"I dintorni della vita" di Nazario
Pardini
(Guido Miano Editore)
"... E padri e madri, / ci furono sottratti
dalle fauci / di un essere insaziabile, di un mostro / che cantava i peana
sulle stragi / che attorno seminava: terremoti, / guerre fratricide senza fine,
/ barche sperdute in mari indifferenti, / innocenti caduti in primavera, /
esseri che, invasi da morbi mortali, / in preda a lancinanti sofferenze, / ti
chiamavano - morte - e ti pregavano / di cessare una storia di dolore." Malgrado ciò, "Alla
fine fu luce; fu clangore; / la strada si diresse verso il cielo / dove anche
la morte si piegò / dinanzi ad una volta luminosa / che non conobbe il buio. E
non ci fu / più spazio per andare: fu riposo, / fu calma; e fu quiete / il
porto a cui approdammo / dopo mari in burrasca, / dopo onde levate alla
deriva". In questi versi incipitari si condensa la storia narrata ne "I dintorni della vita".
E' questo il titolo del
terzo volume della trilogia dei "Dintorni"
di Nazario Pardini, edita in seconda edizione da Guido Miano nel 2021. Il
sottotitolo, inquietante ed intrigante, è "Conversazione
con Thanatos"; e, come annota Floriano Romboli in prefazione, "può
sembrare curioso che un complesso di liriche intitolate alla Vita si richiami con insistenza e
sistematicità alla Morte". Curioso
e paradossale, direi, data l'evidente contraddizione (e meno male che esistono
le contraddizioni!). Stando ad Epicuro, al contrario, la morte e la vita si
evitano, non s'incontrano mai, perché quando c'è lei non ci siamo noi, e viceversa.
Una sorta di comodo esorcismo teso a scansare la paura della morte, senza
neppure sospettare quanto quella paura possa fare da stimolo alla nascita e allo
sviluppo del carpe diem.
Non è vero che vita
e morte si ignorino, sono anzi in stretta relazione tra di loro, tant'è che noi
possiamo parlare di vita mortale. Esse
nascono l'una dall'altra, come il giorno e la notte, l'estate e l'inverno, ed
ogni altra coppia di opposti esistenti in natura. Si conoscono proprio in virtù
della loro contrapposizione: "O
primavera! / Torna fulgente sopra i verdi prati, / sopra le acque che il mare
frantuma / col vento di levante! Torna sempre, / cocciuta, come sei, a
rinfrescare / l'aria frizzante delle tue memorie, / i ritorni perenni dei
rondoni, / che nessuno potrà mai rapinare!". S'instaura così un
dialogo tra i contendenti ("Vieni un
pochino qua da me, parliamone"), e alle richieste del'uomo, la morte
si mostra indulgente, fino a concedergli una pausa di vita, purché lui non la
dimentichi e continui a sentirla vicina.
Floriano Romboli,
nelle sue argomentazioni, riporta un pensiero di Bino Sanminiatelli, che nei
suoi Diari scrive: "Sentirsi
vivere significa (generalmente e mondanamente) dimenticare la morte. Sentirsi
vivere, invece, non è altro che sentirsi morire" (...). A me non interessa
l'uomo nei suoi rapporti sociali, quanto l'uomo di fronte alle cose della
natura, all'amore, alla morte, all'esistere nell'universo", giacché con la
morte "crolla nel nulla l'illusorio sodalizio creato da vivi. Ritroviamo
la solitudine della nostra preesistenza". Anche Lucio Anneo Seneca - ricorda
l'illustre Critico - "raccomandava di familiarizzarsi progressivamente con
la prospettiva della fine individuale, rilevando il carattere liberatorio (...)
del contenimento e della crescente limitazione degli impulsi che legano alla
vita".
L'orizzonte poetico
di Pardini non è stoico, così come non è epicureo. La sua adesione senza
riserve alla gioia nasce dalla profonda conoscenza del dolore: "Maledetta
tavolaccia! / Aveva gli occhi lucidi di vita, / aveva le memorie di un
virgulto, / aveva dell'amore solo il sole. / Maledetta tavolaccia! / E
maledetta pure tu, morte. / Aveva gli anni della primavera". La luce
scoppia nelle tenebre: filosofia ancestrale che capovolge il sostanziale
nichilismo dei nostri tempi, fermo all'idea che siano invece le tenebre a
soffocare la luce. Interessante un confronto con il pensiero heideggeriano, laddove
il filosofo dichiara che dalla vita inautentica l'uomo, il Dasein, può sfuggire solo imparando a vivere per la morte, uscendo
in tal modo dalla morsa dell'esistenza anonima, sotto il dominio del si dice, si pensa, si fa.
Prospettive lontanissime
dalla visione pardiniana che, nutrita della sana memoria dei borghi, possiede
un'idea assai diversa del sodalizio umano, profondamente verace nelle sue
espressioni vitali, minacciate proprio da Thanatos,
dissipatore dei valori positivi dell'umanità. Lontano anni luce dai moderni
paradisi artificiali, il poeta pisano ha una considerazione della cura diametralmente opposta a quella dell'uomo
gettato nel mondo (la deiezione heideggeriana),
che può tornare autentico solo rinunciando alla chiacchiera, alla finzione, alle frivolezze della mondanità. L'orizzonte
di Pardini, schiettamente realistico e tutt'altro che mistico, è nondimeno refrattario
a ciò che di norma intendiamo per mondanità. Poetica che esalta i valori
positivi di Eros in antagonismo con Thanatos.
Tanto che - conclude
il Romboli - "dalla correlazione antinomica risulta un elogio della
vita". Pardini, in conclusione, familiarizza con la morte proprio
avversandola, con ciò evitando il rischio di un manicheismo conflittuale. Non elogia la morte con intenti ascetici, ma la
umilia e l'affronta a viso aperto per esaltare gli opposti valori della vita.
