, spesso ci ripetiamo tra noi le nostre storie.
Ero
bambino, quel primo giorno dell’ottobre ’46 quando
iniziai
a percorrerti per giungere alla scuola e, poi, tornare a
casa.
Allora non c’era lo scuolabus: sempre a piedi dovevamo
andare,
sotto la pioggia o il sole. Eppure, non mi pesava la cartella;
saltavo
felice come un grillo. Anche tu eri lieta di sentire
i
nostri passi; a volte chiudevi perfino un occhio: sul marciapiedi
ci
lasciavi giocare (al pampano, al salto con la corda, alle
figurine,
ai tappini)4. Per noi bambini di periferia non erano ancora
nati
i parchi con lo scivolo, le altalene, le giostre e neppure
il
campo di pallone; dovevamo noi inventarci i giochi. Invero,
a
volte, anche un po’ pericolosi, come quando sfrecciavamo
incoscienti
giù per i tornanti della Foce con i nostri bolidi.5
3 Aurelio
Cotta, console romano, ideatore ed iniziatore della strada, nel 239
a.C.
4 Giochi
realizzati dall’inventiva dei bambini.
5 Carretti
costruiti con tavole e quattro cuscinetti a sfera.
Cara
Aurelia, sì, da qui, da questa tua colonna miliare
del
Negrao voglio, dunque, riprendere il cammino insieme a te.
Ogni
viandante non ama andare solitario, ma percorrere la strada
con
qualcuno a fianco, con cui scambiare una parola; per
sentirsi
più sicuro in compagnia.
Ho
lasciato l’auto qui vicino, al capolinea del filobus,
perché
voglio andare finalmente a piedi. E’ bello camminare,
muoversi
con le proprie gambe e, passo per passo, riscoprire
ogni
cosa intorno. Un piacere che la fretta, la dannata nevrotica
fretta
d’ogni giorno, ha cancellato spesso dalla nostra vita.
Ora,
che ho incominciato il percorso, mi sento un po’
come
l’antico pellegrino che, bisaccia a tracolla e bordone
stretto
nella mano, camminava, camminava in cerca della meta.
Sì,
anch’io ricerco la mia meta. So dove si trova, e che ad essa
mi
potrai condurre. Altro non voglio dirti adesso. Quando saremo
giunti
ti svelerò il segreto.
La
strada è lunga, ma noi non siamo in gara. Non siamo
legati
a tempi e classifiche. Siamo completamente liberi, come
l’aria.
Abbiamo lasciato a casa perfino l’orologio. Certo, anche
camminare
è fatica, soprattutto quando non si è più allenati. Peraltro,
non
sono facili i tornanti che portano alla Foce6. Ben
lo
sapevano
gli autocarri stracarichi che, nel dopoguerra, lentamente
arrancavano
sulla ripida salita, trascinando aggrappati
alle
loro sponde non so quanti ciclisti. E ben lo sapevo anch’io
che,
più volte, da ragazzo, tentai in bicicletta di conquistare il
passo,
ma purtroppo senza mai riuscire nell’impresa. Capii presto
che
non ero fatto per la bicicletta: non avrei mai potuto emulare
Coppi
e Bartali. Già, il ricordo mi riporta adesso a
quando
passava il Giro d’Italia. Che festa! Quel giorno, perfino
la
scuola era in vacanza. Innanzi tempo, c’incamminavamo a
frotte
sull’erta per occupare un posto che ci consentisse di vedere
meglio.
Di solito ci fermavamo alla Gira dei pini: da lì si
poteva
avere una più ampia visione di alcuni difficili tornanti,
6 Il
passo della Foce, 240 metri di altitudine, tra la Spezia e Riccò del Golfo.
ove i
girini erano costretti a rallentare l’andatura. Così, noi, avevamo
il
privilegio di vederli più a lungo. L’arrivo dei corridori
era
preceduto da un imponente carosello di auto e di moto
dell’organizzazione
e della pubblicità che lanciavano volantini,
pieghevoli
e cappellini da sole (con visiera) davvero benvenuti.
Anch’io
mi gettavo nella mischia per prenderne qualcuno.
