Ignazio
Gaudiosi, Vertigine, Edizioni Dante
Alighieri, La Spezia, 2016;
Ignazio
Gaudiosi, Il seme del sogno. Poesie
d’amore, Helicon Edizioni, Arezzo, 2016
Mi sono giunti stamani 13 gennaio 2018 due
libri di Ignazio Gaudiosi: Vertigine,
Edizioni Dante Alighieri, 2016 e Il seme del sogno, Helicon, 2016. Il
primo un testo che mette in evidenza, tramite la parola di autorevoli critici
letterari, la versatilità lirica di Gaudiosi, il suo ricco panorama
esistenziale, e la sua attinente grammatica poetica. Il libro diviso in varie
sezioni fa già da prodromico avvio alla comprensione della poetica dell’autore:
un verbo asciutto, solido, empaticamente arrivante, che, con iuncturae di ampio
respiro, si adagia su spartiti di eufonica andatura. Alla presentazione del Cav.
Pietro Baldi seguono: La parola come
vertigine del Prof. Francesco
D’Episcopo; l’Intervento introduttivo
di Valerio Cremolini, e gli interventi di Francesco D’Espiscopo, Di Giuseppe
Benelli, e dello stesso Valerio P. Cremolini;
in successione Poesie dedicate a Francesco D’Episcopo, a Luigi Camilli, e Il canto del silenzio, dove l’armonia
wagneriana del verso si unisce al fulgore delle stelle che fa da reminiscenza
di un qualche noto amore: “Il canto
silenzioso delle stelle/ più vivido e più muto/ allo sguardo di lui poté
sembrare,/ perduto nel mito commovente/
di qualche noto amore”. Una vera cascata di endecasillabi e settenari che, fusa
a panorami di forte interiorità, ci avvicina
a romanze di memoria pucciniana. Seguono altre poesie che sono state
lette durante la presentazione del volume Vertigine
dall’Avvocato Luigi Camilli: l’eponima, A
Renato Cogliolo, Vezzano sui crinali. Il testo si chiude con una rassegna
fotografica, di cui è stato fatto cenno a suo tempo sul blog: Alla volta di Lèucade. Ma veniamo alla
silloge che maggiormente ci interessa: un libro d’amore; un vero poema erotico,
dove l’autore offre il meglio di sé con l’apporto di un abbrivo polivalente
dell’animo umano. Sì, umano, dacché l’input scatenante del messaggio è eros, in
tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue angolature che lo rendono messaggio
trasversale e orizzontale, dove ognuno di noi trova una buona parte del suo
ontologico cammino. E cosa meglio dell’amore può rappresentare l’umanità in tutta
quanta la sua polisemica esistenza? L’amore come vita, come saudade, come
legame, come empatia, come nostalgia, come memoriale, come nostos, come
vicissitudine, come fuga o ritorno ad antiche primavere; amore come distacco,
dolore; amore come unità inscindibile di sogni e di speranze. È l’amore il sentimento più complesso
dell’animo umano; il motore scatenante di tutte le azioni e le manifestazioni
dell’ego: per esso si vola in sfere di
sublime levatura, si toccano azzurrità debordanti di luce, si chiede pietà,
perdono, ci si avvilisce o ci si ritrova liberi, finalmente liberi in vertigini
di sogno e di candore. Tutto questo troviamo nel volume di Gaudiosi; egli
riesce, da vero analizzatore della psiche umana, a scandagliare meandri di
epigrammatica fattura per ricavarne note di ardua e acuta sensibilità: un
crogiolo di sfumature che dal celeste
volgono al rosso attraverso tutti i gradi delle tonalità cromatiche. IL SEME DEL SOGNO. POESIE D’AMORE, il
titolo che già di per sé ci introduce nella varietà complessa del tema. Fanno
da antiporta due splendide liriche: Il
filo ed il belletto, Sfibrata vena, dove l’autore apre il discorso toccando
gli ambiti dell’empatia, della comunicazione, del verbo, “E nel silenzio fra due lontane
voci/ il navigare d’ipotesi disperse./ Fra tante: amore che soffre e che non
dice,/ o storia della lodola e lo
specchio?/ Potrà parlare il tempo… forse, chissà”, “Lui vi sperava per via
degli occhi tuoi/ smarriti dentro i tuoi,/
nel vuoto poi vaniti/ in cerca di un appiglio./ Nell’ore di un meriggio
ormai lontano/ l’avevi detto già quel che volevi”: sospiri, occhiate,
sottintesi, allusioni, sentimenti ascosi, tocchi di parole, lontane voci, amore
che soffre; tensione, occasioni amiche, soffi buffi, sospiri, alitar di semi,
germogli, appigli, meriggi lontani… La prima parte (Perizia del pensiero) ci immette in maniera soffice e delicata
nella purezza diamantina del canto: “… Leggeva lei col filo d’una voce/ le note
del messaggio appassionato/ di lui, che la guardava/ e dalle labbra uscivano
parole/ come suono dalle corde di un violino/…./ Vale più di un astro la sua
voce/ più di un diamante, luminosa e viva”.
Un viaggio di amorosi sensi, che, vòlto
all’isola di Orfeo, si smarrisce spesso in mari senza confini, dove gli
scogli e le onde burrascose impediscono
il prosieguo della navigazione. E si sa che l’uomo ambisce ad approdare
all’isola felice ma esiste quest’isola? O è solamente un miraggio? D’altronde è
umano incontrare trabucchi dacché siamo tutti nostoi in
cerca di qualcosa che ci appaghi. E i dubbi, i perché irrisolti, senza risposte,
sono gli inceppi della vita, quelli che la rendono umana, terrena, futile e
passeggera. D’altronde Gaudiosi fa della sua navigazione un andare senza
riposo, raccogliendone i profumi e momenti vitali da asserbare per la poesia.
