lunedì 1 gennaio 2018

N. PARDINI: PREFAZIONE A "TERRE D'ACQUA" DI DONATELLA NARDIN




Donatella Nardin: Terre d’acqua. Fara Editore. Rimini. 2017. Pag. 80. € 9,00






Terre d’acqua


D’oro e di luce ti bagnerei lo sguardo,
improvvida luce del nostro primo
sentire, terra madre sbocciata dai polsi
di un piccolo nulla che in sé appalesa
tutti gli eventi.
Nuda, gloriosa, vortica l’acqua
delle nostre radici sull’orlo vivo
del tempo se al collo indossa
la vivacità di una corte di foglie
e di uccelli

dall’acqua raccolgo il mio volto

sfiorando l’asfalto, sfida i limiti
dell’emotività l’imperativo
a svettare e chissà cosa si cela al di là,
cosa riluce nel grumo violetto
di piume e cementi, quale solitudine
accesa alle palpebre chiuse.

È con questa poesia eponima, incipitaria che possiamo immergersi, fin da subito, in un animo tutto proteso alla scoperta di se stesso; di un legame terra-acqua che fa di questo poema il leitmotiv, il filo rosso, la simbiotica fusione fra spazi ontologici e ondulazioni native.  È da qui che inizia il cammino, l’avventura, il viaggio, il nostos di una poetessa tutta intenta a varcare un mare per bisogno di scoprire una verità, pur sapendo, Ella stessa, che è quel mare la sua verità, che è quella terra il porto di arrivo di un viaggio di sapore odisseico. Si sa che è proprio dell’uomo aspirare a superare quei vincoli che lo legano agli spazi ristretti, dacché, per natura, ha bisogno di aria, di cieli senza limiti, di orizzonti che vadano al di là dei suoi intendimenti. Ma si sa anche che tutti siamo in cerca di un’Itaca che abbiamo persa, pur vicina, in qualche misura, e che, prima o poi, torna per bussarci alla porta; per vivere, magari, più intensamente dopo anni di sperdimenti e sottrazioni. È nelle corde umane. Ritrovare la luce, il fuoco che l’ha alimentata, che ha idealizzato la sua terrenità, il suo piccolo tratto lambito dal mare, significa dare ossigeno e sangue alla poesia, dacché ognuno di noi si porta dietro il sapore della propria caducità e la forza delle proprie radici; e questa è la terra della Nostra: “Cavallino Treporti è una lingua di terra incuneata tra il mare Adriatico e la laguna nord veneziana, uno spazio fisico dunque, ma anche il luogo dell’anima e del pensiero, una materia intima, emozionale atta a definire una precisa identità e una specifica appartenenza” (dalla presentazione dell’Autrice), qui il respiro dei suoi angoli, qui le penombre del mistero, qui la luce dei suoi giorni; qui l’alimento delle sue memorie, qui gli scogli da cui avrebbe voluto spesso partire, ma per ritornare nuova; con l’animo e la mente intrisi dei tramonti e delle albe della sua antica e rinnovata memoria. Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. (Pavese, La luna e i falò). “…Ritorno con nell’anima lo sguardo/di una fanciulla intenta al corredo/che giocava spensierata a palla/sorridendo con le ancelle. Torno a sera/zeppo di vita,/ arricchito di genti di mari e di città/che colmarono in parte le mie voglie./ E questa è la mia sera:/ è un’ora che lascia/ all’incoscienza del mattino/la ricchezza del ritorno…”. (Nazario Pardini: La ricchezza della sera, da Le simulazioni dell’azzurro)
Ed è ogni angolo del suo mondo a farsi epigrammatico travaglio esistenziale, territorio di chiarori e penombre che l’ha veduta crescere. Ecco che la poesia si frantuma e si ricompone in un gioco di assemblements che dia per risultato gli stati d’animo di una vita concretizzata in quegli anfratti.  Ogni angolo sedimentato nell’anima parla di storie vissute, di vicende tristi o gioiose, di avvenimenti che mai scadranno, dacché avranno vita con la luminosità di un poema che li contiene.
Ed eccolo il navigatore che ha scorto  dalle onde non sempre tranquille del mare, il faro che illumina gli scogli del porto:

D’oro e di luce ti bagnerei lo sguardo,
improvvida luce del nostro primo
sentire, terra madre sbocciata dai polsi
di un piccolo nulla che in sé appalesa
tutti gli eventi.