Eccoci
arrivati “alla polveriera”7 ove sorgeva la Casa
Cantoniera
dell’ANAS, ora in abbandono. Venivamo volentieri
qui,
perché, dopo aver allargato la sede stradale, avevano costruito
una
specie di piccolo giardino con alcune panchine di
pietra.
Era quasi un belvedere che si apriva sulle case, da dove
si
riusciva a intravedere l’azzurro placido del mare. Per questo,
nella
serata della prima domenica d’agosto, il luogo si affollava
di
spettatori come un teatro, per vedere il suggestivo spettacolo
dei
fuochi pirotecnici che, solcando festosamente il cielo della
notte,
chiudevano la festa del mare.
Siamo
giunti al passo della Foce. Fermiamoci un attimo.
Godiamoci
questo meraviglioso spettacolo. La Spezia e
l’incantato
Golfo dei Poeti sono sotto di noi, magia di un sogno
come
un quadro di Fossati.
Più
leggero si fa il passo nella discesa che ci porta a valle
verso
San Benedetto. Sulla sinistra ancora rivedo i monti e i
boschi
cari a mio padre e, in fondo alla vallata, i verdi prati della
Sprugola.
Spensierati ricordi della giovinezza riaffiorano: la
festa
campestre del Primo Maggio, gli amici, i giochi, i suoni e
i
canti, le tovaglie distese sull’erba con le fette di torta Pasqualina,
il
canestrello di Brugnato, il fiasco con il vino coperto dal
bicchiere.
Da poco tempo avevo acquistato il mio primo nuovo
fiammante
ciclomotore (un “Laverda” a quattro tempi, comprato
a
rate, firmando le mie prime dodici cambiali) e, così, felice,
potevo
non soltanto scalare il passo della Foce, ma aggregarmi
alla
comitiva degli amici in visita ai paesi ed alle feste della
Val
di Vara.
7 “Lombacca”:
questo il suo vero nome.
Ecco
San Benedetto, il primo paese che attraversiamo;
più
avanti il Debbio.8 Lo ricordo perché era la terra d’origine di
Giuliano,
un amico dell’infanzia: a lui donai il motorino, quando
comprai
la “Cinquecento”. Sì, la quattro ruote era ormai diventata
necessaria.
Eravamo in due e presto saremmo diventati
in
tre: avevo messo su famiglia. Andammo ad abitare altrove,
ma
tu, Aurelia, e la Val di Vara, siete rimaste il percorso preferito
per
le nostre vacanze. Sì, in quei tempi, anche noi, potevamo
andare
in vacanza.
Ecco
Riccò del Golfo, il paese di mio padre. E noi, con
lui,
tutti insieme tornammo più volte alla festa del paese: “Santa
Croce”
e al Santuario della Madonna dell’Agostina. Era gran
festa
un tempo: come Natale e Pasqua. Diceva mia madre:
“Neppure
le rondini oggi vanno di cerca in cerca, né le api di
fiore
in fiore. Si fermano le nubi e il rosignolo tace. Benedetto
è
questo giorno di silenzi e di preghiere”. Ancora vedo il
santuario
antico
nascosto tra i castagni e, nel sagrato erboso, i pellegrini
venuti
da lontano. Ancora sento, nello stormir di fronde,
un
semplice suono di campana perdersi nell’aria splendida
d’azzurro
e tenera d’incensi.
Ecco
Pian di Barca. Più volte svoltammo a sinistra verso
Pignone
per giungere poi, attraverso la strada dei santuari,
alle
Cinque Terre, a questa nostra terra splendida, aspra di rupi
a
picco sul mare e gentile di vigneti squadrati a scala, pietra su
pietra,
verso altezze serene. Terra solitaria, selvaggia di garighe
fiorite
esposte all’abbraccio dei venti; ridente di borghi annidati
a
valle o innalzati al cielo tra rocce e marine trasparenti consumate
dai
millenni.
Siamo
giunti a Case Lodola, frazione del Comune di
Beverino.
Qui, dobbiamo fermarci e fare un minuto di silenzio.
Innanzi
a noi c’è una lapide posta a ricordare la storia di un
8 Frazione
d’antica origine contadina.
martirio.
Un nome,9 la data di nascita e di morte. Nulla so di
questa
vita recisa nel fiore degli anni, per essersi opposta
all’invasore,
al sopruso, alla funesta catena d’odio e di rovine.