Il fatto sta che li vive e li rivive in un empito di erotico trascinamento
umano. E si crea un’isola tutta sua dove hanno accesso solo visioni partorite
dal logorio del tempo. Una vera alcova, che poco ha a che vedere con la realtà,
insomma: tutto si è tradotto in
immagine, in ricordanza, in sogno, anche. Ed è proprio dell’uomo mischiare spesso la quotidianità con l’onirico.
È tuffandoci in tale dimensione che riusciamo a ovviare alle tante aporie della
vita. Ma nell’amore e indispensabile che le anime paiono toccarsi: “Mai ebbe
l’ora più forte intensità,/ mai fu tanto vissuto/ quel mondo, quel momento,/
che, nella brevità del suo passare,/ pareva non finire./…./ Le anime parevano
toccarsi…”. Momenti di alto lirismo dove il verbo si adegua a tanta pulsione
emotiva; si fa dolce, quieto, abbondante, spinto dalla forza che dal dentro
detta. Attimi che sembrano infiniti, che non possano terminare tanto sono
elevati, ma che ci dicono anche della futilità del tempo, della vita e del suo
fuggire senza tenere di conto dei nostri sacri altari. E il viaggio continua fra
sentieri dentro l’anima che soffre, fra l’agrodolce gusto d’un ardore, lo
sguardo ad un passato, un bisbiglio, un soffio; fra il tempo che va; fra la
fissità di due pupille; fra la danza di sillabe; fra opposti siti di un
sentire; fra merletti di orizzonti indefiniti; azzardi di castelli; l’atto
misterioso della vita; fino ad Un’ombra, una parvenza: ¨Da dove quel messaggio?/ Dal fulgido riflesso di uno
sguardo…”.
Nòstoi. Ritorni è il
titolo della seconda sezione, dove il Poeta con sinestetici giochi di
metaforica intrusione continua il cammino
di un’anima tutta protesa, nella lettura degli andirivieni erotici, alla
scopetta di se stessa. Il verso si fa più libero, spigliato, a volte nutrito di
brevi accenni, dove la parola è tutto nella grammatica significante: “I tuoi
occhi:/ giuochi svelati,/ ombre colorate./ I tuoi occhi:/ mutevole scenario,/
palpito d’ali,/ brezza carezzevole…”. Assemblaggi lessicali, accentuazioni
aggettivate, intensificazione verbali: limpidezza formale e disciplina della
versificazione: sinestesie e azzardi
iperbolici di classica positura piuttosto che di riforma prosastica del
verso naufragata negli sperimentalismi del secolo passato e di tutt’oggi; poco o niente hanno a che vedere, questi
versi, con il correlativo oggettivo di stampo eliotiano. Ritorni. Quante volte si ritorna su pensieri e luoghi che abbiamo
lasciati per un nostos di improbabile ancoraggio? Ci accorgiamo allora che la
verità che cercavamo è in quelle terre lasciate alla partenza. Il poeta ritorna sui suoi passi;
misura, confronta, cerca conferme con l’apporto di una memoria che spesso lo àncora
al ritmo di un ricordo: “Può essere però che un imperioso/ gesto si fermi al
ritmo di un ricordo”, o a amori di antiche primavere dove una prima Eva rievoca
tocchi di leopardiana memoria: “Ti ricordo, amica lontana;/ fosti la prima Eva.
/…/ Il morbo ti prese all’improvviso,/ ti spense” con una chiusura secca e lapidaria.
I ritorni di Gaudiosi sono controllati da un linguismo maturato da un percorso
di esperienze attive e fattive. Mai cade in becera lamentatio, né si smarrisce
nella palude soffocante e melmosa dello sfogo intimistico. Ed è così che le sue
emozioni corrono sul filo di un racconto quasi disincantato; come se narrasse
in terza persona le vicende di un romanzo appassionato: Silfide vagabonda, Naliugia (Arabesco arcano/ di una foglia morta,/
che ha donato/ la sua anima al metallo), I
tuoi passi (Guardo la porta socchiusa./ Lì davanti, fra un attimo,/
comparirai), Figura (La chiudeva di solito un vestito/ voluttuoso.), La tua voce (La tua voce chiara,
modulata,/ l’orma ravvivava.),… Desideri
di Monique,…, Ricordo (Triste è lo svanire di un amore),… Insospettati segni ( Gli occhi le
roteavano lentissimi/ nell’ansa del discorso.),… Eri al telefono (Eri al telefono/ e mi parlavi piano, sottovoce/
udivo anche il silenzio della stanza/ e
i palpiti leggeri del tuo cuore),… , Perduto
amore (Ora c’è pure un’ansia/ per le perdute cose)…, fino a Aspirazioni dove il Nostro, al volgere
del tempo, rivive la preziosità di quelle emozioni “che tanto ci cullarono nei
sogni”. Bastava che comparisse un fiore sul petto di una donna a rischiarare,
all’improvviso, l’alta oscurità:
(…)
Se solamente compariva un fiore
sul petto di una donna,
o si schiudeva un labbro
a qualche compiacenza,
a qualche assenso,
al cenno malizioso di un
sorriso.
Una
collana di preziosi tempi all’imperfetto
che trascina il Poeta in ricordi piacevoli ma rivestiti di una tenera e sottile
saudade; une ensemble che ci dà la
dolorosa scansione del tempo che passa e che lascia vestigia di ombre trascorse; forse è là l’anima di
Gaudiosi; nelle grinze di un cuore che palpita e parla di un’isola che ha
lasciata alle intemperie del mare.
Nazario
Pardini
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