Bisogna stare lontani, se non fisicamente, anche per un po’ spiritualmente, per apprezzare i ritorni. Da questi nasce l’epicità di un lirismo di epifanica rinascita. E la Poetessa si accorge, aprendo una finestra, di quanto sia estesa nella sua piccolezza, di quanto sia eterna nella sua futilità, quella terra. L’animo vola e svola. Esce dal corpo e frulla sugli angoli più nascosti di quel mondo. Se ne impossessa, li spreme, ne sugge le sostanze più segrete, per portarle con sé al suo rientro, dopo la sua fuga.  E il corpo vibra, la parola sente il bisogno di dire quello che il dentro detta. Tutto è colmo delle nuove sensazioni, è pieno di  salmastri nostrani, di urli di uccelli marini, di voci sussurrate ai silenzi, di battigie a una riva insaziabile di suoni; si va al di là dei colori e dei movimenti, si va al di là dei volti e degli spazi in questa foga di coniugare il sentire alla coscienza di esistere; ai misteri del contingente:

e chissà cosa si cela al di là,
cosa riluce nel grumo violetto .

La parola scorre limpida, serena, a volte concitata, altre riposata, a volte rapita, altre confusa, di fronte ad un mondo che l’ha vista balbettare, e che la vede ora matura, gonfia di substantia  da trasferire in epigrammatiche soluzioni; in versi di grande sonorità eufonica e di urgente resa poematica. Così si esprime nella presentazione la Poetessa: “…Qui un coro di voci diverse, attraversate talvolta da ombre, innervano e sostanziano il sentire facendo emergere ciò che sta celato nelle cose e negli istanti.
Sono le tante voci del mare, delle sue spiagge che, nella frenesia dell’estate, accolgono circa sei milioni di presenze turistiche. Sono i sussurri e i respiri più lenti della laguna con le sue valli e le sue barene incontaminate, di qualche borgo antico, ancora depositario dell’autentico, dei centri abitati e delle compagne intorno, adusi d’inverno ad affidarsi a una luce bassa, interstiziale, capace di tenere insieme ciò che resiste e ciò che potrebbe cedere in ogni momento…”. Sono i misteri della vita, delle cose che ci chiamano, di quelle che ci portiamo dietro, e che sono guida del nostro esser-ci.  Sono dentro queste cose le dolci illusioni, gli amorosi sensi, il focus del viaggio; e sono oltre esse gli orizzonti a cui aspiriamo spesso indecifrati e indecifrabili per il fatto che siamo umani, destinati  al dubbio di fronte alle questioni del vivere, cagioni della inquietudine-buon terriccio per la resa del canto. Il fatto sta comunque che noi viviamo loro accanto ed è proprio questa vicinanza a formare il retaggio delle nostre radici che inspiegabilmente ci vogliono a casa. Mistero dei misteri. Quattro i sottotitoli dell’opera: Radici, Cieli di voli e di assenze, Nutrimenti, Le parole per dirsi, che in un climax di fattiva generosità esplorativa, scavano, perlustrano, scoprono, e appuntano momenti di una storia dai risvolti intimamente profondi:

Considera di questo luogo isolato
la macchia viva del cielo:
un talento mite ma autorevole
inonda i campi e le case
di cose buone, lucenti.