Nulla
so di questo combattente clandestino, delle sue attese,
delle
speranze, dei suoi sogni. Di lui solo una frase parla: caduto
per
la Libertà. Libertà, libertà, liberta! Ovunque oggi sento
ridondare
questa parola: tutti se ne sono appropriati; se ne ammantano
come
se fosse esclusivamente vestito loro. Ma che cosa
è la
libertà? Soltanto questo ragazzo può dirmelo: “La libertà
è una
bianca colomba che sparge il seme della pace. Non
divide
la libertà, ma unisce; non mette il bavaglio, ma dà voce
anche
ai senza voce; non compra il silenzio la libertà, non intimidisce,
né
insulta, ma ascolta. La libertà non è soltanto esprimere
il
pensiero; è giustizia, è affrancamento dal bisogno.
La
libertà non è un regalo, ma faticosa conquista di ogni giorno.
E
ogni giorno deve essere difesa.”
Ecco Padivarma
con il Vara e con il ponte. Quante volte
l’abbiamo
attraversato! Anche quando, dopo l’alluvione, il passaggio
era
provvisorio su tavole di legno. A est, poco distante,
la
bianca spiaggia ove il fiume, placido nell’ansa, rinfrescava i
nostri
pomeriggi dell’estate. Bello è ancora il Vara; specchia
nell’acque
chiare boschi di castagni, pini e pioppi sulle rive.
Buono
è ancora: disseta greggi e terre, città e villaggi, concede
ore
serene. Io, pure, seduto sulle ghiare, m’incanto alla sua voce
come
nei remoti tempi, quando donne inginocchiate, accomunate
in
canto, battevano i panni sulla pietra.
Ho
parlato troppo, mi si è seccata la gola: ho sete. Più
avanti
dovremmo trovare una sorgente: la fontana del Papa. Lì,
secondo
la tradizione, si sarebbe dissetato il pontefice.10 Ma,
purtroppo,
non trovo più la fonte. Ritrovo, invece, il ponte di
9 Pagani
/ Glicerio / 31.5.1926 – 6.12.1944 / Medaglia d’argento al Valore
militare
/ caduto / per la Libertà.
10 Pio
VII, prigioniero ed ostaggio di Napoleone in transito.
Stagnedo.
Mi affascinava quello strano ponte sospeso, come
quelli
che avevo visto in qualche immagine d’America.
Viaggiare
ha comportato sempre qualche rischio. Anche
oggi,
seppure d’altro genere. Un tempo, alla strada si legavano
antiche
storie di briganti, gettando un’ombra di paura nel cuore
dei
viandanti, non soltanto nelle terre del sud ma anche qui da
noi.
Tu, Aurelia, conosci, meglio di tutti, i fatti più remoti,
quelli
che hanno ormai quasi un sapore di leggenda. Ma leggenda
certo
non fu la rapina di Sandro,11il futuro Presidente di
tutti
gli Italiani. Già, proprio in questa zona, a Boccapignone,
fu
rapinato da tre individui armati e mascherati. Gli portarono
via
tutto: il portafogli, l’orologio, la valigia.
Ma,
ancor più, avevano triste fama i banditi del Bracco.
Io ne
ho conosciuto uno; almeno così dicevano che fosse stato.
Lo
chiamavano il “manzo”, forse perché aveva una corporatura
imponente.
Lo guardavo con un certo timore e con la curiosità
di
bimbo, quando lo incontravo al lavoro lungo la via. Infatti,
dopo
aver scontato la condanna, lavorava come scalpellino delle
pietre,
che erano poste a margine del marciapiede di via Genova:
un
lavoro socialmente utile, si direbbe oggi.
Siamo
giunti ormai quasi a Borghetto Vara. Lo sguardo
vola
alto a destra verso i monti. Ritrovo il Coppigliolo, il monte
delle
nostre escursioni, quando negli anni ’70 andavamo in
vacanza
ai Casoni di Suvero. Momenti sereni ritrovo nel ricordo.