Un incontro/scontro incandescente e dolcissimo: "Mi è presa la mania di parlare / con te. L'odio e l'amore si
completano in questo strano gioco. Confidarti / tutte le mie impressioni e i
pensamenti / sta diventando vera bramosia; / non vedo l'ora di sentirti
accanto; / eppure tu, maligna e bieca in fronte, / non è che poi mi dia tanto
piacere / nel vederti vicina". Pasquale Balestriere, in postfazione, conferma
tale sorta di inimicizia fraterna, tale convivente conflittualità.
"Questa silloge
- egli dice - descrive... un viaggio esistenziale... dove la presenza della
Morte... è comunque sempre contrastata e pareggiata dalla bellezza della vita
che ne riduce o addirittura annulla l'influenza negativa". Un modo umanissimo
per dire che la luce e le tenebre sono sorelle, pur guerreggiandosi ferocemente
tra di loro. Il risultato finale è un mondo di rarefatte e solidissime armonie.
Tanto che nella parte finale del libro, nell'ultima lirica soprattutto (Si aprirono i cieli), il poeta approda -
dice Balestriere - ad una sorta di "apoteosi della salvezza, dove si perde
in forma di eco ormai lontana e sbiadita anche il motivo centrale della
silloge, e cioè il confronto/scontro tra l'Uomo e la Morte, che si era già
determinato in forma di tregua, senza vincitori e vinti":
"Si aprirono i cieli, / la luce incoronò valli
ed abissi, / e tutto fu chiarore. / Caddero a pioggia gli angeli dall'alto, /
schioccarono le ali / sugli spazi mortali. / Si aprirono le tombe, / la morte
si redense in cherubino. / Dovunque fu un abbraccio / di fratelli, madri, padri
/ ... / E tutto fu sereno, / e tutto illuminato dalla luce del cielo. / Vinsero
i giorni universali, / non fu più notte, / non fu più tempo, / non fu più fine,
/ né principio, / fu la gloria che espanse il suo potere /... / Fu gioia. Fu
luce attorno, accecante, / nelle case, sul mare e per le vie. / Fu luce nelle
anime, / che vollero l'amore, / dimentiche di guerre e di terrore. / ... /
Vinse l'amore, e nella notte / si accese la lampada divina, / grande,
enormemente forte, / più che d'agosto la calura estiva. / Più che di giorno la
gloria del Signore" ("Si aprirono i cieli").
Un'atmosfera vagamente
religiosa - commenta Balestriere - che tuttavia "non segue
l'ortodossia", in quanto "a rallegrare la realtà oltremondana vengono
assunte serenate di Schubert, notturni di
Chopin, cori di Puccini"; il tutto condito da umanissime danze e da
terreni abbracci". Ed è l'"attingimento di un paradiso
terrestre", anziché celeste, dove però il conflitto fra Cielo e Terra, Eros e Thanatos (ed ogni altra coppia di opposti) può finalmente
risolversi in armonia. Così, dopo aver superato gli ostacoli che li ponevano in
guerra tra di loro, il Bene ed il Male si affratellano, e Vita e Morte si lasciano
rapire dalla legge dell'Amore universale. Conclude il libro uno svolazzo
letterario di Maria Grazia Ferraris sul Serchio, il fiume di Nazario Pardini,
intorno al quale egli ha costruito l'intera sua esistenza di amore e di poesia.
Franco Campegiani
Leggendo la profonda analisi del testo del caro Nazario Pardini, di Franco Campegiani, il pensiero è andato a "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo e al suo assunto: "La vita non è né brutta né bella, ma è originale A differenza delle altre malattie è sempre mortale. Non sopporta cure." Il nostro esegeta, infatti, leggendo il Poeta ne "I dintorni della vita" afferma: "Non è vero che vita e morte si ignorino, sono anzi in stretta relazione tra di loro, tant'è che noi possiamo parlare di vita mortale. Esse nascono l'una dall'altra, come il giorno e la notte, l'estate e l'inverno, ed ogni altra coppia di opposti esistenti in natura." L'armonia degli opposti si rivela ancora una volta vincente. E il critico Floriano Romboli si allinea al recensore asserendo che nel viaggio esistenziale la presenza della Morte è sempre pareggiata dalla bellezza della vita. Pensando all'Opera di Nazario è inevitabile concepirla come un modo di vivere limpido e generoso, orientato verso l'equanimità, verso un relativismo irriverente ed autoironico, senza alcuna concessione a forme di superomismo . E mi unisco all'ottimo esegeta anche nel dire che la morte non è la più grande perdita nella vita. La più grande perdita è ciò che muore dentro di noi mentre stiamo vivendo. Complimenti vivissimi al nostro Franco e al Vate. Li stringo entrambi!
RispondiEliminaMi gratifica molto questo tuo confronto con Italo Svevo e con "La coscienza di Zeno". Grazie, non ci avevo pensato. Il protagonista di quel romanzo, in effetti, vive la vita come una malattia "mortale", da cui è impossibile guarire, ma che proprio in virtù di ciò offre continue e feconde occasioni di crescita coscienziale. E' una stupenda metafora della precarietà, dell'instabilità e della "crisi", viste come stimolo di maturazione interiore, di evoluzione spirituale. E ciò costituisce esattamente il nucleo della poetica pardiniana. In generale, ma particolarmente in questa silloge, dove il poeta sorprende la Vita e la Morte a dialogare fittamente tra di loro. Ti ringrazio, cara Maria per questo illuminante contributo.
RispondiEliminaFranco Campegiani