Già nella prima sezione sembra appiccicarsi addosso alla Poetessa una luce che inonda i campi e le case. È la luce dei riflessi del cuore e della  vita, è la luce che da sempre ha accompagnato Donatella per farsi sempre più possente, sempre più splendente sulle cose raccolte in lei fin dalla sua nascita: Il mare, così silenzioso, così contrito, Le molte voci, Il Faro di Punta Sabbioni, I due campanili, Il Faro di Cavallino, Forte Vecchio, Barene, La pineta… un excursus puntuale; un ritratto geografico e panoramico del cuore; di tutto ciò che si erge con luminosità accecante per “noi figli di un acquoreo disegno all’infinito.”. Ed è di questo infinito che si ciba la Nostra, la sua intenzione poetica, di un volo verso l’alto per trasferire tutto ciò che si è fatto immagine nella purezza dei cieli; dacché tutto ciò che Ella ammira non è altro che un ritorno di giochi che, dopo aver attraversato il campo dell’inconscio, è tornato agli occhi come cosa nuova, sacra, da tenere vicina come questione di aria da respirare.  “non sono troppe le parole da dire, basta quel tuo esserci accanto”. E dove niente può essere notte, può essere buio, può essere nulla e dove persino la sera “la lucida sera/sì, è una trepida sera l’incantata/verticalità di un’attesa.”. E nell’ipotetica assenza che sarà del troppo dolore? “Turbata bellezza, quasi da morirne,/che ne sarà del troppo dolore?/ Fremente nell’ala, che ne sarà/ del fitto mistero che ci abbrividisce?/ Forse mai lo sapremo./…/ Diffonde il fuoco della mancanza/ la grazia crudele di un indocile/ pigolio.”.  Ed è un amore incalzante, eterno, infinito, avvincente, a farsi mistero, a farsi domanda incalzante, questione quasi escatologica. Ma i nutrimenti? L’alimento?: l’estate lenta, sere di paese, una nuvola, il vanto del fiore, la campagna, foglie, poesia… un mélange di cospirazioni; un groppo che prende la gola e che chiede spazio per farsi poesia. Sì, per farsi canto ma per tale combinazione occorre il mezzo più umanamente disumano: la parola. Quella per dirsi. Il valore aggiunto nella silloge della Nardin. La grammatica del poièin richiede ben altro, non è di certo sufficiente lo spazio della tradizionale morfosintassi. Bisogna volare, andare al di là dell’etimo, con invenzioni iperboliche, con costruzioni di sintestetica significanza, con iuncturae di personale fattura. Questo è il non semplice intervento di una Poetessa che dagli abbrivi emotivi, dalle vertigini di panica intrusione, dalle scosse di una elettricità a 200 words riesce a ricavare un poema tanto vicino alla laguna di ognuno di noi.

“Si scioglie agosto nell’arcano marino,
precipitando dilegua, ma prima
di andare nello stupore incendia
le minuscole ignavie degli occhi.”


“Acqua, sorgente fertile, perfetta
di questo canto imperfetto che
all’anima giovando, doma l’arsura
e alle soglie del nostro segreto
- per fame o per amore -
per mano ci conduce.”

Nazario Pardini



Nota dell’autrice

Questa raccolta poetica è ispirata in larga misura e dedicata a Cavallino Treporti, il paese dove sono nata e vivo e a Venezia, la città che, affacciandomi a una delle finestre di casa, mi entra negli occhi.
Cavallino Treporti è una lingua di terra incuneata tra il mare Adriatico e la laguna nord veneziana, uno spazio fisico dunque, ma anche il luogo dell’anima e del pensiero, una materia intima, emozionale atta a definire una precisa identità e una specifica appartenenza.
Qui un coro di voci diverse, attraversate talvolta da ombre, innervano e sostanziano il sentire facendo emergere ciò che sta celato nelle cose e negli istanti.
Sono le tante voci del mare, delle sue spiagge che, nella frenesia dell’estate, accolgono circa sei milioni di presenze turistiche. Sono i sussurri e i respiri più lenti della laguna con le sue valli e le sue barene incontaminate, di qualche borgo antico, ancora depositario dell’autentico, dei centri abitati e delle compagne intorno, adusi d’inverno ad affidarsi a una luce bassa, interstiziale, capace di tenere insieme ciò che resiste e ciò che potrebbe cedere in ogni momento.
Ma il corpo vibrante, l’elemento vivo che nella contingenza delle trame e degli eventi, negli incontri e negli addii, nutre e potenzia l’immaginario è l’acqua, il principio primo, la sostanza simbolica, lustrale sempre pronta, in un’osmosi continua tra uomo e natura, ad incardinarci alla sua impalpabile essenza così come ai suoi frammenti pittorici sorti dalla semplicità di un’intuizione, da una pronuncia melodiosa o da qualcosa di oscuro, d’indicibile.
A tutto ciò il mio omaggio sincero, il mio attaccamento, la mia modesta restituzione in poesia.



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