Dalla
pineta ombrosa teneri di verde i prati salgono ai Casoni,
verso
crinali aperti ai monti di Liguria e di Toscana. Dal
Coppigliolo
al Civolaro, nascono fragili nubi e si disfanno
nell’azzurro
terso; scendono freschi silenzi nell’estate chiara
rotti
solo, di tanto in tanto, dal suono di campani di greggi al
pascolo,
e di mucche e di cavalli bradi stagliati nel cielo. Una
bianca
croce, un santuario di pietra, una baita degli Alpini, la
fattoria
al limitar dei prati segnano l’antica civiltà della natura.
11 Sandro
Pertini fu rapinato sulla via Aurelia, a Boccapignone, il 30 maggio
1946.
Ormai
lontani sono i rumori, le vie convulse, le ciminiere cupe.
Adesso,
in questa pace, è facile sognare. Così, ampio si fa il respiro
e,
nel profumo di montagna, serena l’anima rinasce.
Ecco
un altro villaggio attraversato: Pogliasca. Lungo la
via,
seduti sul muretto, al fresco, alcuni anziani conversano.
Immagine
consueta di tanti nostri antichi borghi. Poi, si fa ripido
il
cammino che ci conduce alla località Termine, ove
s’innalza
un minuscolo armonioso tempio, ad indicare al viandante
la
vicinanza del Santuario di Roverano, uno dei luoghi di
fede
più cari della Val di Vara. Qui, alcuni anni fa, anche noi
“ragazzi
della Chiappa”12 ci ritrovammo per uno dei nostri annuali
incontri
estivi.
Siamo
ormai giunti a Carrodano. Riposiamoci un attimo,
prima
di riprendere il viaggio che, tutto in salita, ci porterà
a
Mattarana. Vieni, Aurelia, voglio portarti a salutare la Scuola
elementare.
Qui ero venuto a parlare dei tuoi alberi, che freschi
t’accompagnano
per tutto il tuo cammino. Non ci sono più i
bambini
d’allora; ormai sono diventati grandi. Eppure, chissà…
forse
ancora si portano in cuore l’eco di quel canto: “Cari
alberi,
amici dell’infanzia, con un fraterno abbraccio tutti insieme
vorrei
stringervi. Tu, olivo, ricurvo e saggio, vestito
d’anni
e di licheni, sacro a civiltà di popoli e caro al cuore della
pace.
Tu, castagno, che generoso ti spogliasti d’ogni avere
per
farti pane consacrato e placare la mia fame. Tu, pino, che
profumasti
d’incenso e canti il mio Natale e ancora anelito
m’infondi
di quella serenità lontana. O alberi miei cari! Sempre
vi
chiamerò per nome come fratelli uniti nell’armonia della
famiglia;
oggi che l’uomo scorda spesso i suoi natali e per un
pugno
di nulla tradisce valori eterni: perfino l’amicizia. Mai,
12 Associazione
che riunisce i ragazzi del quartiere della Chiappa che nel
1955
frequentavano l’oratorio di San Bernardo, diretto da don Luciano Ratti.
Dal
1979 questi “ragazzi” si ritrovano annualmente in un giorno
dell’estate
per rivivere insieme, con lo stesso entusiasmo, i ricordi di quei
lontani
tempi.
mai
s’è udito che un albero tradisse! Mai che fosse d’offesa al
cielo
e di dolore all’uomo”. Adesso mi adombra un velo di tristezza.
Penso
agli immensi roghi che, altrove, in questa calda
estate,
hanno fatto scempio di boschi e di foreste: nuovo olocausto
di
una follia omicida, Scheletrici rami e tronchi anneriti,
sterpaglia
strinata, odore di tizzoni arsi dal fuoco: altro non è
rimasto.
Cara
Aurelia, infine, siamo giunti a Mattarana. Sono un
po’
stanco, ma felice. Qui si conclude il mio percorso. Ti ringrazio
per
avermi fatto compagnia, per aver ascoltato con pazienza
la
mia storia. Ora ti svelo il mistero, il perché di questo
viaggio.
Le stagioni passano: va l’una e l’altra subito
s’appresta.
Vanno gli uomini e gli eventi, le speranze e i sogni.
Resta
solo la memoria e la paura di vederla scomparire nella
nebbia.
Per questo ti ho raccontato la mia storia. Vorrei che
qualcosa
restasse, che tu la custodissi, insieme all’ultimo ricordo
di un
lieto giorno: domenica 2 settembre 2000. Al Parco dei
tigli,
nel verde qui vicino, la Musa celebrava la sua festa; per
questo
mi aveva chiamato. Con gioia avevo accolto quel inatteso
invito
come il più bel dono. Scorrono limpide le immagini
come
il sole di quel giorno. Riconosco il volto degli amici, risuonano
le
voci e i canti. Commosso riascolto l’omaggio di
Ferruccio.13
Adesso,
come allora, vorrei portare a questa terra generosa
il
mio saluto e, nell’augurio del ritorno, innalzare ancora
quel
lontano canto: “Val di Vara, vorrei tornare a te un giorno
quando
fioriranno le ginestre. Vorrei innalzarmi col respiro
campestre
dei tuoi fiori: salire nel vento leggero del mattino
oltre
le immense distese dei tuoi boschi, verso il mistico silenzio
di
santuari antichi elevati al cielo come altari. Vorrei lanciarmi
nell’azzurro,
sui tuoi paesi e le tue valli: sfiorare con il
brivido
d’un volo ridenti campanili e sperduti casolari. Vorrei
discendere
il corso nascosto dei tuoi rivi, ascoltare il sommes-
13 Ferruccio
Battolini, critico d’arte e letterario spezzino.
so
mormorio dell’acque e immergere le mani nel fresco rapido
fluire.
Vorrei posarmi sui bianchi ciottoli del Vara placido
nell’ansa:
tremulo specchio di pioppi e di pensieri evanescenti
come
sogni. Vorrei sostare a sera sull’aia e a ridosso d’una
volta
antica: riscoprire il sapore della vita. Val di Vara: verde
terra
di Liguria, mistica, appartata, solitaria. A te mi legano
l’amore
per la vita e il senso dell’eterno; a te che oggi, come
una
ginestra in fiore, m’inondi l’anima di luce sull’inviolato
sentiero
dei ricordi”.
INDICE
Terra promessa
Alla mia patria
Rio secco
Siesta
Ai castagni
Stagioni
Tu che portavi la prima
mimosa
Ma sarà ancora la tua voce
Olocausto
Il tempio della vita
Per non dimenticare
Nel bianco greto della valle
Il sangue di Abele
Rimani almeno tu, poesia
Il pane del perdono
Jobhel
Alla cometa
Casa del biancospino, addio
Un micio, una storia
Il mio amico Mohamed
Le foglie dei castagni
Poesia ragione di vita
Il grillo e la formica
La scampagnata di Pasquetta
Il mio primo giorno di lavoro
Pensieri e ricordi
dell’ultimo giorno
Avanti c’è posto
Mietitura a Caprigliola
La mia esperienza di
“esodato”
Lungo la via Aurelia
Paolo Bassani è nato alla Spezia il 24 aprile 1940.
Maestro del Lavoro, poeta e scrittore. Per il suo impegno letterario è stato
nominato Cavaliere dell’ “Ordine al Merito della Repubblica Italiana”. E'
vincitore di numerosi premi nazionali di poesia: “Lorenzo Viani”,
"Val di Vara 1980","Giovanni Fantoni", “Candia”, “SS:
Croce”, "Gabriele Rossetti", “Città di Montignoso”, "Val di Vara
'95", "Premio della Resistenza", “Antonio Taddei”, “L’Ambiente
1996”, "Cesare Orsini", "Olinto Dini", “ Val di Vara 1997”
“San Pio X”, “L’Ambiente ‘99”, Premio in onore della Resistenza 2004 e
2005", Premio “25 Aprile, pagine della nostra storia” 2006, “Cesare Orsini
2006”,Premio Internazionale di Letteratura per la Pace Universale “Frate Ilaro
del Corvo 2008”, Premio Nazionale di Poesia “Canta il sogno del mondo” 2010. Ha ricevuto riconoscimenti importanti come
il "Premio Presidente della Repubblica per un'opera dedicata alla patria" e
la medaglia del "Lerici Pea". Nel 1993 vince il Premio per la
Pace "Riccione/ Satyagraha" per la narrativa. Nel 1997 il concorso Rai
"Un racconto per Televideo". Bassani è autore di alcune raccolte di
versi:"Immagini e Fremiti" ( Ed. Zappa 1977), "Sentiero nel meriggio"(Ed. Zappa 1980),"Dillo con
la poesia"( Ed.
Zappa 1981), "L'elicriso" (Ed. Europa 1988) - premiata con medaglia d'oro al
"San Domenichino" 1989, "Lungo la via Francigena” (Ed. Alpicella 1997) - vincitrice del
"Val di Vara 1997”, “Lapoesia del mare” (Ed. Helicrisum 2001), “Gli alberi. amici
generosi, radici della nostra storia” (Ed. Helicrisum 2002), “Verso il cielo e le stelle” (Ed. Helicrisum 2003), “Nell’orma di un
passo” (Ed. Helicrisum2004), "Nel tiepido sole d'aprile" (Ed.
Helicrisum 2005), "Nel bianco greto della valle" (Ed. Alpicella
2006), "Incontro" (Ed. Helicrisum 2007), "Dalla a alla j"
(Ed. Helicrisum 2007). Bassani ha scritto anche opere di narrativa: “I miei racconti
per Televideo” (Ed.
Lombardi 1998), "Le foglie dei castagni" (Ed. Helicrisum 2003),
“Fotosintesi” (Ed Helicrisum 2005), "Le mie storie di quartiere" (da
Ed. Litoeuropa 2007). Ha anche realizzato alcune audio-cassette e DVD di poesie
e narrativa: "Poesia come musica" (lettore Lucio Caratozzolo), "Consonanze",
"Le foglie dei castagni", “I miei racconti per Televideo”, e videocassette: "Lungo la
Magra" ,”La poesia del mare”, “Gli alberi”. Numerose poesie di Bassani sono apparse
su riviste letterarie, su pubblicazioni molto note (come “Il Calendario di
Frate Indovino”), su antologie e volumi di prestigio (come "II
Sigillo" di
Mondadori , divenuto testo ufficiale del Museo del Sigillo) o inserite in
documentari video ed opere multimediali; alcune sono state incluse in programmi
scolastici o musicate, come la cantata “La luce della vita” composta da Stefano
Baldi.
Bassani è stato inserito in “La Spezia
nella poesia del ‘900”: lo studio “Progetto Giovani ‘93” realizzato
dall’Istituto Domenico Chiodo, e la “STORIA della LETTERATURA SPEZZINA e
LUNIGIANESE” a cura di Giovanni Bilotti - profilo critico-storico della poesia e della narrativa
spezzine.
Bassani partecipa alla vita culturale collaborando a
riviste letterarie, a concorsi di poesia ove è membro giudicante; è stato
chiamato a tenere incontri di poesia nelle scuole, come il progetto di
formazione triennale “IOMIFORMO” promosso dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione
del Comune della Spezia e il piano di studio “I COLORI
DELLA POESIA” dell’Assessorato
alla P.I. del Comune di Santo Stefano di Magra. Bassani fa parte di istituzioni
culturali (Accademie, Biblioteche). Il Comune di Vezzano Ligure più volte ha
reso omaggio alla sua opera poetica. Nel 1997 è stato presentato a "La
Versiliana", presso
il “Caffè dei Pinoli”.
La poesia e la narrativa di Bassani hanno ricevuto
significative testimonianze di noti critici e letterati come Giorgio Barberi
Squarotti, Felice Ballero, Egidio Banti, Ferruccio Battolini, Giuseppe Benelli,
Casimiro Bonfigli, Francesco Loris Capovilla, Mario Cagetti, Giuseppe L. Coluccia,
Giuseppe Conte, Valerio P. Cremolini, Tullio De Mauro, Sirio Guerrieri, Mario Luzi,
Almo Paita, Nazario Pardini, Giovanni Petronilli, Gianfranco Ravasi, Vittorio Sabia, Giuseppe
Sciarrone, Gian Antonio Stella, Paolo Vanelli, Amelio Vivaldi, Franca Zambonini
e artisti come Pietro Annigoni, nonché di quotidiani, periodici ed emittenti
radio-televisive. Paolo Bassani vive a Prati di Vezzano Ligure (La Spezia)
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Saggio puntuale e di pregnante esistenzialismo "poetico".
RispondiEliminaMiriam